2
◊ Il secondo capitolo, invece, si incentra inizialmente sulla pubblicità
internazionale, mantenendo una prospettiva di analisi di tipo culturale, sulla
base di quanto descritto nel primo capitolo: con quest’analisi, sostenuta da
numerosi esempi correlati, si intende dimostrare come la componente
interculturale debba essere tenuta in grande considerazione in fase di
elaborazione di una pubblicità internazionale.
Nella seconda metà del capitolo si analizzano i due trend più diffusi in ambito
pubblicitario per la realizzazione di una campagna: la standardizzazione (che
mantiene inalterate le scelte strategiche dell’agenzia a prescindere dalle
specificità dei diversi mercati nazionali) e la contestualizzazione (che si fonda
invece sulla necessità di adattare ed aderire alle peculiarità locali); anche in
questo caso, è opportuno evidenziare che la trattazione dei due approcci è
stata condotta ribadendo il taglio essenzialmente culturale della tesi; dovendo
fare una scelta, si è preferito non approfondire altri aspetti - ad esempio di
natura economica - ai quali è stata comunque riservata un’analisi seppur
marginale.
◊ Il terzo capitolo si concentra sulla scelta tra le due antitetiche impostazioni
e sulla trattazione dei due casi studio presi in esame: il caso Saatchi&Saatchi
e il caso Grey Advertising; si tratta di due agenzie pubblicitarie di fama
mondiale che hanno fatto scelte opposte in sede di formulazione della
strategia pubblicitaria: la Saatchi&Saatchi ha scelto una strategia di
standardizzazione, mentre invece la Grey Advertising ha optato per la
3
contestualizzazione. Scopo della trattazione sarà quindi analizzare le due
differenti agenzie e le impostazioni adottate, cercare di comprendere i motivi
che le hanno guidate nella loro scelta ed infine approfondire come esse siano
riuscite a trovare la via del successo pur partendo da orientamenti opposti.
La scelta di inserire quest’ultimo capitolo e di analizzare il caso delle due
agenzie sopra citate, è nata dalla lettura di un passo di un testo di Barbara
Mueller
1
, opera alla quale si farà più volte riferimento nel corso della
trattazione; nel testo, l’autrice citava le due agenzie come le esponenti più
illustri dei due approcci che avevano deciso di adottare (appunto:
standardizzazione e contestualizzazione), senza però fare alcun ulteriore
approfondimento. È stato questo il mio punto di partenza sulla parte dedicata
alla pubblicità internazionale e sui due casi studio, anche se è stato molto
difficoltoso trovare del materiale sulla strategia delle due agenzie. In più, se
della Saatchi&Saatchi avevo già una conoscenza generale sul suo
funzionamento e sulle sue produzioni - grazie alla visita alla sede londinese
della Saathi&Saatchi di Charlotte Street in occasione del viaggio studio a
Londra cui ho preso parte, organizzato dalla Prof.ssa Enrica Rossi nel Marzo
2007 - la Grey Advertising era per me un’incognita, anche perché è
praticamente impossibile reperire delle pubblicazioni su tali argomenti.
La maggior parte del materiale che ho utilizzato proviene dai siti web delle
agenzie o, come nel caso Saatchi&Saatchi, da pubblicazioni realizzate
1
Barbara Mueller, International Advertising, Belmont CA, Wadsworth Publishing Co., 1995, pag. 56.
4
dall’agenzia stessa, che comunque non spiegano i meccanismi culturali legati
alle loro scelte strategiche, ma molto spesso solo tecniche sperimentali o idee
da trasmettere.
Quello svolto nell’ultimo capitolo è stato quindi un intenso lavoro di ricerca e
di interpretazione dei dati che sono riuscita a reperire, lavoro che ha trovato
riscontro nelle rare interviste concesse dai responsabili delle due agenzie o
nelle dichiarazioni ufficiali inserite nel proprio sito web.
A supporto di quanto affermato nel terzo capitolo, è stata inserita una ricca
appendice contenente le pubblicità cui si fa riferimento, in modo che sia
possibile trovare un immediato e facile riscontro fotografico di quanto si
legge nella trattazione.
5
CAPITOLO 1:
LA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE:
DEFINIZIONE E ORIGINI
1.1 LA NUOVA FRONTIERA DELLA COMUNICAZIONE:
LA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
Il termine “comunicazione interculturale” è ormai entrato nell’uso comune in
tutto il mondo, conseguenza della tendenza avviatasi negli ultimi decenni che
prende il nome di globalizzazione; la spinta verso quella uniformità
tendenziale e crescente dal punto di vista culturale ed economico e verso la
progressiva omogeneizzazione dei Paesi a livello globale che tale fenomeno
sta comportando, ha influenzato e modificato negli ultimi decenni tutti gli
aspetti della vita quotidiana, investendo in primis l’ambito economico.
L’impatto maggiore della globalizzazione si è infatti registrato nel progressivo
e sempre più consistente sviluppo delle economie internazionali, favorito da
diversi ordini di fattori, tra i quali è opportuno evidenziare la diffusione della
tecnologia e la pervasività del sapere tecnologico-scientifico, la crescente
interdipendenza delle economie mondiali, la riduzione delle barriere
istituzionali alla mobilità internazionale di professionalità e capitali ed infine
lo sviluppo dei mezzi di comunicazione per favorire le relazioni con l’estero.
È su quest’ultimo fattore, ovvero lo sviluppo della comunicazione in ambito
internazionale, che è interessante soffermarsi per una valutazione più attenta.
6
È da evidenziare fin da subito, infatti, la stretta relazione che intercorre tra lo
sviluppo di rapporti a livello globale e la capacità di comunicare: la
comunicazione internazionale diviene quindi una variabile strategica
fondamentale e una discriminante per lo sviluppo di relazioni non solo volte a
finalità economiche. Negli ultimi decenni quindi ci si è trovati davanti ad una
nuova frontiera della comunicazione, la comunicazione interculturale: lo
sviluppo a livello globale di tale forma di comunicazione, nonché il
riconoscimento del suo status, ha rappresentato un importante passo avanti
nella presa di coscienza delle diversità e delle complessità culturali, tanto che
si è avvertita la necessità di una forma di dialogo che non imponesse la
propria cultura sulle altre, ma che al contrario fosse in grado di trovare un
terreno di dialogo di mutua comprensione, tale da garantire il consolidamento
delle relazioni in un’ottica di lungo termine.
Tali orientamenti hanno determinato sia un progressivo sviluppo sia una
semplificazione delle relazioni comunicative, avvalorando la tesi di coloro
che già da diverso tempo sostenevano l’avvenuta nascita di quello che è stato
definito da Marshall McLuhan come il “villaggio globale”
2
: studioso di
comunicazione di massa negli anni ’60, McLuhan enfatizzò la necessità di
studiare e rapportarsi alla comunicazione di massa (e per estensione a quella
internazionale) da un punto di vista antropologico, tenendo cioè in
considerazione le caratteristiche dei destinatari del messaggio; utilizzò inoltre
2
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Net, 2002.
7
il concetto di villaggio globale per evidenziare come in questo modo il globo
si riduca ad un ambito più semplicemente esplorabile, al pari appunto di un
villaggio.
Questo orientamento antropologico, volto a ribadire la centralità delle
relazioni tra individui diversi, rappresenta l’essenza della comunicazione
interculturale, orientamento presente in molte definizioni di studiosi in questo
campo. Tra questi è opportuno citare l’olandese Geert Hofstede, uno tra i più
autorevoli pensatori in ambito comunicativo; secondo la definizione di
Hofstede
3
:
“l’acquisizione delle abilità di comunicazione interculturale passa attraverso tre fasi:
consapevolezza, conoscenza e abilità. Tutto comincia con la consapevolezza: il riconoscere
che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal modo in cui è
cresciuto, e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stesse ottime
ragioni, un diverso software mentale. [...] Poi dovrebbe venire la conoscenza: se dobbiamo
interagire con altre culture, dobbiamo imparare come sono queste culture, quali sono i loro
simboli, i loro eroi, i loro riti [...]. L’abilità di comunicare tra culture deriva dalla
consapevolezza, dalla conoscenza e dall’esperienza personale”.
Secondo Hofstede quindi, il punto di partenza è la consapevolezza, cioè la
presa di coscienza di ogni soggetto di essere portatore di una propria cultura
(o come lui la definisce, software mentale), derivante dal modo in cui è
cresciuto e dipendente dal contesto generale cui è stato esposto per tutta la
sua vita; dopo la consapevolezza è il momento invece della conoscenza, in
quanto l’interazione con culture diverse implica in primis la conoscenza di tali
3
Mariachiara Russo, Gabriele Mack, (citazione di Geert Hofstede), Interpretazione di trattativa: la
mediazione linguistico-culturale nel contesto formativo e professionale, Milano, Editore Ulrico Hoepli,
2005, pag. 204.
8
diversità. Infine l’abilità di interagire: secondo Hofstede infatti, la
comunicazione in campo interculturale non si configura come un insieme di
competenze specifiche, bensì come abilità generali all’interazione con altri
individui, come una relazione di tipo “face-to-face” richiedente una
conoscenza approfondita dei tratti culturali dei diversi gruppi di
appartenenza.
Volendo fornire una definizione di comunicazione interculturale, occorre
precisare a priori come questa non possa quindi prescindere dalle
problematiche comunicative derivanti dalla diversità culturale: significativa
nel mettere in luce tale problematica è la definizione fornita da Larry A.
Samovar e Richard E. Porter, secondo cui:
“Intercultural communication is the circumstance in which people from diverse cultural
backgrounds interact with one another. You rightly might wonder what is significant or
unique about this kind of interaction. The answer is found in the sometimes extreme
cultural diversity of backgrounds, experiences, and assumptions resident in communicators.
Cultural diversity has the potential to make intercultural communication very difficult – and
in some instances utterly impossible”
4
.
4
Larry A. Samovar, Richard E. Porter, Communication Between Cultures, Belmont, Wadsworth
Publishing Co., 2003, pag. 2, mia traduzione: “La comunicazione interculturale è la circostanza in cui
persone provenienti da diversi contesti culturali interagiscono tra loro. Si può giustamente immaginare
cosa sia significativo o unico in questo tipo di interazione. La risposta risiede nella spesso estrema
diversità culturale dei contesti di provenienza, esperienze e assunzioni dei comunicatori. La differenza
culturale ha la potenzialità di rendere la comunicazione interculturale molto difficoltosa e, in alcuni casi,
addirittura impossibile”.
9
1.2 LA GENESI DELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE
Come evidenzia Beate Baumann nel suo saggio
5
, i primi studi sulla
comunicazione interculturale si collocano solamente a partire dalla fine
dell’Ottocento. È in questo periodo infatti che si comincia a considerare la
cultura un oggetto di indagine e di studio scientifico, quando invece fino ad
immediatamente prima la matrice culturale era considerata di secondaria
importanza nelle dinamiche relazionali.
Altro passo avanti in questo filone di studi viene compiuto attorno al 1950
quando gli studi sulla cultura cominciano ad essere associati a quelli in
ambito comunicativo: proprio in questo periodo infatti si intraprendono i primi
studi sui fattori culturali come componente rilevante nell’analisi di una lingua
particolare.
Tuttavia la tematizzazione vera e propria avviene un decennio dopo, negli
anni sessanta, grazie a due studiosi, che apportarono contributi distinti, ma
entrambi fondamentali: Edward T. Hall e Kalervo Oberg.
Hall con i suoi studi ebbe il merito di introdurre il concetto di “informal
attitudes”
6
: secondo la sua teoria sull’atto comunicativo, i parlanti non si
limitano a comunicare tra loro tramite il linguaggio, ma vi sono altri indicatori
taciti che contribuiscono a connotare la conversazione, elementi come il tono
della voce, la gestualità, la postura; questi elementi sono portatori di
5
Beate Baumann (a cura di), Comunicazione interculturale, in Michele Cometa, Roberta Coglitore,
Federica Mazzara, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, pag. 97.
6
Edward T. Hall, The Hidden Dimension, Garden City N.Y., Anchor Books, 1990.
10
informazioni velate che, se erroneamente o non completamente interpretate,
possono comportare il fallimento dell’interazione.
In particolare, Hall si concentrò nei suoi studi sullo spazio personale tra i
parlanti impegnati in una conversazione ed elaborò il concetto di “proxemics”
(prossemica)
7
; con il concetto di “proxemics” Hall intendeva la distanza fisica
tra le persone mentre queste interagiscono, il loro spazio fisico, che - come
ha notato lo studioso - varia da una cultura ad un’altra: si concentrò in
particolare sul confronto tra culture latine e culture nordiche, rilevando come
nelle culture latine la distanza fisica tra i parlanti sia notevolmente più ridotta
rispetto alle culture nordiche.
Hall riassunse gli effetti della prossemica asserendo che:
“Like gravity, the influence of two bodies on each other is inversely proportional not only to
the square of their distance but possibly even the cube of the distance between them”
8
.
Per meglio spiegare quanto detto, egli individuò quattro tipi di “distanze”,
fissando per ciascuna di esse la giusta o quanto meno convenzionale
distanza fisica sia in fase di conoscenza sommaria tra i due parlanti che di
conoscenza più approfondita, distinguendo tra distanza intima, distanza
personale, distanza sociale e distanza pubblica
9
.
7
Ibid., pag. 1.
8
Ibid., mia traduzione: “Come la gravità, l’influenza di due corpi l’uno sull’altro è inversamente
proporzionale non solo al quadrato della loro distanza ma possibilmente persino al cubo della distanza tra
loro”, pag. 129.
9
Si rimanda all’Appendice per un approfondimento sullo studio della distanza fisica nella relazione
interpersonale. (Approfondimento 1: “Hall e la distanza fisica”).