4
Richard Sennet
1
, uno Spettatore Flessibile, con ritmi di vita sempre meno regolari e
sempre meno organizzabili e riconoscibili dalla tv.
Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati a Internet. Prendendo spunto dalle riflessioni di
Roger Fiedler e di J.D. Bolter, si è messo in relazione Internet con l’intero sistema
mediale, evidenziando come il Web, nel continuo processo di contaminazioni
reciproche tra mezzi di comunicazione, sia in grado di svolgere in situazioni
d’emergenza le funzioni tipiche dei media che l’hanno preceduto: l’aggiornamento
costante e la disponibilità di immagini, tipico della tv; la contestualizzazione e
l’approfondimento, tipico dei quotidiani; la possibilità di condividere con altri pensieri
ed emozioni, tipico del telefono.
Attraverso un’analisi della copertura fornita da cnn.com al disastro del Columbia, si è
messo in risalto la sua capacità, almeno potenziale, di rispondere ai bisogni informativi
e comunicativi che ogni emergenza porta con sé.
Attraverso un confronto tra le logiche di diffusione e accesso alle notizie rese possibili
da Internet, con quelle che invece regolano le trasmissioni televisive, si è arrivati alla
seguente conclusione: i vantaggi dell’informazione fornita dal Web stanno, da un lato,
nella modalità d’accesso ai contenuti, fruibili su richiesta degli utenti, liberi di
organizzare i propri percorsi conoscitivi attraverso la scelta dei legami ipertestuali; dal
punto di vista dei contenuti offerti, invece, i vantaggi derivano dalla natura multimediale
del Web, che permette all’utente di accedere a documenti in cui video, audio, dati e
animazioni si combinano secondo modalità non replicabili da nessun altro medium.
Si è sottolineato la svolta segnata da Internet nella natura dell’esperienza condivisa della
tragedia: non si tratta più di una semplice condivisione delle informazioni come nel caso
della tv, ma di un’interazione con altre persone che si incontrano virtualmente in un
medesimo luogo. Il risultato è un’esperienza fruitiva che non ha paragoni in termini di
flessibilità, coinvolgimento e personalizzazione del percorso informativo, di profondità
e ampiezza della trattazione dell’evento.
1
Richard Sennet, “L’uomo flessibile”, Milano, Feltrinelli, 2000.
5
Capitolo 1: Disastri e modernità
1. Per una contestualizzazione sociologica: la società moderna
come società del rischio
“La società del rischio è una società
catastrofica. In essa lo stato di
emergenza minaccia di diventare la
norma.”
2
Ulrich Beck
“Vivere nell’incertezza ci appare un
modo di vivere, il solo modo di vivere
l’unica vita che abbiamo.”
3
Z. Bauman
Due dei più importanti sociologi contemporanei, Anthony Giddens e Ulrich Beck,
hanno entrambi sottolineato come il concetto di rischio esprima alcune delle
caratteristiche fondamentali del mondo moderno.
Secondo il sociologo inglese, da tempo impegnato a tracciare le tendenze fondamentali
della modernità in campo macrosociologico, l’idea di rischio emerse nei secoli XVI e
XVII tra gli esploratori occidentali, spagnoli e portoghesi, che si avventuravano alla
scoperta di un mondo in gran parte ancora sconosciuto. In particolare, la parola rischio
era impiegata per indicare la navigazione in acque ignote, non segnate sulla carta, e
quindi era riferita allo spazio e solo in seguito, quando cominciò ad essere utilizzata in
ambito bancario, venne estesa al tempo.
Tale concetto trova senso solo in una società orientata verso il futuro e impegnata a
rompere con il proprio passato e, per questo motivo, inesistente nelle culture tradizionali
premoderne, che, al contrario, erano essenzialmente rivolte al passato e fondate sull’idea
di fato, fortuna e volontà degli dei.
2
Ulrich Beck, “La società del rischio. Verso una seconda modernità”, Roma, Carocci, 2000.
3
Zygmunt Bauman, “La solitudine del cittadino globale”, Milano, Feltrinelli, 2000.
6
Questo non significa che le epoche passate fossero meno pericolose di quella attuale,
bensì che oggi i rischi creati dagli uomini sono più minacciosi di quelli provenienti dal
mondo esterno. I tentativi dell’uomo moderno di dominare il futuro si stanno ritorcendo
contro di lui, in una dimensione sempre più globale del rischio, sia per intensità, che per
il numero di persone coinvolte, al di là dei confini nazionali e delle appartenenze di
classe. Anche la consapevolezza stessa del rischio è aumentata, grazie soprattutto allo
sviluppo delle tecnologie del sapere e alla diffusione dei mass media.
Il rischio non è più l’eccezione, ma la regola, la dimensione permanente di una società
che Ulrich Beck arriva a definire società del rischio, in cui minacce irreversibili per
piante, animali, uomini sono il risultato dello stesso sviluppo tecnico, economico e
scientifico. Anche il sociologo tedesco sottolinea come i rischi non nascano con la
modernità: ciò che li differenzia da quelli del passato è la loro natura globale e il fatto di
essere prodotti intrinseci del processo di industrializzazione.
La stessa tecnologia, che in una certa misura consente di prevedere e prevenire i rischi,
ne genera al contempo di nuovi e favorisce una rinnovata vulnerabilità dei sistemi
sociali.
Nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza è direttamente
proporzionale alla produzione sociale di rischi autodistruttivi, con l’ombra di una
potenziale autoeliminazione della vita sul pianeta.
Nel passato i pericoli derivavano generalmente da uno sviluppo insufficiente delle
tecnologie, ora invece sono la diretta conseguenza del suo eccesso, con una costante
crescita dell’incertezza, fonte perpetua di angoscia.
Questi pericoli fanno dell’uomo moderno, l’uomo della preoccupazione, secondo
l’espressione di Karel Kosìk
4
.
La preoccupazione, e l’ansia da essa derivata, non dipendono solo dai fattori appena
presentati, ma sono sentimenti con cui l’uomo moderno deve fare i conti tutti giorni,
anche quando non pensa alla probabilità di un’esplosione nucleare, perché sono il frutto
4
Karel Kosìk, “Dialettica del concreto”, Milano, Bompiani, 1965.
7
dei rischi che deve correre quotidianamente, relativi alla propria esistenza prima ancora
che alla propria incolumità.
Bauman parla di tormentata sfiducia esistenziale
5
, dovuta al fatto che la sicurezza è
stata “sacrificata giorno dopo giorno sull’altare di una libertà individuale in continua
espansione.”
6
L’individuo si trova di fronte ad una gamma infinita di possibilità, per cui l’incertezza
non deriva più, come in passato, dal non conoscere i mezzi, ma dal non conoscere i fini,
semplicemente perché questi sono troppo numerosi, in mancanza di un Ufficio
Supremo, un leader, una guida, un’autorità in grado di indicare la strada da seguire, in
mancanza addirittura di una routine di vita regolare e affidabile, che “avrebbe
risparmiato all’attore l’agonia della scelta incessante.”
7
Non si può più nemmeno
parlare di identità al singolare, ma solo di identità al plurale, assolutamente volatili,
entità transitorie, in ”un’incessante lotta per arrestare o rallentare il flusso, di
solidificare il fluido, di dare forma all’informe.”
8
Richard Sennet pone l’accento soprattutto sull’ansia e l’incertezza dell’uomo moderno
in ambito lavorativo, in un’era di capitalismo flessibile, in cui ogni tipo di rigidità viene
messo sotto accusa, soprattutto quelle burocratiche e formali.
Si chiede ai lavoratori di essere pronti ai cambiamenti con breve preavviso, di accettare
di essere spostati all’improvviso da un tipo di incarico ad un altro, mettendo fine ai
percorsi lineari delle carriere. Più nessuno passa tutta la vita nella medesima azienda,
anche perché i ridimensionamenti sono all’ordine del giorno. Ma la flessibilità anche
per Sennet genera ansia, perché viene a mancare quella buona dose di stabilità che
caratterizzava l’ambito lavorativo delle persone e “nessuno sa quali rischi valga la pena
di correre o quali percorsi sia opportuno seguire.”
9
5
Z. Bauman, op. cit., pag. 25.
6
Ibidem, pag. 24.
7
Ibidem., pag. 25.
8
Z. Bauman, “Modernità Liquida”, Roma-Bari, Laterza, 2002, pag. 88.
9
Richard Sennet, op. cit., pag. 9.
8
Si tratta di un’insicurezza generalizzata, che coinvolge chiunque e tutti gli ambiti della
vita individuale e collettiva e che porta Bauman a affermare che le uniche “due cose di
cui oggi siamo maggiormente certi sono la scarsa speranza che le sofferenze dovute
alle nostre incertezze attuali si attenueranno e l’incombere di un’incertezza ancora più
profonda.”
10
Cerchiamo ora di capire meglio i rischi con cui l’uomo moderno deve fare i conti e cosa
si intende per disastri, soffermandoci in particolare sulle peculiarità delle catastrofi
moderne, che mettono in luce tutta l’ambiguità del progresso.
10
Z. Bauman, “La solitudine del cittadino globale ”, op. cit., pag. 32.
9
2. Crisi, incidenti e disastri nel mondo moderno
“Se la verità è ciò che è verificabile,
la verità della scienza contemporanea
è, più che l’ampiezza del progresso,
quella delle catastrofi tecniche da essa
provocate.”
11
Paul Virilio
Nel linguaggio comune spesso crisi e disastro sono usati come sinonimi, in quanto
entrambi rimandano ad un evento che devia dalla normalità. In realtà sono due concetti
distinti.
Il termine crisi, originariamente appartenente al campo semantico della medicina, indica
un processo che si sviluppa in un progressivo crescendo di tensione fino a raggiungere
un momento decisivo. L’esempio macroscopico temporalmente più vicino potrebbe
essere la crisi irachena, sfociata nella Seconda Guerra del Golfo.
Il disastro invece è un cambiamento improvviso, che tutti i mezzi immediatamente
disponibili non riescono a controllare.
I due concetti però sono collegati tra loro, perché un disastro può comportare una crisi e
una crisi evolversi in un disastro.
Diverse sono le definizioni date al termine disastro, a partire da quella fornita da
Western,
che lo descrive come “una perturbazione improvvisa e diffusa del sistema
sociale e di vita di una comunità da parte di un qualche agente o evento sul quale le
persone coinvolte hanno un controllo limitato o inesistente.”
12
Carr
13
definisce il cambiamento catastrofico come “un cambiamento nell’adeguatezza
funzionale di un determinato manufatto culturale” e Killian
14
“ una lacerazione
11
Paul Virilio, “La bomba informatica”, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.
12
Citato in Barry A. Turner e Nick F. Pidegeon, “Disastri. Dinamiche organizzative e responsabilità
umane”, Milano, Edizioni di Comunità, 2001, pag. 105.
13
Citato in “Disastri”, op. cit., pag. 106.
14
Citato in “Disastri”, op. cit., pag. 106.
10
improvvisa del contesto sociale all’interno del quale agiscono gli individui o i gruppi o
una deviazione radicale dall’insieme delle normali aspettative”. Turner e Pidgeon
definiscono un disastro come “un evento concentrato nel tempo e nello spazio che
minaccia una società e che comporta gravi e indesiderate conseguenze come risultato
del collasso di precauzioni fino a quel momento culturalmente accettate come
adeguate.”
15
Generalmente si tende a distinguere tra:
ξ disastri naturali (natural disaster) o anche acts of God, proprio per
accentuare il carattere incontrollabile della loro manifestazione;
ξ disastri provocati per mano dell’uomo (man made disaster), o anche acts of
man. All’interno di quest’ultima categoria è possibile individuare un’ulteriore
distinzione tra i disastri tecnologici, dovuti ad incidenti legati allo sviluppo
tecnologico moderno, e i disastri di natura conflittuale, intenzionalmente creati
per provocare disordini, come atti terroristici, guerriglie e sequestri.
Tra le enormi conseguenze dell’industrializzazione, è possibile rintracciare anche un
cambiamento nella natura stessa dei disastri.
Nell’epoca preindustriale, questi ultimi erano perlopiù eventi naturali, provenienti
dall’esterno, come tempeste e inondazioni. Nell’Encycopédie, Diderot infatti definisce
“Incidente” un concetto grammaticale e filosofico, più o meno sinonimo di coincidenza.
In seguito alla rivoluzione industriale, il potenziale distruttivo proviene invece
dall’interno: sono gli apparati tecnologici che distruggono se stessi per mezzo del loro
potere.
Il rischio tecnico è diventato massiccio, insidioso e sempre più globale, per cui nelle
società moderne l’idea di disastro è associata all’idea di avanzamento della tecnologia,
di progresso, con il suo tempo lineare e irreversibile, sempre proiettato in avanti e
inaspettatamente interrotto da una catastrofe, da un collasso tecnologico.
15
Citato in “Disastri”, op. cit., pag. 107.
11
Anche la percezione dei disastri naturali come terremoti e uragani è cambiata: non
vengono più percepiti come improvvise esplosioni di forze naturali, ma sono ancora una
volta considerati come il risultato dell’inadeguatezza, del fallimento della tecnologia e
delle sue capacità predittive. Inoltre molti disastri naturali, come frane e inondazioni,
sono spesso l’esito di azioni intraprese dall’uomo nei confronti della natura
16
.
Attualmente, infatti, si tende a parlare di environmental risk quando si intendono tutti
quei pericoli provenienti dall’ambiente, al di là del loro essere prodotto di processi
naturali o dell’attività umana.
Tutte le definizioni riportate sottolineano il carattere improvviso e discontinuo del
disastro con conseguenze sia sociali che culturali. Come riconoscono gli stessi autori di
“Disastri”, la loro definizione ha però il vantaggio di includere i casi in cui l’entità dei
danni fisici è limitata e il numero di vittime per fattori fortuiti non particolarmente
elevato, ma in cui la disgrazia avvenuta rivela una breccia nel sistema di difesa, fino a
quel momento considerato sicuro, e provoca di conseguenza allarme e il riassetto
culturale delle aspettative. Non è infatti possibile utilizzare come parametro di
riferimento per classificare un evento come un disastro il numero dei morti, e comunque
questa non è una variabile sufficiente per segnare quella sottile linea di demarcazione
che divide un incidente da un disastro. Pertanto un incidente automobilistico sarà un
disastro per le persone direttamente coinvolte nell’evento, ma non può essere
considerato un disastro nel senso stretto del termine poiché rimane sul piano del vissuto
personale, è un evento traumatico privato e non uno shock collettivo.
16
Tra i tanti casi, ricordiamo il disastro della diga del Vajont: il 9 Ottobre 1963 una frana gigantesca
cadde nel lago antistante la diga, sollevando un’onda di 50 milioni di metri cubi e cancellando in pochi
secondi cinque paesi e quasi 2000 vite umane. Una delle cause principali fu la consistente presenza di
argilla (imbevuta d’acqua a causa delle copiose piogge delle settimane precedenti), le cui scarse qualità
meccaniche agevolarono un rapido distacco del terreno. A ciò si deve però aggiungere l’azione dell’uomo
attraverso il disboscamento, la costruzione di strade e canali nell’area in cui sorge la diga e le operazioni
di invaso e svaso effettuate durante il collaudo, che hanno ulteriormente peggiorato la coesione delle
rocce.
12
Da un punto di vista sociale un evento diventa un disastro in base alla sua distanza
fisica, emotiva e culturale, al prestigio delle persone coinvolte, alla loro posizione
sociale, ai loro possibili contributi agli affari della comunità, nonché al senso di sorpresa
e di shock. In altre parole, un disastro è sempre il frutto dell’interazione tra un fatto e un
determinato contesto sociale e culturale.
Anche la definizione data da Lombardi rende bene questa specificità del termine
disastro, definendolo un
“evento che, colpendo un sistema sociale, a livello comunitario e societario,
produce un danno osservabile attraverso l’interruzione del processo di
sviluppo del sistema colpito, provoca l’emergere di comportamenti specifici
e non normali, cioè extra-routinari; si configura come un costo per il
sistema biologico, in termini di morti e feriti, e per il sistema economico e
produttivo, in termini di interruzione dei processi e riorganizzazione delle
risorse.”
17
2.1 Il disastro del Columbia e l’ambiguità del progresso
“It doesn’t make sense to us that a
piece of debris could be the root cause
of the loss of Columbia and its crew.
There’s got to be onother reason.”
Ron Dittemore
18
Il primo Febbraio 2003, lo Shuttle Columbia stava rientrando a Terra da una missione
durata sedici giorni, quando, all’impatto con l’atmosfera terrestre, è esploso sopra il
Texas, con sette astronauti a bordo. Si è trattato del primo incidente in fase di rientro
mai avvenuto in 42 anni di voli spaziali, ma non il primo disastro che ha visto
protagonista questo rivoluzionario mezzo di trasporto aerospaziale.
17
Marco Lombardi, “Rischio ambientale e comunicazione”, Milano, Franco Angeli, 1997.
18
Direttore responsabile dei voli Shuttle, in una dichiarazione rilasciata alla BBC il 02/02/03. Traduzione
mia: “Non ha senso per noi che un detrito possa essere la causa alla base della perdita del Columbia e del
suo equipaggio. Deve esserci un’altra ragione”.
13
Il 28 Gennaio 1986, infatti, lo Shuttle Challanger è esploso, in diretta televisiva,
immediatamente dopo il lancio dal Kennedy Space Center, a Cape Canaveral, in
Florida, a causa di una guarnizione difettosa, in termine tecnico O-Ring, di uno dei due
vettori che supportano il lancio.
Sulla scorta di quanto detto finora l’esplosione dello Shuttle Columbia, come altri
disastri aerospaziali, rientra a pieno titolo nella definizione di “disastro” e non solo per
le persone più direttamente coinvolte dall’evento. È sicuramente considerato tale dalla
società americana, non solo per patriottismo, visto che gli astronauti coinvolti erano in
larga parte cittadini statunitensi, ma anche e soprattutto per il profondo significato
storico e culturale che ogni missione spaziale porta con sé, a partire dal fatto che incarna
il mito costitutivo della nazione americana, il mito della frontiera.
Allo stesso tempo è stato un disastro anche per l’intera comunità mondiale, per l’idea
moderna di progresso e di sviluppo tecnologico, che hanno trovato la loro più alta
concretizzazione proprio nell’avventura spaziale, ma contemporaneamente anche la loro
distopia in eventi catastrofici di questo tipo.
L’esplosione del Columbia è anche l’esempio di come un disastro tecnologico sia
sempre accompagnato da una grande sorpresa e da un ribaltamento delle assunzioni
culturali relative ad un determinato pericolo. Prima del disastro la NASA aveva una
considerazione quasi mitologica dei risultati aerospaziali raggiunti, con bassissimi costi
di vite umane. Ora il futuro dell’avventura aerospaziale ha subito una pausa forzata, a
causa dei dubbi che aleggiano sulla sicurezza spaziale e sulla potenza statunitense in
questo campo, facendo cadere nell’ombra i successi e alimentando le polemiche sulla
legittimità di esplorazioni di questo tipo.
Rientra anche a pieno titolo nella concezione moderna di disastro, inteso come collasso
tecnologico, in riferimento alle teorie sociologiche di Giddens e Beck: entrambi
sottolineano come i tentativi di controllare il futuro, di gestire e sfruttare la natura si
stiano ripercuotendo contro l’uomo stesso, come risultati del potenziale autodistruttivo
contenuto nel progresso tecnico e industriale.
14
Il caso del Columbia mette in evidenza tutta l’ambivalenza del progresso tecnico, in
quanto i suoi effetti sono imprevedibili e i suoi risultati contraddittori: i vantaggi sono
inseparabili dagli effetti nefasti e più il progresso tecnico cresce, più aumentano i
possibili inconvenienti.
Ciò è dovuto in prima istanza alla fragilità dell’universo tecnico. L’impossibilità di
possedere tutte le informazioni necessarie sul sistema e sul suo comportamento e
l’interdipendenza degli elementi tecnici fa sì che anche una piccola défaillance, sia essa
della macchina o dell’uomo, possa portare ad un blocco generalizzato con gravissime
conseguenze.
Le esplosioni del Columbia e del Challenger rendono altresì evidente come le catastrofi
non siano dovute alla scienza e alla tecnica di per sé, ma ad un loro uso poco
responsabile. Spesso è la logica che sottostà al sistema, basata sulla ricerca sfrenata
della potenza e sull’imperativo economico, che crea le condizioni per il disastro. Nel
leggere le inchieste che seguono la maggior parte delle catastrofi, ciò che colpisce è il
considerevole numero di negligenze, di mancata osservanza dei regolamenti e delle
leggi in vigore, a causa della vanità, della sete di ricchezza, di potenza e di prestigio.
Questo aspetto è molto evidente nel caso della conquista dello spazio che è stata,
durante la Guerra Fredda, ed è tuttora, anche una questione di immagine.
Il Challanger e le sue operazioni erano state spinte al limite massimo del livello di
performance richiesto ai sistemi aerospaziali, a seguito anche di pressioni politiche
esercitate sulla NASA e a lotte intestine per la leadership.
Prima dell’incidente gli USA avevano lanciato ventiquattro veicoli spaziali, con risultati
a dir poco brillanti. C’erano stati problemi, malfunzionamenti e drammi, come
l’incendio divampato all’interno della cabina dell’Apollo 1 durante una prova in vista
del lancio e l’odissea dell’Apollo 13, ma nessuna vittima in volo.
15
Sull’onda degli enormi successi ottenuti, si venne a creare quella sorta di
autocompiacimento e rilassamento che furono la causa prima dell’incidente:
“Come capita a uno che gioca alla roulette russa, se ogni successo rende
più fiduciosi di continuare a vivere per sempre, ci si inganna da soli e se ne
pagherà il prezzo.”
19
Secondo Lewis, in mancanza di una manifestazione concreta del rischio attraverso
incidenti, esistono due strumenti fondamentali per “procrastinare l’inevitabile”
20
:
ξ L’esperienza, da cui trarre preziosi insegnamenti e non, come ha fatto la
NASA, chiudere gli occhi davanti ai problemi: gli O-Ring si erano già rotti molte
volte in precedenza, ma poiché non avevano provocato catastrofi, la conclusione
di comodo fu che tali rotture erano da considerarsi accettabili.
ξ La valutazione del rischio, al fine di ottenere una stima della probabilità di
un incidente e “poiché la probabilità ha davvero un valore finito, non uguale a
zero, un certo incidente dovrà accadere; l’unica questione importante è quando.
Questo è uno stato d’animo vantaggioso per chi ha responsabilità di sicurezza.
La probabilità è un nemico naturale dell’autocompiacimento.“
21
La costruzione di stima del rischio si basa sull’assunzione che il rischio reale risulti dal
prodotto della probabilità di un evento per l’entità delle conseguenze dannose:
R= P C
Nell’ambito degli studi sociali di origine americana si distingue tra hazard, cioè una
fonte di pericolo, e risk, inteso come la possibilità di un danno o di un atto indesiderato.
A partire da questa distinzione si può formulare una seconda equazione:
RISK= HAZARD/SAFEGUARDS (salvaguardia)
19
H. W. Lewis, “Il rischio tecnologico: vantaggi e svantaggi del progresso scientifico”, Milano, Sperling
& Kupfer, 1995, pag. 220.
20
Ibidem, pag. 222.
21
Ibidem, pag. 223.