~ 2 ~
E ancora più importanti sono i rapporti che il linguaggio del fumetto ha con
gli altri linguaggi della comunicazione di massa, in particolare con il
cinema che come vedremo è molto vicino al fumetto in quanto entrambi
sono legati geneticamente da comuni ascendenze e trovano il loro iniziale
destino nella dimensione della civiltà di massa.
Grazie alle suddette caratteristiche di multimedialità e interattività, oltre che
all’apporto di opportuni esempi relativamente alle più recenti e fortunate
produzioni fumettistiche, cercherò di avvalorare la mia tesi e cioè che un
buon fumetto può suscitare le stesse emozioni ed essere culturalmente
valido come un buon libro o come un bel film.
Anche perché, ai giorni nostri nulla vieta di considerare il fumetto
un’espressione autonoma e indipendente tale da poter, più che giustamente,
figurare accanto alle altre arti, nonostante il parere di alcuni «puristi».
E a questo proposito voglio concludere questa breve introduzione dicendo
che comunque, scrivere di fumetti, oggi è un rischio.
Lo è dal punto di vista metodologico, culturale, strategico.
Sia gli strumenti dell’analisi testuale sia quelli delle scienze umane sia le
politiche dei media di massa sembrano non reggere più ai mutamenti
socioantropologici della vita quotidiana e per quanto il fumetto abbia
sempre mostrato di essere attento alle grandi mutazioni dell’esperienza
sensoriale, chi si avvicina al mondo delle sue forme espressive entra in una
terra di frontiera.
Ebbene colui che si addentra in questi luoghi estremi corre il rischio di
scambiare per facile o povero o arretrato o alternativo ciò che invece è
complesso, innovativo, egemone e proprio per evitare ciò occorrerebbe la
lettura infratestuale di più fumetti da quelli seriali e collettivi della civiltà di
massa a quelli post-moderni della produzione d’autore per poter così
intraprendere il percorso teso a mettere finalmente in discussione i propri
modelli culturali.
~ 3 ~
CAPITOLO I
ORIGINI ED EVOLUZIONE DEL FUMETTO
~ 5 ~
I.1 - I PROTO-FUMETTI
Quando nell’introduzione, relativamente alla probabile nascita del fumetto,
sostenevo che anche le pitture rupestri o i geroglifici egiziani potevano
essere considerati dei comics, non a caso avevo usato la parola “giocare”
per mettere in evidenza come questo paragone fosse una forzatura, anche se
voluta. In effetti già nell’antico Egitto circolavano già vignette colorate
disegnate sui papiri e a Roma erano molto diffuse le Tabulae satiriche; nel
Medioevo molto diffusa era la Bibbia pauperum, che narrava i principali
episodi della vita di Gesù Cristo servendosi di illustrazioni commentate da
un versetto o da una didascalia in latino o in volgare, mentre in Francia,
durante il periodo rivoluzionario, nacquero le c.d. “Images populaires” che
raggiunsero un’enorme diffusione nell’era napoleonica. Queste stampe, che
presto furono raccolte in veri e propri almanacchi, rappresentavano
cortigiani oziosi e impudenti, preti refrattari che giuravano fedeltà sul seno
di formose prostitute, fanciulle traviate, nobili gottosi; avvocati famelici,
sguaiati bifolchi, e scene di toccanti addii all’amata del soldato
rivoluzionario o del granatiere dell’Imperatore, le cariche travolgenti di
Volmy, Jena e Austerlits, la semina, la mietitura, la vendemmia, la
riscossione delle tasse o l’assalto dei briganti al corriere postale di Lione.
Ebbene, l’artista traduceva in termini semplici e accessibili ai più,
soprattutto agli innumerevoli analfabeti, i grandi ideali contemporanei, le
esemplificazioni morali e moralistiche, certa tipologia tagliata con l’accetta
che aveva sempre un contenuto gnomico e un’immediata suggestione
visiva. Erano prodotti di artigianato, magari espedienti didattici e
catechismi ideologici per nuovi gruppi che, oggettivamente, si affacciavano
alla storia e alla coscienza ma che non avevano i mezzi per esprimersi. I
messaggi contenuti nelle “Bibbie Pauperum” del XIV secolo, nelle
suddette “images populaires” del XVIII o negli almanacchi del XIX, sia
pure in forme e con orientamenti diversi, erano la divulgazione degli ideali
e interessi delle classi superiori e, al tempo stesso l’inserimento di questi
nelle psicologia degli esclusi di quei gruppi che si voleva mantenere al
livello di puri oggetti di storia.
~ 6 ~
Infatti al livello delle classi subordinate la concezione del mondo prevalente
nel Medioevo si articolava nel modo più frammentario e, poiché la società
non possedeva dispositivi di controllo e comunicazione centralizzati, questa
letteratura divulgativa poteva farsi portatrice del più pittoresco eclettismo.
L’importante non era trasmettere un messaggio con assoluta precisione e
fedeltà, quanto piuttosto esprimere le mediazioni attraverso le quali un’idea
assumeva concretezza agli occhi delle masse e tale metodo non era certo il
frutto di una coscienza riflessa. Infatti le Bibbie Pauperum non nacquero
come uno strumento per «far propaganda» ai testi del Cristianesimo né
come un preordinato proposito di semplificarne il contenuto per renderlo
accessibile a tutti, bensì come l’espressione di un certo tipo di coscienza
religiosa che non doveva aver bisogno di prove filosofiche o esegetica ma
che si esauriva tutta nella rappresentazione più realistica dei miracoli, della
tipologia dei santi, della «materializzazione» di ogni contenuto fideistico. Il
messaggio di queste forme di espressione «volgare» era l’invito a
partecipare alle vicende che il cristiano doveva saper scoprire nella vita di
tutti i gironi, nel lavoro, nella maternità, nell’obbedienza, nel dolore e nella
morte. È innegabile che le figurazioni delle Bibbie Pauperum, avevano un
preciso contenuto psicologico; assicuravano l’identificazione, la coscienza
proiettiva, la sublimazione, il culto dell’«altro-da-sé», dei veri e propri
processi di transfert. Ma, d’altronde, chi potrebbe oggi sostenere che ciò
derivava da un bisogno «oggettivo» della società di servirsi di perfezionati
strumenti di persuasione o direzione ideologica?
Quel contenuto e gli effetti che determinava non corrispondevano a un atto
di volontà dei compilatori e degli artisti né questi potevano essere accusati
di essere dei persuasori occulti. Piuttosto, le categorie ideologiche di cui si
servivano le società preborghesi contenevano già in sé una visione totale
dell’uomo, o meglio l’aspirazione a «esaurire» tutti i problemi umani.
Nell’ambito di questa totalità ricercata e imposta con ogni mezzo esistevano
naturalmente tutte le contraddizioni reali: le lotte tra classi e all’interno di
ciascuna di esse, la dinamica dei rapporti di proprietà e dei centri di potere,
la polarizzazione degli interessi cittadini contro quelli della campagna, la
presenza di gruppi oggettivamente non assimilabili, gli sconvolgenti
~ 7 ~
contrasti tra i falsi problemi di una gerarchia chiusa e dogmatica e le
esigenze della vita. Però, la società nel suo complesso, in quanto ideale e
ideologia, si poneva come una e necessaria, forma perenne della cui
universalità l’uomo era soltanto partecipe.
Ma agli albori dell’era borghese, quando la dissoluzione del sistema feudale
porta con sé la necessità oggettiva di eliminare anche la sua ideologia, nasce
il concetto di propaganda: la società non si pone più come una e non può
più aspirare concretamente all’uomo totale, ma è costretta a riconoscere il
molteplice, o mutare i suoi valori e, in altre parole, a persuadere. Ciò che in
epoche precedenti era dato come un fatto, magari da imporre coi roghi e la
forza delle armi, viene ora a configurarsi come un processo, sempre più
accentrato intorno alla mitologia dell’individuo.
Le images populaires sono senza dubbio prodotti di artigianato e
condividono con le Bibbie Pauperum il carattere occasionale, di
improvvisazione, ma allo stesso tempo hanno un contesto nuovo ed
esprimono esigenze oggettive diverse. Infatti ogni loro messaggio doveva
essere rivolto all’uomo singolo che, proprio per la sua «riconosciuta»
appartenenza a un gruppo con interessi determinanti, non rifletteva più
nessuna totalità terrestre o soprannaturale, ma solo certe esigenze che si
doveva far trionfare su altre, meno valide e meno utili. Eppure la totalità,
che la rivoluzione borghese aveva frantumato in nome di una società aperta
e molteplice, riappare poi, in piena crisi del capitalismo, come delirio,
travestimento ideologico della dipendenza del singolo dai meccanismi reali
e della sua riduzione a un’entità intercambiale. Ecco allora che per i comics
il discorso si pone in termini qualitativamente diversi. Come vedremo, il
seme che li farà nascere sarà quello della concorrenza capitalistica ma, nel
processo di mercificazione totale, si presentano con caratteristiche proprie,
come specchio dell’impossibilità oggettiva della fantasia e come creazione,
soddisfacimento e distruzione di bisogni psicologici.
Infatti, se la differenza tra i prodotti dell’«arte popolare» del passato e i
comics della società integrata si potesse ricondurre alla presenza o assenza
di un messaggio, si finirebbe, come fanno parecchi critici, per credere in
una specie di continuità qualitativa tra i geroglifici egiziani, le tabulae dei
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romani, le Bibbie Pauperum e le vicende di Superman, Tex e degli altri
eroi della cultura di massa.
I limiti di questa linea di pensiero nascono per esempio, dal fatto che
vengono isolati solo uno o due elementi «prescelti» per poter definire
somiglianze e differenze ma, soprattutto, da un’interpretazione del concetto
di messaggio a livello filologico, in cui esso è definibile come una
comunicazione trasmessa da un essere umano all’altro o, nella migliore
delle ipotesi, da alcuni individui a un gruppo. Ma se ripensiamo alla
cronaca medioevale (o a quella egiziana e romana) vediamo che era un
mezzo di comunicazione solo nel senso che rendeva i lettori, o spettatori,
partecipi delle glorie del loro re o della loro città; di volta in volta
riconfermava il carattere sacro e perenne di certe istituzioni e credenze e,
per la logica interna della concezione del mondo di quelle società, si poneva
come testimonianza, per i secoli futuri, di un’esperienza collettiva. Ecco che
allora, si giunge a quella che, secondo chi scrive è la differenza principale
tra l’arte popolare del passato e i comics della civiltà di massa, di cui
bisognerebbe sempre tenere conto all’atto di una discussione sulla probabile
nascita del nostro medium, ed è il fatto che da quelle forme di
«documentazione», in cui del resto la fantasia dell’artista poteva sbizzarrirsi
a volontà, era assente sia il concetto di pubblico che quello ben più decisivo
di scambio. Infatti il messaggio, così com’è inteso dall’ideologia della
società di massa, non è un dialogo e distanza che tende ad assicurare la
partecipazione a qualche esperienza comune, ma una tecnica il cui fine è di
strappare ad ogni costo l’assenso. I mezzi d comunicazione si rivolgono a
un tipo di uomo che è psicologicamente condizionato a ricevere messaggi a
senso unico, a «consumare» immagini che egli acquista col suo denaro e da
cui pretende un compenso psicologico, uno sfogo, un’evasione da una
dipendenza sempre più ferrea e incomprensibile, insomma un continuo
scambio che nel passato non era minimamente proponibile. Nella società
integrata, il pubblico è, da un lato, oggetto di manipolazione e, dall’altro,
depositario dei diritti del cliente il quale, in cambio della sua decisione di
acquistare vuole essere soddisfatto. Perciò, ogni paragone dei comics con le
figurazioni «in sequenza» del passato non ha significato che per la
~ 9 ~
prospettiva storica astratta: i comics sono un mezzo di comunicazione per
una società che ha superato l’esperienza diretta e il dialogo, uno strumento
di direzione collettiva e un catalizzatore psicologico, la puntuale
espressione di altri concetti di spazio e tempo.
Ma perché allora parlare di proto-fumetti? La risposta potrebbe essere che
mi sembra opportuno mettere in evidenza che, nonostante il fumetto
moderno, quello che noi conosciamo in modo sufficientemente
approfondito, sia nato, come vedremo, alla fine del 1800 con le principali
caratteristiche che ancora oggi lo contraddistinguono, ben prima di quel
fatidico 1896 con lo Yellow Kid di Richard Felton Outcault, esisteva tanto
“fumetto” che ancora vero e proprio fumetto non era
(1)
.
In effetti, il discorso sui precursori del fumetto si presenta più spinoso di
quanto non possa apparire a uno sguardo superficiale, perché molto dipende
dalle premesse metodologiche: prendendone certe, si arriva a un esito;
ponendone altre, a conclusioni differenti, magari contrarie. Il fatto è che il
problema della “nascita” del fumetto è non solo una faccenda concreta, nel
senso che in qualche punto del mondo e in qualche momento della storia
esso ha avuto una effettiva, tangibile origine; ma è anche una faccenda
relazionale: vale a dire che è riconoscibile come fumetto solo quello cui
storicamente siamo noi ad attribuire tale consistenza e ruolo, rifacendoci a
esso come modello. E allora, come tale, altro non può essere che il sopra
citato Yellow Kid, perché è da esso che hanno preso origine una serie di
avvenimenti a reciproco influsso, che avrebbero portato al fumetto d’oggi.
Ecco, allora, che tutto ciò che è venuto prima, i nostri proto-fumetti, per
quanto sostanzialmente assai simile, non può essere che mera promessa.
Infatti, è molto più corretto pensare a una serie di fenomeni di convergenza
espressiva che hanno portato a tante nascite indipendenti di quello che in
seguito sarebbe stato il vero fumetto, in culture però non, o non ancora a
sufficienza, intercomunicanti, e pertanto ignare, o quasi, l’una dell’altra, si
da non potersi reciprocamente influenzare se non con estrema lentezza; fra
le quali poi una sola è giunta a risonanza tale da poter influenzare le altre.
(1) BRUNORO G., La carica dei precursori, in “Immagini e fumetti”, n° 5, aprile 20-25, 1996.
~ 10 ~
Tutto ciò dimostra comunque una circostanza interessante, ossia come nel
secolo scorso esistesse ormai un po’ ovunque l’urgenza dello sbocciare del
racconto in sequenza, sottolineando come fosse ormai inevitabile la nascita
della cosiddetta civiltà dell’immagine, nella quale siamo adesso immersi
totalmente.
Detto questo, mi sembra sia giunto il momento di vedere chi, prima di
Richard Felton Outcolt aveva deciso di raccontare storie attraverso le
immagini.
Certo fra i più lontani si deve annoverare Rudolf Töpffer, il Ginevrino che
entusiasmò perfino Goethe e che già nel 1827 pubblicò un primo
Bilderroman, cioè un racconto attraverso immagini successive,
precisamente Les amours de M. Vieuxbois, che può considerarsi il primo
vero esempio di fumetto, soprattutto per la intima e coerente
compenetrazione tra immagini e parole, e per di più diretto agli adulti e non
ai bambini.
Su questa stessa linea, Töpffer produsse altri veri e propri racconti a
vignette, i più celebri dei quali sono l’Histoire de M. Jabot (1833) e
l’Histoire de M. Crèpin (1837).
In Germania, a partire dal 1845, ebbe un enorme successo il celebre volume
per bambini di Heinrich Hoffmann, “Struwwel peter” (Pierino Porcospino),
che raccontava le avventure di un bambino disobbediente e pasticcione. E
nella seconda metà del 1800, sempre in Germania, fiorirono le testate
satirico-umoristiche, fra le quali la più significativa, agli effetti fumettistici,
fu il “Fliegende Blätter, una rivista creata già nel 1844 da Caspar Braum e
Friedrich Schulider. Su di essa pubblicavano i loro lavori disegnatori di
livello eccezionale e vi comparivano storielle strutturate sulla sequenza di
immagini successive intesa a raccontare una storia: veri e propri fumetti
come li intenderemo oggi, salvo il fatto che non avevano né i balloons né
qualche altro fra quelle caratteristiche da noi ora considerate giustamente
essenziali al media come per esempio le onomatopee.
È comunque sempre su questo periodico che apparve nel 1859 uno dei più
illustri precursori “ufficiali” del fumetto, Diogenes und die bîsen Buben
von Korinth (Diogene e i monelli di Corinto) di Wilhelm Busch, il quale
~ 11 ~
anticipava qui solo di pochi anni la sua opera di gran lunga più famosa,
apparsa sempre su Fliegende Blätter nel 1865, ossia Max und Moritz,
storia di due monelli (ascendenti diretti dell’opera fumettistica
fondamentale di Rudolph Dirks, Katzenjammer kids).
In Inghilterra il primo eroe disegnato apparve il 14 agosto 1867 sulla rivista
settimanale di giochi e fumetti Judy, disegnato da Isabelle Emilie de
Tessier sotto lo pseudonimo di Marie Duval, su testi di Charles Henry Ross.
Fu il primo eroe a fumetti pubblicato con una certa regolarità. Si trattava di
un ometto, Ally Sloper, assillato dall’idea di far soldi in fretta, escogitando
metodi che portavano a un’inevitabile e sistematica catastrofe: tanto che era
così chiamato per la sua abitudine di svignarsela al momento di pagare
l’affitto (“to slope” in inglese può voler dire appunto “svignarsela,
squagliarsela, svanire”). Le sue avventure, imperniate su tali situazioni
buffe, divennero in breve tempo il simbolo di quelle vissute in epoca
vittoriana da tanti poveracci assillati dai debiti, riscuotendo un successo tale
da indurre l’editore a dedicargli un giornale a fumetti tutto suo, il poi
famoso “Ally Sloper’s Half-Holiday” che avrebbe cominciato la
pubblicazione il 3 maggio 1884. Ally Sloper fu senza dubbio il più famoso
fra i personaggi di tipo fumettistico del suo tempo.
Poco tempo dopo, precisamente nel 1874, James Henderson, editore del
Weekly Budget, pubblicò, con l’edizione natalizia del suo giornale, un
supplemento di giochi e storielle disegnate, intitolato Funny Folks; questo
extra di otto pagine divenne così popolare da indurne la trasformazione in
settimanale autonomo, che nonostante sopravvisse per vent’anni e benché
stabilisse il formato dei fumetti e caratterizzasse alcune strisce, non creò
mai un personaggio umoristico fisso.
La successiva pietra miliare fu Comic Cuts (1890) di Alfred Hamsworth
che divenne un vero boom fumettistico. Qualche anno dopo, la prima
grande serie creata apposta per i fumetti fu “Weary Willie and Tired tim” di
Tom Browne, pubblicato su “Illustrated Chips” il 16 maggio 1896. Si
trattava delle buffe vicende di due straccioni, specie di Stanlio e Ollio, che
divennero talmente popolari da dare origine nel fumetto britannico a un
intero filone di vagabondi. In effetti, di Browne si può dire che, più che a
~ 12 ~
due vagabondi, abbia dato vita allo stile umoristico inglese. In Francia,
unico degno di nota è Georges Coulomb, in arte Christophe il quale, dal
1889 al 1893, produsse per il settimanale Le petit français alcune serie,
tutte diventate famose, e sistematicamente impostate sul racconto in
sequenza d’immagini: “La famille Fenouillard” (1889), “Les facéties du
sapeur Camember” (1890), “L’idée Fixe du savant Cosinus e Les malices
de Plick et Plock” (1893). Come si può notare, sono tutte date
tangibilmente anteriori a quel fatidico 1896 a cui ho accennato poco fa a
proposito di Yellow Kid. Ma rimane indubitabile come il primo
personaggio dei comics non possa essere altro che proprio quest’ultimo,
perché è toccato a lui conseguire quel successo che, nel nome
dell’immagine seriale, avrebbe innescato un fenomeno di feed-back capace
di auto-alimentarsi.
In altre parole, il fumetto è fumetto soltanto quando prende coscienza di sé
come tale, e ciò avviene, solo a partire da quel monello chiamato Yellow
Kid. Ed è proprio ciò che vedremo nel prossimo paragrafo.
I.2 - YELLOW KID E GLI ALTRI BAMBINI TERRIBILI
Nel precedente paragrafo si è visto come non sia possibile stabilire un
continuum tra l’arte figurativa del passato e il fumetto moderno ma
nonostante ciò si è anche potuto appurare che prima del 1896 era ormai
stato gettato il seme di quello che diventerà il media di massa più diffuso e
perché no, discusso dei nostri tempi. Per questo, mi sembra sia giusto
puntualizzare sul fatto che quella del 1896 è una data simbolica, scelta un
po’ convenzionalmente dai critici e dagli storici dei comics. Pur tuttavia,
non si può non sottolineare che è solo nel 1896, con il Yellow Kid di
Richard Felton Outcault, che si verificano alcune fondamentali “prime
volte”: il ragazzino giallo del World di Pulitzer è il primo personaggio fisso
della storia del fumetto ad avere un successo epocale, a scatenare diatribe
legali fra editori, e suscitare un’ondata di merchandising con la sua
immagine; ma soprattutto è il personaggio da cui derivano, in linea diretta,
~ 13 ~
per imitazione o emulazione, tutti gli altri fumetti, fino a oggi; i fumetti
precedenti erano rimasti, in un certo senso, fini a se stessi.
Accettato, quindi, Yellow Kid come primo fumetto, resta qualche
incertezza su quale sia stato il suo vero inizio: già perché il personaggio di
Outcault non nacque definito, con le caratteristiche somatiche e
psicologiche, come sarebbe stata la regola in seguito per gli altri comics. Il
Kid nacque a poco a poco, definendosi via via che uscivano i supplementi
domenicali del World, e acquistando nome e parola in tempi successivi.
Come già accennato nel paragrafo precedente, la scintilla che diede “fuoco
alle micce” fu, in America, la concorrenza capitalistica.
Infatti nel 1880, nonostante una vivace campagna a favore dell’osservanza
del giorno festivo, alcuni quotidiani statunitensi incominciano a uscire
anche la domenica. Una dozzina d’anni dopo, Joseph Pulitzer (1847-1911),
uno dei magnati della stampa, un Self-made man di origine ungherese, ex
cameriere ed ex poliziotto, proprietario del New York World e di altri
quotidiani, è il primo a capire che un supplemento a colori può suscitare
l’interesse dei lettori e quindi portare a un certo incremento delle vendite
anche durante gli altri giorni della settimana.
Ci voleva però un’idea per lanciarlo. E così, dopo aver puntato sull’arte e
sui grandi monumenti, nel 1894 prova a pubblicare a tutta pagina alcune
illustrazioni di un certo Richard Felton Outcault
(2)
il quale esordisce il 18
ottobre dello stesso anno con The Origin of a New Species, or the
Evolution of Crocodile Explained (“L’origine di una nuova specie, ovvero
spiegazione dell’origine del coccodrillo”). L’anno successivo, esattamente
il 5 maggio 1895, vi è il debutto effettivo della serie Hogan’s Alley di
Outcault con la prima puntata intitolata At the Circus in Hogan’s Alley. La
serie era incentrata su ciò che accadeva in un ghetto miserabile della
periferia di una grande città, una specie di singolare “corte dei miracoli”,
(2)RICHARD FELTON OUTOCOULT (1863-1928), dopo aver frequentato la Mac Micken University
di Cincinnati laureandosi in arte, era stato “scoperto” dall’inventore Thomas A. Edison, al quale
un amico aveva mandato una raccolta dei suoi disegni. Convinto delle possibilità artistiche del
giovane, Edison lo aveva convocato a New York e in seguito lo aveva mandato per un anno a
Parigi a proprie spese, a studiare Belle Arti. Rientrato negli Stati Uniti, Outcault si era stabilito a
New York, dove aveva collaborato a varie riviste come illustratore e vignettista, prima di essere
assunto, nel 1894, al New York World di Pulitzer per realizzare disegni scientifici popolari sul
supplemento domenicale a colori.
~ 14 ~
straordinariamente affollata. In basso a destra, proprio sopra la firma
dell’autore, c’è un ragazzino basso, quasi calvo, con un camicione azzurro,
a piedi nudi. Tutto qui: il personaggio non ha nome, non parla, non ha una
posizione particolare nell’economia della tavola. Il 19 dello stesso mese,
nella seconda puntata, il ragazzino si vede di spalle, sempre defilato, ha più
capelli in testa e ha un camicione viola scuro. Le cose non cambiano molto,
per il personaggio, nei mesi successivi: appare per lo più seduto, di spalle,
una comparsa fra le tante. La svolta si ha, finalmente, con la tavola del 5
gennaio 1896, dato che viene accettata come prima autentica nascita del
personaggio. Il titolo è Golf - The Great Society Sport As Played in
Hogan’s Alley e il Kid è in posizione quasi centrale, a bocca spalancata,
con i tratti somatici che saranno poi quelli definitivi (calvo, grandi orecchie
a sventola, un sorriso provocatorio e solo due denti in bocca) e con un
camicione giallo che gli lascia scoperti soltanto il viso, le mani, i piedi e su
cui spicca l’impronta di una mano. La scelta del giallo era stata del tutto
casuale, dato che, nel procedimento di stampa a colori il giallo doveva
essere ancora messo a punto. È proprio per questa ragione che il camicione
del monello venne colorato di giallo ed è proprio da questo colore che il
personaggio prende il proprio nome. In un primo tempo i testi si limitano
ancora a cartelli, con frasi salaci e slogan sentenziosi, e a scritte varie, quasi
sempre con una ortografia volutamente errata, che compaiono sul
camicione.
Solo in un secondo momento (la data ufficiale è quella del 16 febbraio 1896
e la tavola si intitola The Great Dog Show in M’Googan Avenue) si arriva
all’introduzione delle caratteristiche “nuvolette” o balloons (c’è un
pappagallo in gabbia che esclama “Sic em towser!” in una nuvoletta
trasparente) e di altri elementi che contribuiscono a fare di questo
personaggio il capostipite del fumetto moderno
(3)
. Visto il successo di
(3) In realtà già nel 1892 James Swinnerton aveva iniziato a pubblicare sul San Francisco
Examiner di Hearst le storielle dei Little Bears, simpatici orsacchiotti bianchi e neri impegnati
ogni settimana a fare e a dire cose divertenti su un tema comune però ancora senza nuvolette, ma
con brevi didascalie. Così anche se questa serie è ugualmente importante perché ripropone ogni
settimana personaggi appositamente creati per un quotidiano, i Little Bears non sono ancora
protagonisti di un vero e proprio fumetto e saranno in seguito dimenticati per poi essere riscoperti
soltanto dopo molti anni.
~ 15 ~
Yellow Kid, William Randolph Hearst (1863-1951), editore del New York
Journal, che disputava a Pulitzer il predominio assoluto sulla stampa
newyorkese, cerca di accaparrarsi il creatore di questo personaggio e ci
riesce grazie a un contratto più vantaggioso. Quindi dal 25 ottobre 1896
Outcault comincia a pubblicare le tavole di Yellow Kid sulla prima pagina
di “The American Humourist”, il supplemento domenicale del giornale di
Hearst. Nella settima pagina dello stesso numero vi si trova una sequenza,
intitolata The Yellow Kid and New Phonograph, dove il Kid parla
attraverso una nuvoletta, vi è il pappagallo sopracitato e un grammofono. I
fumetti assumono così la loro forma definitiva. Ma, poiché non esisteva
ancora una precisa legislazione sul diritto d’autore, Pulitzer continuò a
pubblicare sui suoi giornali il monello con il camicione giallo facendo
disegnare le nuove storie da un certo George B. Luks, che in seguito
avrebbe abbandonato i fumetti per diventare un pittore abbastanza famoso.
Pur non essendo dotato come Outcault, Luks cercò di mantenere lo stesso
stile. Outcault, da parte sua, stanco delle polemiche derivate dalla
contemporanea presenza di due diversi Yellow Kid e della conseguente
vertenza legale, alla fine del 1898 lascia anche il New York Journal proprio
nel momento in cui anche i due Yellow Kid, travolti dal loro irriguardoso
anticonformismo, escono di scena.
Infatti nei primi fumetti apparsi sul “New York World” si poteva riscontrare
un umorismo rozzo ed esuberante, in cui non mancava persino una vena di
sadismo e di grossolanità, scaricata sulle spalle dei bambini, che venivano
considerati dagli educatori dell’inizio del secolo «stupide, piccole, brutte
copie degli adulti» (Politzer, 1963)
(4)
.
Outcault era un americano sprezzante e la sua naturale inclinazione alla
crudeltà probabilmente gli diede modo di raccontare le vicende e le imprese
dei poveri e tormentati abitanti di uno
(4)Cfr., IMBASCIATI A., CASTELLI C.: Psicologia del fumetto, Guaraldi Editore, Rimini-Firenze,
1975.
~ 16 ~
«slums»
(5)
di New York. In queste scene zeppe di personaggi che si
ammucchiano, lottano, fanno festa e si esprimono in una lingua che è un
tremendo miscuglio di idiomi e di sgrammaticature e al cui centro troviamo
ovviamente Yellow Kid che commenta in modo distaccato, attraverso i suoi
lazzi, la brutale umanità di neri, cinesi e bianchi di diversa provenienza che
lo circonda, Outcault raggiunge il massimo del suo sadismo di razza e di
classe, suscitando le reazioni dei lettori di ogni estrazione sociale: così, i
privilegiali condividono il disprezzo dell’autore per il suo materiale umano
e gli umili si riconoscono in qualche modo in questo mondo miserabile e
crudele, identificandosi facilmente coi personaggi rozzi, volgari, che si
agitano nell’ambiente suburbano di Down Hogan’s Alley. In questa serie di
quadri gli adulti fanno da sfondo, mentre i figli di questo sottoproletariato
di emigranti sono i veri protagonisti che rivelano, dietro l’apparente allegria
e spensieratezza dei loro giochi e dei loro gesti, una desolante solitudine ed
un isolamento che rendono la brutalità, la furbizia, la crudeltà, il cinismo gli
strumenti necessari per sopravvivere. L’America di quegli anni è ormai un
paese ricco che attira milioni di emigranti in cerca di una vita migliore
rispetto a quella vissuta in Europa; ma negli Stati Uniti vi sono condizioni
di lavoro che sottopongono gli operai ad un regime di sfruttamento che
ricorda quello inglese della prima rivoluzione industriale, un sistema basato
sulle rigide leggi della concorrenza e della stratificazione sociale, sui
pregiudizi etnici ed ideologici. Outcault non si propose di affrontare questi
problemi, ma essi finiscono per diventare il paesaggio sociale in cui si
muove la sua folla di personaggi che fanno della miseria, dell’ignoranza,
dell’impotenza politica una bandiera e uno strumento di odio. Il mondo del
lavoro con le sue immense fabbriche, le guardie anti-sciopero, il mercato
delle braccia rimane tuttavia fuori del ghetto, dove sembra che regni sempre
una festa di giochi, di sport, di canti e di pasti rimediati alla meglio.
(5) «Gli slums sono aree residenziali che si sono venute costituendo prevalentemente nelle zone
più interne della città. Il concetto interessa la struttura abitativa, ma ancor prima quella sociale e
per questo il concetto di slums deve essere tenuto distinto da quello di «abituro» dove l’accento
viene posto in modo decisivo sulla condizione di particolare degrado fisico dell’abitazione. Nelle
categorie degli slums, al contrario, possiamo trovare anche aree già abitate da popolazioni di ceto
medio ed ora occupate da specifici gruppi (specie di recente immigrazione) che le hanno occupate
a seguito di una fuga da parte delle popolazioni precedenti» in GUIDICINI P., Manuale per le
ricerche sociali sul territorio, Franco-Angeli, Milano, 1991.