6
CAPITOLO 1.
IL GENERE NELLA POLITICA ITALIANA:
SULL’OGGETTO E SUL METODO, E IL SOGGETTO?
L’analisi del rapporto tra presenza delle donne nella società e rappresentanza
politica è un’analisi che, soprattutto in questi ultimi venti anni, è stata affrontata
sotto vari punti di vista. La questione trae sostanzialmente origine dal ristretto
numero di donne che in Italia siedono nei luoghi di decisione politica e dal fatto
che le stime risultano ancora più esigue se paragonate ad altri Paesi europei e non
solo. Questo tema ha una curiosa sorte nel dibattito italiano, è un tema che
scompare e poi compare, spesso con toni scandalistici, a volte trascurando il
difficile percorso legislativo che attualmente, da un punto di vista formale, appare
compiuto
1
.
Vi sono molteplici aspetti da analizzare cui il tema della presenza femminile
nelle istituzioni rimanda. Pur non essendo questo lavoro volto a inquadrare
quantitativamente il problema, occorre affrontarne una prima lettura partendo dai
dati: le ultime elezioni politiche (del 13 e 14 aprile 2008) hanno segnato un
aumento della rappresentanza politica femminile sia al Senato sia alla Camera. In
termini di percentuali, sul totale di 630 deputati e 322 senatori, le donne
costituiscono il 19,9%.
2
dei 952 parlamentari italiani. Sono dunque di più rispetto
alla XV legislatura. Sono comunque di meno rispetto le percentuali auspicate per
la realizzazione di una compiuta democrazia paritaria
3
.
1
Sulle questioni legislative, impossibili da riportare in questo lavoro, rimando tra la numerosa
letteratura a: Lucia Califano (a cura di), 2004, Donne, politica e processi decisionali, Torino, G.
Giappichelli Editore; Marilisa D’Amico, Alessandra Concaro, 2006, Donne e istituzioni politiche.
Analisi critica e materiali di approf ondimento, Torino, G. Giappichelli Editore, Giuditta Brunelli,2006,
Donne e politica, Bologna, il Mulino.
2
Dati ISTAT fonte:
http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070307_00/17_parlamento.pdfPer
il numero di senatori è possibile consultare anche: http://senato.it; per il numero di deputati:
http://camera.it.
3
Cfr. Silvio Gambino, 2006, Donne e rappresentanza politica: alcune riflessioni sui limiti della democrazia
paritaria in Italia, in: “Il Filangeri-Quaderno”, p.1
7
Sottolineare le differenze numeriche tra i due sessi è importante ai fini della
mia analisi in quanto l’esiguo numero delle donne rende maggiormente
difficoltosa la possibilità di individuare un particolare approccio comunicativo
delle stesse all’interno della vita politica. Ci si scontra, infatti, con la possibilità che
esso sia influenzato dalla, numericamente maggiore, presenza maschile al suo
interno. Come notano Alessandra Concaro e Marilisa D’Amico (2006):
se si aprono i giornali, sui temi politici quotidiani, ma anche su argomenti politici
che toccano direttamente le donne, sono soltanto gli uomini che parlano, discutono,
litigano: pensiamo alla recente vicenda del referendum sulla fecondazione assistita,
che solo nelle ultime battute ha avuto per protagonista qualche donna; pensiamo
alle recenti discussioni riguardo alla legge sull’aborto, che vari uomini vorrebbero
rimettere in discussione. Pensiamo anche alle riforme costituzionali, dove i
confronti sono solo maschili e sono condotti al maschile, con una contrapposizione
di argomenti che negano qualsiasi serio approfondimento e qualsiasi proposta di
soluzione alternativa. (Concaro, D’amico, 2006, p. 4)
Complicato è anche interrogarsi sulle cause che possono ostacolare la
partecipazione delle donne ai ruoli decisionali, nel farlo è inevitabile porsi
domande relative alla natura sociologica, culturale e ideologica di tale esclusione. Il
peso degli stereotipi circa l’essere uomo e l’essere donna nelle moderne società
occidentali, cui faccio riferimento, non è scomparso. Francesca Molfino (2006)
definisce così gli stereotipi di genere:
Lo stereotipo è una forma chiara e semplificata di rappresentazione mentale della
realtà che, attraverso delle generalizzazioni categoriche, assume una connotazione di
certezza […] Gli stereotipi di genere sono allora un elemento di reazione, di
opposizione ai processi di cambiamento del ruolo femminile: qualcosa che è già
presente e assai diffuso in tutti gli strati della popolazione, probabilmente alimentato
dai media e dalla televisione. (Essi) sostengono peculiarità maschili e femminili che
poi producono ruoli sessuali, comportamenti, scelte lavorative e così via. Per la loro
persistenza, le caratteristiche espresse dagli stereotipi possono venire interpretate
come realtà biologiche non trasformabili e di conseguenza non consentire nuove
formulazioni dei ruoli e dei comportamenti di genere. (Molfino, 2006, p.14)
In tutte le attuali Costituzioni nazionali occidentali viene affermata con forza e
con una presa di coscienza sempre maggiore, il concetto di eguaglianza di tutti i
cittadini nei vari aspetti della vita sociale. Nella nostra, tale principio è sancito
dall’art. 3 Cost., a lungo oggetto di un vivace dibattito circa il complicato e ancora
discusso rapporto tra il primo e il secondo comma dell’art., perché risulta
fondamentale nel delineare le implicazioni che la norma ha nei confronti
dell’ammissibilità di deroghe ( al principio di eguaglianza formale sancito nel I
8
comma) soprattutto nell’ambito della rappresentanza politica. Il punto è che
risulta complicata una lettura unitaria dell’articolo, Gambino (2006) descrive in
questi termini la questione:
il principio di eguaglianza è un carattere fondante del nostro ordinamento e trova il
primo e più importante riferimento nei due commi dell’articolo 3 della Costituzione.
Il primo comma recepisce il principio nel suo significato più classico elaborato dalla
cultura liberale come “eguaglianza formale”: la prescrizione è rivolta essenzialmente
al legislatore e si sostanzia nel divieto di creare ingiustificate differenziazioni tra i
cittadini. Il secondo comma dà cittadinanza alla più sofisticata accezione del
principio di “eguaglianza sostanziale”, sviluppatasi con l’avvento dello Stato Sociale,
che consiste nell’obbligo posto in capo ai pubblici poteri di rimuovere quegli
ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’eguale godimento dei
diritti e delle libertà da parte degli individui, garantendo loro parità di changes.
(Gambino, 2006, p. 59)
D’altra parte la disposizione considerata risulta chiara nel fornire la giusta
copertura costituzionale alla volontà di rendere effettivi i diritti politici delle
donne, sia nell’esercizio dell’elettorato attivo che in quello passivo, che ancora
risultano essere «diritti dimezzati» (Gambino, 2006, p. 6).
La cultura tradizionalmente sessista continua a manifestarsi sotto vari profili
che fanno salvi gli aspetti formali, ma che in sostanza mantengono i rapporti di
potere già largamente conosciuti
4
e consolidati. Sono, infatti, ancora presenti
resistenze al cambiamento dei ruoli di genere come storicamente considerati.
Soprattutto ai mass media va attribuita una rappresentazione di entrambi i sessi
stereotipata
5
, ma avrò modo di soffermarmi su questo punto, particolarmente
rilevante, nel secondo capitolo di questo lavoro.
4
Si può considerare l’esclusione delle donne come un’esclusione simbolica da un ordine politico.
Per comprendere tale esclusione occorre capire quali valori e funzioni siano stati tradizionalmente
associati alle donne come non legittimate ad agire politicamente in virtù dell’opposizione pólis/oîkos
che rappresenta una dicotomia di base del pensiero occidentale. Cfr. Elena Pulcini, Vittoria
Franco, Raffaella Baritono, 2000, Che genere di potere? Forme di potere e identità femminile. Progetto Now-
Cassiopea: donne e empowerment, Arlem.
5
Nel 2004 si è svolta una ricerca: Mass Media in (Re) distribuition of Power sostenuta dalla
Commissione Europea (Employment and Social affair DG) sull’influenza dei media nel mantenere
i rapporti tradizionali di potere tra uomini e donne attraverso stereotipi sessuali. La ricerca è stata
promossa dalla Lettonia e i patners erano la Danimarca, l’Estonia e l’Italia. Nei meeting con i patners
della ricerca si è pensato di analizzare se attraverso i media e la televisione venissero trasmesse
immagini stereotipate delle donne politiche, impedendo così dei cambiamenti culturali e un più
facile accesso ai ruoli e ai diversi livelli del potere. I risultati hanno mostrato che sono molte e
ripetute le similitudini negli stereotipi dei diversi Paesi. Vedi Francesca Molfino,2006, Donne
Politiche e Stereotipi, pag 21.
9
1.1. Sull’oggetto … la scarsa rappresentanza come problema non solo
politico
L’Italia, come già detto, è tra gli ultimi Paesi europei circa la presenza delle
donne nelle cariche elettive. La vasta partecipazione femminile nel campo del
lavoro e la quasi identica presenza in tutte le professioni non basta a fare la giusta
pressione al cambiamento a livello politico nazionale. Inoltre c’è da sottolineare
che su tutto il territorio nascono e si prolificano associazioni, centri di donne,
iniziative culturali, che sostengono e promuovono la partecipazione femminile nei
luoghi decisionali, così come anche gli studi e le ricerche, i cui risultati avrò modo
di riportare in seguito, relative alle politiche di genere, stentano ad essere
concretizzate a livello istituzionale.
Il perché di tale reticenza viene spesso imputato, come si evince dalla breve
introduzione, al perdurare di forti stereotipi di genere all’interno della nostra
società che evidenzia una persistenza delle divisioni dei ruoli sessuali (Molfino, 2006,
p.13). Essi fungerebbero da elemento di opposizione ai processi di cambiamento,
sostenendo peculiarità maschili e femminili che producono comportamenti, scelte
lavorative, appunto ruoli sessuali. La forza particolare di cui gli stereotipi si
alimentano è il loro trasformare quest’ultimi in realtà biologiche e di conseguenza
non mutabili. Da essi si traggono i contenuti positivi e/o negativi di mascolinità e
femminilità, anche quando è evidente la difficoltà nel definire in maniera precisa
quali siano le caratteristiche dell’una e dell’altra. Ancora più complicato definire se
tali caratteristiche attribuite o attribuibili ai due generi siano dovute a ragioni
biologiche o culturali.
Questo infatti è un punto importante che non si può fare a meno di prendere
in considerazione. Si tratta della classica dicotomia natura/cultura.
Una interessante discussione su questo tema è stata affrontata da due
protagoniste della scena filosofica italiana, Braidotti e Cavarero che, nel corso di
un seminario tenutosi a Trento nel 1993
6
, interrogandosi sul contesto culturale in
6
Per il dibattito tra Rosi Braidotti e Adriana Cavarero: Il tram onto del soggetto e l’alba della soggettività
femminile, in “DWF”, n. 4(20), 1993, pp. 69-90.
10
cui il pensiero della differenza sessuale
7
è nato e si è sviluppato, hanno definito le
loro posizioni a riguardo.
Tale disputa continua ad essere ancora molto viva nei dibattiti femministi, ma
non solo, contemporanei.
Cercando di sintetizzare: se essere donne è questione di natura, se, dunque,
donne si nasce, deve essere possibile stilare una lista o quantomeno fare una
descrizione di ciò che per natura è femminile. Questa lista, di ciò che è attributo
naturale della donna è nota, lunga se vogliamo, ma anche evidentemente restrittiva
se si considera che finisce per dare alle donne una soggettività incompleta proprio
in virtù di quelle caratteristiche che naturalmente vengono loro attribuite (la
fragilità, la sensibilità coincidono spesso ad un non-poter fare). La natura è da un
lato qualcosa di inevitabile e dall’altro reca con sé un significato deontico, creando
dunque un modello prescrittivo, una serie di norme. Di conseguenza, come nota
anche Sbisà (1995) i discorsi sulla natura delle donne o sulle loro attitudini
(sempre naturali) sono quasi in ogni caso, e a prescindere dal contenuto,
«prescrizioni travestite da descrizioni» (Sbisà, 1995, p. 1).
Se essere donne è invece questione di cultura, se donne si diventa, come
sosteneva Simone De Beauvoir (1949, trad. it. 1994) sono donne coloro che, pur
senza esserne naturalmente determinate, apprendono a comportarsi secondo le
qualità attribuite al femminile. Sensibilità, maggiore cura nei confronti degli altri
esseri umani, rapporto con la natura molto più stretto di quanto non sia attribuito
ad una cultura maschile. Ovviamente, se tutto ciò è culturalmente determinato è
anche revocabile. In altri termini si ci può anche rifiutare di adottare gli
atteggiamenti riconosciuti come femminili. Tuttavia, in questo modo il problema
si sposta solamente, di certo non si risolve.
Ciò che è palese è che in una scala di prestigio sociale, questo tipo di qualità,
che o per cultura o per natura vengono fatte corrispondere alla femminilità, hanno
sempre avuto un livello piuttosto basso. Il punto era, forse è ancora, come
liberarsene e se liberarsene.
L’inaccettabilità del “pacchetto” di qualità e di attitudini culturalmente femminili,
insieme al posto alquanto dubbio di queste nella scala del prestigio sociale, è palese.
Ma non è affatto chiaro quale sia la forma più adatta ed efficace per liberarsene.
7
Cfr. in questo capitolo p.27.
11
Non imparare affatto a essere donne (imparando, magari, ad essere come uomini)?
Cambiare la definizione del “genere” femminile? Abolire i “generi”?oppure se quel
che non ci va a genio non è tanto la definizione del “genere” quanto la sua
valutazione sociale, tentare di rovesciare quest’ultima?(Sbisà, 1995, p. 2).
Imparare ad essere come gli uomini, cambiare la definizione di genere
femminile, abolire i generi? Tutte queste cose sono state certamente tentate
8
.
Anche nel momento in cui non si vuole negare la propria identità sessuata, ciò che
emerge è l’esigenza di salire a monte della ricostruzione culturale del proprio
genere, alla ricerca di qualcosa che esuli dai quei tratti dell’essere donna
storicamente considerati funzionali ad una società a dominio maschile.
Il punto è che attualmente anche in relazione alle varie riflessioni nate in seno
all’esigenza di una maggiore presenza femminile all’interno della sedi decisionali
istituzionali, un eventuale declinazione di genere degli stili di govern a nce rispecchia
in buona sostanza un certo senso comune delle virtù pubbliche attribuite alle
donne, non solo per ciò che attiene all’esercizio politico ma in generale
all’esercizio di qualsiasi professione. Peraltro tale individuazione non è semplice in
quanto come nota Marina Piazza (2006, 2007) in politica si ha una certa necessità
di integrazione degli stili, non si accetta di buon grado il fatto che possa esistere
una qualche diversità. Ciò si traduce in buona sostanza in una sorta di «appello
all’omologazione» (Piazza, 2007, p. 27), al quale le donne giunte ai luoghi di
rappresentanza hanno probabilmente risposto e anche in virtù di ciò combattuto
con forza dal femminismo, «in nome di una molteplicità irrappresentabile nel
politico» (Piazza, 2007, p. 27) come vedremo in seguito. Non credo che tale
situazione sia attribuibile al poco coraggio delle donne, né alla perdita di una
consapevolezza di genere, quanto piuttosto all’impossibilità di sottrarsi alle logiche
dei partiti o delle aree di riferimento per la minoranza numerica.
La questione della rappresentanza femminile, infatti, da considerare solo come
uno dei tasselli che compongono il tema complesso della rilevanza della presenza
di entrambi i generi nella vita sociale, «evidenzia il punto in cui si arrestano
8
Ad esempio il movimento emancipazionista (di fine ‘800 ed inizi ‘900) consigliava alle donne di
imparare ad essere competitive con gli uomini in quello che era il loro terreno tradizionale; vi sono
poi state numerose proposte di cambiare non tanto le descrizione del femminile quanto l’assiologia
della nostra società, rivalutando gli aspetti tradizionalmente associati al femminile, si pensi alle
riflessioni di Luce Irigaray(1977, trad. it. 1990); infine l’abolizione del genere è stata proposta nel
dibattito contemporaneo come forma di critica all’assegnazione forzata ad un genere, esempi di
questa linea di tendenza possono essere i lavori di Judith Butler vedi: Monica Pasquino, Sandra
Plastina (a cura di), 2008, Fare e disfare. Ott o saggi a partire da Judith Butler. Milano, Mimesis.
12
pratiche di parità e pari opportunità» (Piazza, 2006, p. 134). È opportuno avere la
consapevolezza che il tema va inserito in un contesto più vasto che prenda in
considerazione anche i gruppi di analisi sociale, dei movimenti ecc.
Tuttavia, il termine politica cui noi facciamo riferimento è quello istituzionale:
le cariche elettive e di governo in senso stretto, ed è questa politica istituzionale
che chiede inevitabilmente di accantonare le faccende individuali. Abbandonare la
volontà di prendere coscienza o semplicemente portare avanti tale identità pone
concretamente di fronte al rischio di omologazione, agitato sempre a proposito
della presenza femminile nel tessuto sociale e nei luoghi dove si esercita il potere
maschile. Il timore è relativo al fatto che l’identità, o comunque la coesione delle
donne, possa essere cancellata se esse si confrontano in un territorio segnato dalla
loro assenza. A mio avviso questo non può essere motivo di tale dislivello, può al
massimo nutrirlo, ma non esserne la causa.
Alcune femministe a proposito della scarsa rappresentanza femminile si sono
domandate e si domandano se è possibile rappresentare in parlamento la
differenza femminile, o se basta esserla senza pretendere di rappresentarla
9
. A
prescindere dalle risposte a cui si giunge è opportuno ricordare che una certa
logica assenteista più che come un disinteresse viene letta invece come forte critica
delle donne alla sfera politica, «la minore presenza femminile nella politica
istituzionale è interpretata […]come una critica delle donne alla politica» (Molfino,
2006, p. 33). Chiarisce Cigarini:
non come effetto di discriminazione o misoginia maschile […] la presa di coscienza
di alcune donne ha spezzato la linearità della via emancipatoria. Ci siamo, cioè, rese
conto del paradosso dell’emancipazione, vale a dire che, a forza di rivendicare la
parità e l’uguaglianza con gli uomini, ci siamo completamente virilizzate. Sarebbe
sparita la differenza femminile e con questa la libertà femminile (Cigarini, 2003, p.
19).
È infatti singolare notate come in questi ultimi quarant’anni ci siano state
almeno due pratiche di politiche se non del tutto conflittuali sicuramente
differenti: da una parte c’è la politica delle donne di partito che chiede la divisione
del potere (economico, politico ecc.), la parità con gli uomini; dall’altra la politica
(evidentemente non istituzionale) delle donne che prendono distanza da queste
logiche e che definiscono «il potere come rappresentazione simbolica della
9
Cfr. Luisa Muraro ,1995, L a politica del desiderio, in Lia Ciganini (a cura di), Parma, Nuova Pratiche
editrice, p. 100.
13
sessualità maschile, come fallico per eccellenza» (Cigarini, 2003, p.20). La loro
politica è quella dello scambio tra donne, del piccolo gruppo, di lotta contro il
conformismo delle donne al modo di essere maschile. Il rischio cui esse alludono
è ciò cui accennavo sopra, nell’atto di rivendicare l’uguaglianza con gli uomini, le
donne si virilizzano.
Tuttavia l’atteggiamento proprio del secondo gruppo porta ad un rischio di
esclusione di questo tipo di politica (associazioni di donne, associazioni no profit,
non governative) dalla cultura dominante e dalla scena illuminata della politica
istituzionale. È ancora Cigarini a spiegarci quanto «le donne sono ampiamente
presenti nella politica “altra”, che io chiamo politica prima, vale a dire
nell’associazionismo femminile, nel volontariato, nelle organizzazioni non
governative, nelle imprese no-profit (quindi non è vero che non fanno politica)»
(Cigarini, 2003, p. 21). In ogni caso, per quanto sia volontà di molte portare avanti
atteggiamenti di distacco ideologico (che si tramutano in un disinteresse effettivo)
nei confronti delle istituzioni politiche in quanto «è proprio la maggior forza delle
donne in questo momento storico che rende possibile la loro critica e il distacco
dalla scena illuminata (dai media) della politica istituzionale» (Cigarini, 2003, p. 21),
resta il dato di fatto che solo quest’ultime gestiscono il Paese.
1.2. La democrazia comincia a due
10
Nel momento in cui ci si interroga sul perché occuparsi di questa tematica, le
ragioni che vengono appellate sono molteplici. Ad esempio Del Re (2000)
sottolinea quanto sia
necessario elaborare il passaggio dalla “politica neutra” all’assunzione di un punto di
vista di genere nella elaborazione delle politiche. Questo implica riconoscere
legittimità e autorità a donne e a uomini nel definire una visione del mondo e del
vivere insieme complessa e articolata, che tenga conto dell’esperienza storica e
quotidiana delle donne (Del Re, 2000, p.12).
10
È il titolo di un manoscritto di L. Irigaray, 1994, La democrazia comincia a due,Torino, Bollati
Boringhieri.
14
e stila una serie di argomentazioni volte a raccogliere i motivi generalmente
invocati da più parti
11
: la prima è relativa ad una logica di proporzionalità che,
come suggerisce il termine, lega la presenza quantitativa delle donne nella
popolazione ad una rappresentanza politica proporzionale. Secondo questa idea il
rappresentante deve dunque riflettere il rappresentato. Tale nodo teorico è in
realtà il più dibattuto:
l’obiezione che vorrebbe negare dignità teorica al tema della rappresentanza politica
“femminile” suona più o meno in questi termini: parlare di rappresentanza politica
“femminile” significa mettere in crisi il concetto classico di “rappresentanza
politica”, che implica la necessità che il rappresentante non rappresenti gli interessi
di alcuni, ma di tutti (D’Amico, Concaro, 2006, p. 5).
Vi è poi l’argomento dell’utilità il quale sottolinea, invece, quanto un esercizio
delle funzioni politiche che si priva delle competenze della metà della società sia
un esercizio manchevole; ancora, secondo l’argomento definito della differenza, le
donne portano con sé un valore aggiunto: un maggior numero di donne può
trasformare gli obiettivi della politica stessa; infine l’argomento della realizzazione
del diritto di parità come diritto umano: riconoscere la dualità del genere umano e
conseguentemente comprendere la necessità che un eguale numero di
rappresentanti non è una questione di parte, non riguarda solo le donne, ma è una
questione di democrazia sostanziale.
Più o meno simili le considerazioni che a riguardo propone Brunelli (2006).
L’autrice, nel dare risposta alla domanda del perché le donne dovrebbero essere
più presenti nelle sedi decisionali, prende in considerazione gli argomenti usati in
molti documenti europei e in alcuni internazionali
12
. Premette, però, che si
11
Le analisi e le critiche di tali ragioni sono presenti in diversi testi, in particolare cfr. Carlassare
(2002), il rapporto CENSIS (2003).
12
Per ciò che attiene al diritto comunitario si può citare il Trattato di Lisbona ( entrato in vigore il
1° dicembre 2009) precisamente l’art.23 in cui si stabilisce che la parità tra uomini e donne deve
essere stabilita in tutti i campi e mira a garantire tale parità vietando, implicitamente,
discriminazioni in ragione del sesso. Cfr. Marilisa D’Amico, Giovanna Pistorio, Stefania Scarponi,
2009, Art.2 3 P a rità tra uomini e donne, in AA. VV. L a Carta dei diritti dell’Unione europea. Casi e materiali,
Taranto, Chimienti. Per il testo completo del Trattato:
http://europa.eu/lisbon_treaty/full_text/index_it.htmv; i principali testi internazionali
giuridicamente vincolanti sui diritti delle donne sono: La Convenzione sui diritti politici della
donna, adottata a New York il 31 marzo 1953 (reso esecutivo in Italia nel 1963); la Convezione
sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw) adottata a
New York il 18 dicembre 1979 (resa esecutiva in Italia dal 1985); infine tra le dichiarazioni
politiche internazionali di particolare importanza il piano d’azione approvato dalla IV Conferenza
mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, svoltasi a Pechino nel 1995. Soprattutto gli ultimi due
documenti hanno il merito di aver influenzato ed indotto molti Paesi ad adottare misure di vario
15
potrebbe semplicemente rispondere come ha fatto il Consiglio d’Europa in una
raccomandazione del marzo 2003: «una rappresentanza equilibrata di donne e di
uomini nei processi decisionali è un’esigenza di giustizia evidente di per sé,
rispetto alla quale non è necessario addurre giustificazioni ulteriori» (Brunelli,
2006, p.30).
Un primo gruppo di argomenti, di carattere empirico, fa leva sul contributo
specifico delle capacità e sensibilità femminili, sull’utilità e i vantaggi per la società
nel suo insieme di una maggiore presenza di donne nelle istituzioni politiche; sul
carattere complementare delle qualità specifiche dei due sessi; sulla ridefinizione
delle priorità, con l’inserimento nell’agenda politica di temi nuovi e con
l’elaborazione di politiche di migliore qualità.
Vi sono poi altre considerazioni di carattere più teorico, attinenti alla qualità
della democrazia: lo squilibrio dei sessi nelle assemblee elettive le rende meno
rappresentative della società e costituisce una lesione dei principi democratici. Il
superamento dello squilibrio diviene così una condizione della democrazia, un suo
necessario completamento.
Discutibili sono invece gli altri argomenti che fanno capo ad una sorta di
essenzialismo delle differenza sessuale, infatti l’insistenza sulle specifiche capacità
e sensibilità delle donne, sul fatto che solo le donne possono rappresentare gli
interessi del loro genere, rischia di sovrapporsi alle concezioni tradizionali del
ruolo femminile. Secondo l’autrice risultano molto più convincenti quelle
argomentazioni che riguardano la possibilità di intervenire sulla determinazione
dell’agenda politica. A tal proposito Brunelli rileva la posizione teorica della
studiosa anglosassone Anne Phillips
13
, la quale sottolinea come la funzione
rappresentativa sia caratterizzata, oltre che da responsabilità, anche da uno spazio
indiscutibile di autonomia decisionale, legata alla necessità di affrontare i problemi
che di volta in volta si presentano. Ed è proprio in questo spazio autonomo, dove
si manifesta la dinamicità della rappresentanza, che assumono particolare
importanza: l’elemento personale, le caratteristiche individuali e culturali e quindi
genere aventi lo scopo di garantire un certo numero di candidature femminili. Cfr. Giuditta
Brunelli,2006, op.cit. p. 43 ed il sito internet:
http://europa.eu/legislation_summaries/employment_and_social_policy/equality_between_men_
and_women/c11903_it.htm
13
Cfr. Giuditta Brunelli, 2006, op.cit. p. 35
16
anche l’appartenenza di genere dei rappresentanti. La presenza delle donne
sarebbe sicuramente idonea per portare all’attenzione nuovi temi e nuove idee.
Tutte queste riflessioni non sono vane, tutte le battaglie condotte in anni più o
meno recenti, sia a livello legislativo
14
quanto di opinione pubblica, hanno portato
ad un certo aumento del tasso di rappresentanza. Sebbene non sia il caso di
trascurare questi risultati, essi non danno esattamente l’idea di un salto di qualità.
Riflettere sulle ragioni, sui fattori che influiscono sull’esclusione è da considerarsi
fondamentale. Bisogna precisare, tuttavia, come ci ricorda Alisa Del Re che,
contrariamente ad altri paesi d’Europa, in Italia non ci sono state grandi battaglie
femministe per rivendicare una maggiore presenza femminile in Parlamento, o nei
consigli comunali, provinciali o regionali, anche se all’interno dei partiti della sinistra
la partecipazione delle donne al dibattito, sia generale che sui temi dei rapporti tra i
sessi, è stato denso ed ha prodotto alcune iniziative importanti (Del Re, 2000, p.25).
Non si può evitare di tener conto di alcune circostanze giuridiche che in
questo caso risultano rilevanti. Ancora con le parole di Del Re che sintetizza bene
le vicende giurisprudenziali e legislative di questi temi negli anni Novanta: «sia
l’obbligo delle quote per entrambi i sessi nella legge elettorale del 1993, per la
parte proporzionale, che l’eliminazione delle quote stesse nel 1995, ha lasciato
freddo il movimento femminista» (Del Re, 2000, p.25).
Una ricerca
15
condotta pochi anni fa, volta ad individuare alcune chiavi di
interpretazioni più generali del fenomeno complessivo delle esclusioni delle donne
dai livelli più elevati della politica, propone otto macro fattori
16
di esclusione:
vorrei sottolinearne solo alcuni che mi pare abbiano una particolare importanza.
La natura dei partiti
17
è il primo punto da prendere in considerazione. Sebbene
il fallimento della prima repubblica e il consequenziale passaggio alla seconda, in
14
Cfr. Marilisa D’Amico, Alessandra Concaro, 2006,op. cit., per le analisi circa la riforma del Titolo
V della Costituzione e la riforma dell’art. 51 Cost.
15
Donne e politica. Rapporto di ricerca, progetto Equal 2006. Interamente consultabile in rete
all’indirizzo: http://www.allapari.regione.emilia-romagna.it/temi/rappresentanza/allegati-
rappresentanza/alleradici_rapporto_donneepolitica_06.pdf.
16
Gli 8 fattori sono i seguenti: 1. segregazione verticale diffusa; 2. vincoli materiali alla presenza
delle donne in politica; 3. ambiguità del consenso dell’opinione pubblica; 4.inerzia normativa e
comportamentale; 5. incertezza delle volontà nella promozione dell’accesso delle donne; 6. nodi
biografici e diversità curriculari; 7. disarmonia tra soggetti nell’esercizio della rappresentanza
politica; 8. frammentarietà della mobilitazione per la leadership femminile.
17
Il tema che riguarda la disciplina giuridica dei partiti affonda le sue radici nell’Assemblea
Costituente che, con l’art. 49, colloca il loro operare non dipendente da norme scritte, volendo
evitare una disciplina legislativa che potesse risultare costringente per la libertà d’azione dei partiti.
Cfr. Donatella Della Porta, 2009, I partiti politici, Bologna, Il Mulino.
17
cui viviamo ormai da un ventennio, abbia prodotto notevoli cambiamenti anche
nella loro autogestione, essi continuano ad essere un punto mediano
dell’elettorato passivo in quanto selezionano non solo le candidature ma anche la
posizione eleggibile nelle liste. La loro centralità è generalmente riconosciuta in
quanto è chiaro che sono loro a decidere. Meno chiari i criteri di selezione
utilizzati al proprio interno (o comunque all’interno delle coalizioni). Non è
dunque difficile immaginare che la forte presenza maschile all’interno dei partiti
politici generi una sorta di autotutela degli stessi, in altri termini, più donne
entrano nelle loro stanze, più uomini escono. «A parte l’ipocrisia dei dirigenti di
partito nel dire che non vi è ostilità ad una presenza femminile nel partito e nella
politica, contraddetta dall’oggettiva monosessuazione di tutti i luoghi del potere
politico, è vero e dimostrabile che nulla si fa all’interno dei partiti per costruire
delle candidature femminili vincenti elettoralmente» (Del Re, 2000, p. 26).
Vi è poi una ragione che può essere definita pratica: le donne, portano con
loro il peso di una tradizione che le ha viste sempre, pur lavorando, impegnate in
quello che viene definito lavoro di cura ed in cui un carico politico apparirebbe
come un terzo impegno. In questo senso è opportuno leggere le critiche relative
ad una scarsa ambizione delle stesse donne di entrare a far parte della politica
attiva perché assorbite da altri interessi
18
.
L’alternanza del consenso della pubblica opinione è un altro aspetto
difficilmente trascurabile. In molti lavori condotti fino ad ora, emerge chiaramente
quella che potremmo chiamare la caduta del pregiudizio negativo sulle capacità di
govern a nce delle donne da parte dell’opinione pubblica. Come nota Piazza però «si
potrebbe affermare da un lato che nel nostro Paese la prospettiva di genere è stata
vista prevalentemente come un elemento messo in campo per richiedere (posti,
posizioni ecc.) e non per dare, per offrire una lettura di sé e del mondo meno
viziata, unica e arrogante» (Piazza, 2007, p.23). In effetti anche se il pregiudizio
sulla minore capacità delle donne di occuparsi di politica è stato superato,
contemporaneamente si assiste alla persistenza di un pregiudizio basato
sull’irrilevanza del genere. Eppure, se il tema della rappresentanza è oggi dibattuto
è anche perché spesso, quando si parla di cultura politica delle donne, la si
18
Cfr. Marina Piazza, 2006, Ingressi riservati. Uomini e donne nelle carriere politiche in Annamaria
Simonazzi ( a cura di), Questioni di genere, questioni di politica. Roma, Carocci.
18
ricollega ad una certa idea di crisi delle forme politico-istituzionali del nostro
Paese.
L’istituto classico di rappresentanza politica è in crisi, innanzitutto perché è
profondamente mutato il contesto politico e sociale nel quale le assemblee
rappresentative operano […] la crisi della rappresentanza politica, se vista come
espressione della crisi della politica classica, quella fatta dai partiti intesi in senso
“tradizionale”, rende più interessante il discorso sulla rappresentanza “di genere”:
[…] L’ingresso delle donne nella politica potrebbe costituire una chance in più per
la politica, rendendo possibile il rinnovamento di un settore che sta attraversando
una fase di profonda crisi forse perché legato quasi esclusivamente a logiche di
potere. (D’Amico, Concaro, 2006, p. 7-9).
Si pensi ai due momenti storici in cui le donne sono rimaste completamente
fuori, per scelta volontaria, dalle sedi istituzionali, gli anni 70 e, per quanto
riguarda specificatamente l’Italia, gli anni 90. Proprio una larga parte del
femminismo, al cui interno il linguaggio, la produzione in qualche modo di senso,
diviene contenuto primario, risorsa politica fondamentale, segna la prima grande
rottura con il mondo istituzionale. Appare dunque inevitabile, analizzare il modo
in cui le donne in quegli anni proponevano la loro visione al mondo e a loro stesse
anche quando il femminismo «sembra affidarsi alla sola produzione del discorso e
non alla capacità di entrare in comunicazione con la materialità dei soggetti e dei
processi» (Boccia Maria Luisa, 1993, pag.172).
1.3. Istituzioni e movimento femminista
Il dibattito femminista, di matrice occidentale, è sicuramente formato da
molteplici posizioni che, di volta in volta, o prendono le distanze o considerano
positivamente il rapporto con lo Stato e con le Istituzioni. Ai due estremi
possiamo collocare il femminismo liberale e la prospettiva radicale, fra di essi,
molteplici posizioni variegate.
Il femminismo liberale, vede sostanzialmente le strategie politiche e legislative
come strumenti per perseguire l’uguaglianza tra donne e uomini. Lo Stato
continua ad essere descritto in modo positivo, pur se occupato storicamente dagli
uomini tale anomalia può essere risolta nel momento stesso in cui le donne
entrano in gioco in tali contesti.
19
Il femminismo radicale enfatizza invece il controllo maschile sulle donne
attraverso una serie di meccanismi: la violenza, la riproduzione. Essi vengono letti
come strumenti di oppressione e potere e dal momento che è impossibile separare
il potere maschile dal potere dello Stato, quest’ultimo non può essere visto come
uno strumento positivo che possa in qualche modo aiutare le donne nel perseguire
i loro obiettivi.
Abbiamo poi un femminismo socialista, che sottolinea come lo Stato abbia un
ruolo fondamentale nel costruire confini netti tra pubblico e privato, nel regolare
la riproduzione, il matrimonio, la società; un femminismo marxista, che lega
l’oppressione delle donne alle forme di sfruttamento capitalista del lavoro, e il
lavoro femminile (retribuito e non) è analizzato in relazione alla sua funzione
all’interno del sistema capitalistico, dove lo Stato è dunque il braccio esecutivo
della classe dominante.
Il dibattito teorico femminista su questi temi è dunque molto ampio
19
.
Ciò che bisogna qui però sottolineare è in buona sostanza una certa tradizione
anti-statale nella ricerca femminista, che a volte rischia di sottovalutare
l’importanza analitica dell’interpretazione storica tra le forme di Stato e la
dimensione di genere. Molte teoriche in realtà evitano la tentazione di descrivere
lo Stato come qualcosa di definito una volta e per tutte considerando le strutture
statali ricorsivamente costruite dagli agenti nelle loro attività sociali. Le strutture
vengono di fatto ricollegate a specifiche pratiche istituzionali.
Anche per Foucault (1976, trd.it. 1978) il potere non è il prodotto di un sistema
di stratificazione situato nelle macrostrutture della società, è piuttosto visto in
termini relazionali: un insieme di discorsi e strategie che operano in un particolare
contesto. Il potere non è una strategia singola, ma lavora attraverso specifiche
istituzioni. Secondo l’autore il potere non è un’unità che risiede nello Stato, ma la
sua onnipresenza deriva dal suo essere prodotto in ogni relazione sociale. Sostiene
dunque l’importanza di passare da una visione negativa del potere, come divieto ,
costrizione, potere di dire no, ad una visione positiva: il potere è da intendersi
soprattutto come possibilità di produzione di discorsi che normalizzano,
19
Per una classificazione dettagliata rimando a: Vingelli, Giovanna, 2005, Un’estranea fra noi. Bilanci
di genere, movimento femminista e innovazione istituzionale, Soveria Mannelli, Rubettino.
20
istituiscono, controllano. Per Foucault è il discorso il luogo dell’articolazione
produttiva di potere e sapere
20
.
I messaggi culturali e discorsivi dello Stato includono le donne in modi
storicamente specifici, aprono loro particolari spazi politici e ne chiudono altri.
Come sottolinea Vingelli «tipicamente lo Stato interpella le donne in modalità
differenti e spesso contraddittorie: madri, lavoratrici, contribuenti, moglie,
cittadine» (Vingelli, 2005, p. 24). Ma se il rapporto fra relazioni di genere e forme
di Stato è una costruzione discorsiva, le donne, ed il movimento delle donne, sono
sia produttrici sia prodotti di queste relazioni. Di conseguenza lo Stato non è più
una struttura, un oggetto, quanto piuttosto «un luogo di formazioni discorsive»
(Vingelli, 2005, p. 22). Sotto questa prospettiva lo Stato non è più visto quindi
come rappresentante degli interessi degli uomini contro gli interessi delle donne.
C’è stato comunque il bisogno di confrontarsi con governi che assumono, hanno
assunto, gli interessi maschili come gli unici esistenti.
La relazione tra il movimento femminista, le istituzioni politiche formali e le
strutture statali, come si è visto, è stata contrassegnata da tensioni e conflitti
spesso irrisolti. All’interno del movimento femminista i dibattiti sull’utilità
dell’ingresso all’interno delle istituzioni, e il valore di una posizione esterna,
autonoma ed indipendente , hanno assunto non solo un significato strategico, ma
hanno interessato le stesse identità collettive, attraverso il dibattito (negli anni
Settanta e Ottanta) sulla do p pia militanza. Concetto che implica la collocazione delle
attiviste in due spazi politici ma con impegno ideologico e di identità collettiva in
entrambi. Questa doppia militanza condiziona l’organizzazione e le scelte
strategiche del movimento femminista e ne è allo stesso tempo l’espressione. Una
delle principali implicazioni è che le femministe si trovano a dover negoziare le
proprie posizioni politiche all’interno di organizzazioni non femministe o
istituzioni che si dichiarano spesso neutrali rispetto alla prospettiva di genere.
Alla denuncia femminista dell’astrattezza del mandato parlamentare dal corpo
(sociale e individuale) sessuato, fa riscontro la personalizzazione della politica del
corpo e nell’immagine del leader. All’erosione della forma partito operata dalla
forma politica della relazione fra donne, la delegittimazione dei partiti nella loro
concreta storicità. Alla critica femminista del welfare e dei diritti universali, lo
smantellamento del welfare. Ancora: alla tematizzazione femminista dell’autorità,
20
Cfr. Giovanna Vingelli, 2005, op. cit