CAPITOLO I
I FENOMENI DELLA DEVIANZA E DELLA
MARGINALITA’ NELLA SOCIETA’
1.1 SENZA REAZIONE NON C’ DEVIANZA
La socializzazione è una caratteristica ontologica, ossia connaturata alla condizione
umana, essendo l’uomo un animale sociale. Questo concetto è noto alla filosofia fin
dai tempi di Aristotele cui si deve la definizione dell’uomo come “animale sociale”,
nel senso che acquista la sua individualità attraverso la relazione. L’influenza sociale,
l’attrazione sociale, la comunicazione, la coesione, il cambiamento, sono alla base
delle dinamiche che regolano la vita dei gruppi, delle organizzazioni e delle
istituzioni.
3
All’interno dei moderni sistemi sociali complessi, la comunicazione è stata
determinante per permettere agli individui di acquisire e interiorizzare quelle stesse
norme, quegli stessi valori e modelli di comportamento indispensabili per
l’integrazione e la coesione sociale.
4
Negli Stati Uniti, dalla prima metà del Novecento, si afferma nell'ambito della
sociologia e psicologia sociale l'interazionismo simbolico. Il termine fu coniato da
Herbert Blumer
5
nel senso che il comportamento umano è il mero prodotto
dell'interazione sociale ossia le azioni umane si fondano sui significati che gli attori
sociali attribuiscono alle cose. Essi arrivano a definire se stessi e gli altri, attraverso il
processo comunicativo e di simbolizzazione, partendo dall’idea basilare che la mente
e il sé non sono elementi innati, bensì costruiti dall’ambiente sociale. Gli individui
apprendono identità e valori nel corso della socializzazione, mentre imparano a
conoscere il significato sociale assegnato ai vari comportamenti. I significati
vengono modificati costantemente, dall'azione che gli esseri umani esercitano nel
loro contesto sociale.
6
3
Cfr. La voce “Socializzazione ”in U. Galimberti., Dizionario di psicologia, L'Espresso, Novara, 2006, p.231.
4
Cfr. P. Dominici., La comunicazione nella società ipercomplessa, Aracne, Roma 2005, p.27.
5
Cfr. H. Blumer, (1968), Symbolic Interactionism: Perspective and Method, op.cit. in R. Cavallaro, Lexikòn.
Lessico per l'analisi qualitativa nella ricerca sociale, CieRre, Roma, 2006, pp. 270-274.
6
Ibidem, pp. 270-274.
8
Mead,
7
considerato tra i padri fondatori della psicologia sociale affronta il problema
di valori ed etica. I valori fondamentali nascono dal processo d’interazione tra
individui e ambiente, sono riscontrabili perciò nella realtà. Il linguaggio fornisce di
senso la realtà, elaborando simboli che assumono un significato condiviso, tra
emittente e destinatario, consentendo l'immedesimazione del primo nel secondo e
viceversa. Tramite questo processo, si costituisce una realtà formata da oggetti di
senso comune. Attraverso una serie di significati condivisi, si sviluppa il Sé.
Attraverso il Sé e la comunicazione con gli altri, l’individuo impara a comunicare
con se stesso. Il Sé non si manifesta in un unico modo in ogni rapporto, ma tende a
presentarsi in modi differenti secondo le persone e delle situazioni in cui si trova,
secondo i ruoli che di volta in volta esercita. Mead distingue il Sé in Me ed Io. Il Me
risponde agli atteggiamenti organizzati degli altri che noi assumiamo in modo
preciso e che determinano di conseguenza la nostra condotta per quanto ciò è proprio
di un carattere cosciente del sé. Ora il Me può essere considerato come ciò che da la
forma all’Io. La novità è prodotta dall’azione dell’Io, ma la struttura, la forma del Sé
è convenzionale.
8
L’Altro generalizzato rappresenta l'esito dell’interiorizzazione delle attese altrui;
infatti il soggetto assume nei confronti del suo Sé, gli stessi atteggiamenti, che gli
altri hanno verso di lui. I simboli possono essere compresi perché in tutti noi vi è
l’altro generalizzato, attraverso il quale siamo capaci di metterci al posto dell’altro e
quindi di vedere o sentire ciò a cui il segno si riferisce.
Senza l'Altro generalizzato, i segni non comunicherebbero nulla.
I principi che regolano il comportamento umano e collettivo, sono dei prerequisiti
funzionali, senza i quali, i gruppi e i sistemi sociali non possono evolversi verso una
maggiore specializzazione. La condotta morale è sempre la risultante del rapporto tra
individuo e società, tra l'altro generalizzato e il sé. La realtà oggettiva è pervasa dal
caos, per cui la conoscenza e la condotta pratica, richiedono un processo di riduzione
della complessità e di selezione della realtà stessa in base ad una gerarchia di valori
che dipendono dal contesto socioculturale.
9
Ogni situazione prevede un proprio ruolo, una propria identità, propri
comportamenti, secondo il contesto sociale, ad esempio: in ambito scolastico, si
assume il ruolo di studente; a casa di genitore, e così via.
La capacità di interpretare la situazione sociale, di definire e conoscere i significati di
un dato sistema culturale, rientra nella competenza socioculturale della
comunicazione. Mead chiarisce la definizione di istituzioni e afferma che si può
parlare di istituzioni quando, di fronte a determinate situazioni, i membri di una
società reagiscono in modo analogo. Mead è sicuro che la democrazia universale
derivi dallo stesso processo di interiorizzazione simbolica.
7
Cfr. G.H. Mead, (1934), Mind self and society, op. cit. in P. Dominici, La comunicazione nella società
ipercomplessa, Aracne, Roma 2005 pp. 176-177.
8
Cfr. G.H. Mead, (1934), Mind self and society, in U. Galimberti., Dizionario di psicologia, L'Espresso,
Novara, 2006, pp. 423-424.
9
Cfr. G.H. Mead, (1934), Mind self and society, op. cit. in P. Dominici, La comunicazione nella società
ipercomplessa, Aracne, Roma 2005 pp. 176-179.
9
Charles Horton Cooley, tra i primi teorici dell'interazionismo simbolico, distingue tra
“gruppo primario” e “’gruppo secondario”.
10
I gruppi primari sono la famiglia, il
gruppo di gioco; sono detti primari, perché nel loro ambito avviene il processo di
socializzazione primaria, che delinea quel processo attraverso il quale sono
interiorizzate le norme più importanti, fondamentali per il formarsi dell’identità e
dello spirito sociale. I gruppi secondari sono la parte specializzata e relativamente
rigida della struttura sociale, sono composti da un numero elevato di membri le cui
relazioni interpersonali sono affettivamente neutre; inoltre, in questo tipo di gruppo i
rapporti tra il singolo e gli altri membri del gruppo sono di tipo strumentale, cioè
funzionali al conseguimento di uno scopo.
La Scuola di Chicago, analizzando la complessità e la relatività della vita sociale con
la sua molteplicità di ruoli necessari, comprese la devianza e concettualizzò il
comportamento umano come relativo. Essendo gli individui creature complesse in
grado di adattarsi a stili di vita differenti, la Scuola di Chicago, considerò la
comunità il principale elemento di influenza sul comportamento dei singoli.
L’ambiente umano era da ritenersi la città, “un microcosmo dell’universo umano”.
11
Il comportamento umano varia secondo i valori e delle regole del gruppo cui
appartiene, spesso tali comportamenti, consoni al loro contesto specifico, diventano
invece devianti per il resto della società. Gli individui finiscono per essere devianti
poiché membri di gruppi diversi applicano definizioni differenti alla situazione
sociale che condividono. L’interazionismo simbolico, è stato uno delle prospettive
teoriche più feconde della Scuola di Chicago. Esso riconduce ad un’origine sociale
sia i comportamenti sia la formazione dell'individualità.
12
La devianza è definita
come il risultato della percezione che le persone hanno le une delle altre, può sorgere
inoltre dal fraintendimento della situazione da parte degli individui.
Alla fine degli anni '50, negli Stati Uniti, la società civile si rese conto della
disuguaglianza sociale; gli scienziati sociali si dedicarono agli effetti che la classe
sociale e l'etnia avevano su chi veniva in contatto con il sistema penale. L'approccio
dell'etichettamento nacque come prospettiva tesa a sensibilizzare. La teoria
dell'etichettamento, infatti, è un erede dell'interazionismo simbolico della scuola di
Chicago. Uno dei primi autori fu Edward Lemert, che analizzò con l’approccio
interazionista le patologie sociali, incluso il difetto di balbettare diffusa tra i
pellerossa della costa occidentale degli Stati Uniti.
13
Molti criminologi fanno risalire
la teoria dell'etichettamento a un libro scritto nel 1938 da Frank Tannenbaum,
intitolato Crime and the Community. Secondo Tannenbaum la causa reale della
devianza era l'affissione dell'etichetta, in quanto l'etichetta identifica la persona come
10
Cfr. C.H. Cooley (1902), Human nature and social order, op.cit. in R. Cavallaro, Lexìcon, Lessico per
l'analisi qualitativa nella ricerca sociale, CieRre, Roma, 2006.
11
Cfr. D. Matza (1969), Becoming deviant, op. cit. in F. P. Williams, M.D. McShane, Devianza e criminalità, Il
Mulino, Bologna, 2002, [ed. originale: Criminological Theory, Englewood Cliffs, N.J.,Prentice Hall. 1994] p. 55
12
Ibidem, pag.61
13
Cfr. E. H. Lemert (1951), Social pathology: A systematic approach to the theory of sociopathic behavior,
op.cit. in F. P. Williams, M.D. McShane, Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 2002,
[ed. originale: Criminological Theory, Englewood Cliffs, N.J.,Prentice Hall. 1994] p. 121.
10
deviante e ne modifica l'autoimmagine.
14
Becker analizzò la devianza, come dipendente dal punto di vista di chi osserva,
poiché i membri dei vari gruppi hanno concezioni differenti su ciò che è giusto o
sbagliato, hanno regole che variano secondo le situazioni. Una falsa etichetta, per il
solo fatto di essere stata applicata può diventare la verità di quelli che sono pronti a
credervi. Lo studio della devianza dal singolo attore e dal singolo atto, sposta
l'attenzione verso l'opinione pubblica. La società, inventa la devianza nel senso che i
gruppi sociali stabiliscono che cosa è devianza, definendo le norme la cui infrazione
comporta l’attribuzione della qualifica deviante. L’attore deviante è una persona
particolare che è etichettata come outsider. La devianza è perciò l’effetto
dell'applicazione di certe regole da parte di alcuni, ovvero etichettatori a danno di
trasgressori. Tutto ciò provoca una reazione sociale, il cui studio sembra interessare
le nuove teorie sulla devianza che, evitando di rintracciare le sue cause in un pattern,
adottano un modello flessibile dell’azione umana, unicamente interessate ai
meccanismi di etichettamento, che rappresentano la reazione sociale alla devianza. Si
sostiene in maniera rivoluzionaria, che non è la devianza che genera il controllo
sociale, ma all’opposto, è il controllo sociale che porta alla devianza.
15
L’attuazione del processo di etichettamento, inteso in senso generale, significa
evidenziare una determinata caratteristica (fisica o comportamentale) del soggetto
che, non essendo accettata dalla società, diviene una causa discriminante. Basta
l'attenzione collettiva su una determinata caratteristica, che induce ad allontanare, a
screditare un soggetto, spezzando il carattere positivo che gli altri suoi attributi
potevano avere. In seguito a questa modificazione dei giudizi, l'individuo subisce una
frattura tra l'identità sociale, virtuale e quella attuale. Le conseguenti reazioni dello
stigmatizzato possono essere di diverso tipo, ma tendenzialmente sono caratterizzate
dall’esigenza di adattarsi a una situazione di esclusione identificandosi con coloro
che condividono lo stesso stigma. Il termine stigma fu usato per la prima volta dai
greci, per indicare i segni fisici associati agli aspetti insoliti e criticabili, della
condizione morale di chi li aveva. Questi segni erano incisi nel corpo con il coltello
per rendere chiaro a tutti che chi li possedeva era uno schiavo, un criminale o in ogni
caso una persona infame, che doveva essere schivata. Oggi si ritiene che lo stigma
sia un concetto che produce profondo discredito, una frattura tra l'identità sociale
immaginata (sé sociale) e l'identità sociale attualizzata (sé individuale). Il termine
stigma è riferito soltanto come attributo profondamente dispregiativo, dove conta
molto il linguaggio dei rapporti e non quello degli attributi.
16
L'etichetta attrae l'attenzione di chi etichetta, che osserva e rafforza l'etichettamento
14
Cfr. F. Tannenbaum (1938), Crime and the community, op.cit. in F.P.Williams, M.D. McShane, Devianza e
criminalità, Il Mulino, Bologna, 2002, [ed. originale: Criminological Theory, Englewood Cliffs, N.J.,
Prentice Hall. 1994] p. 122.
15
Cfr. H.S. Becker (1963), Outsiders: Studies in the sociology of deviance, op.cit. in F.P.Williams, M.D.
McShane, Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 2002, [ed. originale: Criminological Theory,
Englewood Cliffs, N.J.,Prentice Hall. 1994] pp. 122-125.
16
Cfr. S. Fortunato, Nuovo manuale di metodologia peritale, Ursini, Catanzaro, 2007, p. 266.
11
dell'individuo; la persona interiorizza l'etichetta, arrivando ad autodefinirsi deviante.
L’etichetta, quindi, non produce di per sé la devianza e il deviante: è l’individuo che,
confrontandosi con i pregiudizi, gli stigmi e il bando nel corso della sua esperienza,
costruisce attivamente le proprie azioni e sceglie quale strada intraprendere. Le cause
dell'etichettamento furono spiegate da Becker: egli sostenne che l'etichettamento è il
risultato della reazione sociale, la devianza è creata dal gruppo sociale, che stabilisce
delle regole, la cui violazione costituisce atto deviante. Da questo nuovo
orientamento teorico, la devianza non consiste nella qualità dell'atto che una persona
commette, ma è una conseguenza dell'applicazione delle regole e sanzioni su di un
reo. Il deviante è uno cui questa etichetta è stata applicata con successo; il
comportamento deviante è il comportamento che le persone così etichettano. La
devianza sta nello sguardo di chi osserva, è la reazione a determinati comportamenti
definiti devianti, che crea la devianza.
17
Accanto alla reazione sociale, bisogna considerare anche la reazione individuale, che
consiste nel modo in cui una persona reagisce all'etichetta. Quando l'etichettata è una
persona vulnerabile, che non ha grande stima di sé, allora interiorizza l'etichetta,
modificando di conseguenza la sua identità. Il feedback costituisce un ruolo
determinante nelle ridefinizione della propria identità.
18
Lemert definì questa seconda
forma di etichetta come devianza secondaria; il percorso verso la devianza
secondaria avviene nel seguente modo: 1) devianza primaria; 2) sanzioni sociali; 3)
ulteriore devianza primaria; 4) sanzioni e emarginazioni più intense; 5) ulteriore
devianza, seguita da ostilità e risentimento; 6) la crisi tocca la soglia della tolleranza,
manifestantesi attraverso la stigmatizzazione formale del deviante da parte della
comunità; 7) perpetrazione della condotta deviante, in reazione alla stigmatizzazione
e alle pene subite; 8) accettazione finale dello status sociale di deviante e
adattamento al ruolo ad esso associato.
19
Quando la persona accetta l'etichetta, attraverso uno scambio reciproco, ne consegue
che entra a far parte di una subcultura che produce ulteriore devianza. Per far fronte
ai problemi che derivano dalla reazione sociale, la persona adotta il comportamento
deviante come uno strumento di difesa. Il processo di etichettamento crea la devianza
secondaria. Ad esempio nel caso venga scoperto un giovane a provare una droga
leggere come ad esempio la marijuana, verrà etichettato da qual momento in poi
come “consumatore di stupefacenti”. Nel caso il giovane venga nuovamente
scoperto, l’etichetta comincia a rafforzarsi e la reazione sociale sarà quella di
trattare il ragazzo come un tossicodipendente. Di fronte all’emarginazione subita
dagli altri, può succedere che il giovane accetti la definizione e cominci a
frequentare gruppi di tossicodipendenti. L’identificazione con l'immagine
17
Cfr. H.S. Becker (1963), Outsiders: Studies in the sociology of deviance, op.cit in F.P.Williams, M.D.
McShane, Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 2002, [ed. originale: Criminological Theory,
Englewood Cliffs, N.J.,Prentice Hall. 1994] pp. 123-124.
18
Cfr. E.H. Lemert (1951),Social pathology: A systematic approach to the theory of sociopathic behavior, op cit.
in F. P .Williams, M.D. McShane, Devianza e criminalità, Il Mulino, Bologna, 2002, [ed. originale:
Criminological Theory, Englewood Cliffs, N.J.,Prentice Hall. 1994] p. 127.
19
Ibidem, p. 127.
12
socialmente codificata del deviante, ma anche con la subcultura della devianza a cui
egli partecipa, l’assuefazione del comportamento deviante crea la devianza
secondaria
20
1.2 ISTITUZIONI TOTALI
Un'istituzione totale rappresenta un sistema chiuso, che applica una reclusione. Si
può annoverare tra questi una prigione, un manicomio, un collegio. Qualunque
sistema esso sia, recide l'individuo da ogni contatto con la realtà esterna, lo priva
della vita sociale, fino ad annullare la sua identità, abbandonandolo ad una totale
solitudine.
Goffman definisce questi sistemi chiusi “totali” perché il loro carattere inglobante è
continuo, permanente, soggetto ad un potere. Le istituzioni totali rappresentano il
luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per
un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune,
trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato.
Individua cinque categorie fondamentali:
1.le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi (istituti per ciechi, sordomuti,
disabili, anziani, orfani, indigenti);
2.le istituzioni ideate e costruite per recludere chi rappresenta un pericolo non
intenzionale per la società ( ospedali psichiatrici, sanatori);
3.le istituzioni finalizzate a recludere chi rappresenta un pericolo intenzionale per la
società (carceri, campi di prigionieri di guerra );
4.le istituzioni create per lo svolgimento di un'attività funzionale continua (navi,
collegi, piantagioni, grandi fattorie);
5.le istituzioni che richiedono il distacco volontario dal mondo (conventi,
monasteri).
21
Pur variando le forme fenomeniche del luogo di reclusione, i processi di riduzione
del sé sono sempre legati ad uno sviluppo di mortificazione, in quanto tali persone si
sentono esclusi dalla vita esterna, costretti a vivere in una quotidianità che sentono
estranea. Maria Luisa Marsigli nel suo libro “La Marchesa e i Demoni”, descrive la
vita in un ospedale psichiatrico, denunciando le macabre condizioni dei pazienti,
colpevoli e non più vittime della loro malattia. L'addestramento alla medicina e alla
psichiatria consiste nell'esplicazione di un ruolo di potere, dove il sapere, la
professionalità, che avrebbero dovuto agire al fine di un rapporto terapeutico, si
traducono in uno strumento di dominio e di distanza. Il malato diviene colpevole
della malattia quando non risponde alle cure messe in atto dal medico, egli è
20
Ivi, 127-128.
21
Cfr. E. Goffman (1961), Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Enaudi,
Torino, 2001, [ed. originale Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates].
13
responsabile del fallimento, mai il medico. Il malato, è il muto testimone della sua
impotenza, è peccatore della sua incapacità di reagire e stabilire un contatto che vada
oltre la reclusione. L'internato è consapevole dei soprusi, della violenza, di cui è
oggetto, ma deve solo subire, perché la fuga comporterebbe ulteriore punizione,
castigo: bisogna che la vittima si autoqualifichi bestia umana attraverso le sue grida e
la sua sottomissione, agli occhi di tutti e davanti a se stessa; allora si avrà un quadro
della malattia che l'istituzione ne ha costruito, così come il vinto si riconoscerà e sarà
riconosciuto come un sotto-uomo, nel momento in cui egli stesso si giudica
spregevole. La terapia perciò è usata per espiare il demone che si è impossessato del
corpo dell'internato.
22
Una sorta di punizione che va aldilà di qualsiasi forma di
umanità. Le indecenti condizioni di vita degli ospedali psichiatrici, promossero la
promulgazione di un nuovo metodo terapeutico, l'antipsichiatria, che consisteva nella
presa di coscienza della vera ragione di sofferenza del malato tramite interventi di
ordine psicoterapico, e politico-sociologici.
Franco Basaglia si avvicinò a questa corrente di pensiero, considerando la follia una
condizione umana che esiste ed è presente in ugual misura della ragione, il vero
problema è che la società si rifiuta di accettarla, diffidando di ciò che non conosce,
incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia, allo scopo di
eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’ esistere.
Nel 1978 fu promulgata in Parlamento la legge 180/78, chiamata “Legge Basaglia”,
che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario
obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Il tentativo di comunicare
al mondo il valore delle persone che entrano in una istituzione che li priva di
qualsiasi umanità, fu manifestato dalla forza incriminatrice della fotografia. “Morire
di Classe” è il reportage realizzato da fotografi quali D'Alessandro, Cerati, Berengo
Gardin, che entrano negli ospedali psichiatrici come testimoni, realizzando,
attraverso la fotografia, una prova comunicativa della repellente situazione nei
manicomi e la necessità di chiuderli. La fotografia attraverso la sua fedeltà, diventa
protagonista di questa brutale realtà.
23
L'articolo 27 della Costituzione italiana, 3° comma recita: “Le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”
Come afferma Montesquieu, ogni atto di autorità di un uomo verso un altro uomo,
qualora non ce ne sia bisogno, è un comportamento tirannico. I principi fondamentali
del vero diritto, che servono per punire i delitti, si trovano nella politica morale non
nell'usurpazione.
24
Gli internati negli ospedali psichiatrici, i detenuti delle Case
Circondariali, condividono la stessa esperienza di deprivazione. Vengono colpiti
nella propria umanità, in quanto sottratti alle stimolazioni relazionali, sociali ed
22
Cfr. M.L. Marsigli, La marchesa e i demoni. Diario da un manicomio, Feltrinelli, Milano, 1973.
23
Morire di classe, la storie per immagini, La Repubblica, L’Espresso Spa, disponibile sul sito:
http://www.repubblica.it/2006/08/gallerie/spettacoliecultura/berengo-gardin/1.html accesso: 12/2010.
24
Cfr.. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Mondadori, Milano, 1991, pp. 34-35.
14
ambientali. Goffman si sofferma sui comportamenti e gli atteggiamenti degli
internati, partendo dall’idea che il sé di ogni individuo sia la conseguenza della scena
in cui il soggetto è inserito. Le istituzioni totali non fanno altro che distruggere il sé
di una persona e gli attribuiscono un’identità modificata. L’individuo viene privato di
tutto ciò che fa parte dei suoi strumenti scenici (l’abito, il nome, la possibilità di
ritirarsi dalla scena), che gli permettono di affermare la propria identità ed è costretto
ad assumere un nuovo ruolo scenico, quello che l’istituzione pretende da lui, tramite
l’obbligo di assumere caratteristiche diverse (il pigiama divisa, il non lavoro, la
discussione in pubblico di aspetti privati).
25
Tra i detenuti vi è una comunicazione
irreale, laddove anche il gesto del saluto assume significati e comunicazioni
specifiche. Lo spazio di espressione spontanea del sé nel rapporto con gli altri è
percepito come molto ristretto ed emerge una forma di controllo reciproco informale
tra detenuti stessi. Questi si sentono costretti a rispettare dei codici comportamentali
che spesso non capiscono e non condividono, ma che sentono dotati di un carattere di
coercizione descritto come ineludibile e legato quasi alla sopravvivenza stessa.
26
Il carcere con il passare del tempo porta a delle disfunzioni legate al sesso, al
linguaggio, alla percezione. Adriano Tonegato, psicologo e psicoterapeuta, scrive che
l’isolamento sociale nella misura in cui diviene limitazione di movimento che agisce
sul corpo, agisce prima o poi anche sull’anima, sull’identità che un soggetto si dà o
riceve. Si può dire così che il carcere arriva al sequestro del corpo del singolo ed
inevitabilmente alla soppressione delle pulsioni naturali primarie. Si assiste ad una
sindrome da “prisonizzazione”, una progressiva identificazione con l'ambiente
carcerario, condividendo gli usi, i costumi, i codici, la cultura. I detenuti acquistano
familiarità con i valori comuni del carcere. L'istituzione tende ad eliminare le
differenze individuali, al fine di rendere più gestibile la situazione. Gli aspetti della
prisonizzazione, che possono essere riscontrati in tutti i detenuti dipendono
dall’intensità in cui si correlano fattori universali e individuale.
27
Clemmer tra i primi indica l’accettazione di un ruolo inferiore, l’acquisizione di dati
relativi all’organizzazione della prigione, lo sviluppo di alcuni nuovi modi di
mangiare, vestire, lavorare, dormire, l’adozione del gergo della prigione, il
riconoscimento che niente è dovuto all’ambiente per la soddisfazione dei bisogni,
l’eventuale desiderio di un buon lavoro. Tra i fattori individuali Clemmer indica il
tipo di prigione e il grado di permessività, la permanenza in carcere, la continuazione
o l’interruzione dei contatti tra il carcerato e il mondo esterno, l’età, la personalità.
Questi fattori agirebbero sul condannato intensificando o riducendo gli effetti
derivanti dall’azione dei fattori universali, ritenuti da Clemmer sufficienti a rendere
l’uomo tipico della comunità dei carcerati, a frantumare probabilmente sia la sua
personalità che le possibilità di un positivo adattamento, successivamente all’uscita
25
Cfr. E. Goffman (1961), Asylums, Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Enaudi,
Torino, 2001, [ed. originale Asylums: Essays on the Social Situation of Mental Patients and Other Inmates].
26
Cfr. C. M. Marchi, L'ordinamento penitenziario nelle sue applicazioni giuridiche e pedagogiche. Esperienze
sul campo, Murgo, L'Aquila, 2006, p.50.
27
A. Tonegato, Amore e carcere, disponibile
sul sito: http://www.ristretti.it/areestudio/affetti/documenti/amorecarcere.htm, accesso: 12/2010.
15
dalla prigione.
28
Gli effetti più preoccupanti della prisonizzazione sono le influenze che fomentano o
rendono più profonda la criminalità e l’antisocialità e che fanno del detenuto un
esponente caratteristico dell’ideologia criminale nella comunità carceraria.
29
La soppressione della privacy a causa della sorveglianza continua, priva l'individuo
della propria autonomia e lo espone a condizioni contaminanti dovute
all’imposizione di condizioni ambientali sfavorevoli e fonti di malessere. Questo
perché:
1. tutte le espressioni della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto il controllo
della stessa autorità;
2. ogni fase delle attività giornaliere del detenuto si svolge in mezzo a tanti altri
detenuti che sono trattati nella stessa maniera e a cui si richiede di fare la medesima
cosa;
3. tutte le fasi sono strettamente correlate e calcolate nel tempo.
In questo sistema, in cui tutto è automatizzato, sono pochi i detenuti che reagiscono,
che riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti, invece, sono quelli che lo
subiscono. Si assiste nel sistema penitenziario ad una duplice contraddizione: da un
lato si ha la pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel
mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel
mondo è l’antitesi.
30
1.3 LA PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE
Nella sociolinguistica contemporanea si affermano diversi studi, a partire dagli anni
'50, spinti dall'interesse dell'interazione verbale in situazione naturale. Tra questi
studi si sviluppa una corrente specifica, l'etnometodologia.
31
Il termine, coniato dal
sociologo americano Harold Garfinkel, si fonda sulla ricerca nel quotidiano, come
osservabile e riferibile. Garfinkel si interesse del common sense che gli individui
attribuiscono al proprio mondo; al fine di comprendere la realtà quotidiana,
l’etnometodologia si interessa di tutto ciò che in realtà si da per scontato. Quando un
28
Cfr. D. Clemmer, The Prison Community, op cit. in F. Ferracuti, Carcere e Trattamento, Trattato di
criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, Giuffrè, Milano, 1989.
29
A. Tonegato, Amore e carcere, disponibile
sul sito: http://www.ristretti.it/areestudio/affetti/documenti/amorecarcere.htm, accesso: 12/2010.
30
Problemi di salute psichica, disponibile sul sito:
http://www.ristretti.it/areestudio/salute/inchieste/baccaro/psichica.htm accesso: 12/2010.
31
Cfr. U. V olli, “Manuale di semiotica”, Laterza, Bari, 2000, p. 233.
16