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Introduzione
Nel XVIII secolo si pensava che le persone sorde fossero automaticamente ritardate, ma quando a
quest‟ultime veniva data la possibilità di usare un mezzo di comunicazione alternativo, come ad
esempio la lingua dei segni, allora gradualmente si iniziò a riconoscere la loro competenza.
Negli anni sessanta la maggior parte delle persone con paralisi cerebrale era ritenuta ritardata, ma
quando esse acquisirono un mezzo di comunicazione come ad esempio il computer e le lettere
dell‟alfabeto, anche questi soggetti gradualmente spazzarono via la loro presunzione di ritardo
mentale.
Di recente, fino ad arrivare ai nostri giorni, molti soggetti con Autismo o con altri disturbi dello
sviluppo, vengono classificate come ritardate; ma, come per i loro predecessori sordi o con paralisi
cerebrale, dar loro questa etichetta di ritardo mentale vuol dire ignorare le loro difficoltà nell‟ambito
della comunicazione.
Una domanda che può sorgere spontanea potrebbe essere la seguente: come può una persona che
non riesce a comunicare in modo efficace essere, ad esempio, sottoposta correttamente ad un test?
La risposta a questo quesito è possibile ricercarla nel fatto che la comunicazione facilitata non è
altro che una alternativa per la persona che presenta un‟assenza del linguaggio verbale o il cui
linguaggio risulta essere molto disturbato al punto tale da considerarlo come non affidabile.
Comunicare in facilitazione vuol dire, quindi, scrivere a macchina o indicare delle figure, lettere o
parole; un facilitatore, che può essere un insegnante, un membro della famiglia o un amico, fornisce
un supporto fisico, cioè un aiuto nello stabilizzare il braccio o nell‟isolare il dito indice; ma, allo
stesso tempo, fornisce anche un autentico supporto emotivo ed empatico
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.
È questo, però, un metodo altamente controverso, in parte perché i facilitatori potrebbero
influenzare involontariamente il contenuto della comunicazione, e in parte perché molte persone
che usano questa tecnica hanno prodotto una comunicazione che contraddice la loro diagnosi di
ritardo mentale; alla luce di queste due ragioni, i soggetti che utilizzano la comunicazione facilitata
si trovano davanti allo stesso scetticismo che incontrarono, in passato, le persone sorde o con
paralisi cerebrale.
Dati questi elementi di controversia e, comunque, una chiara limitazione di un metodo che, seppur
non intenzionalmente, può influenzare la produzione, ci si potrebbe chiedere come si può essere
certi che questo metodo funzioni.
Attraverso, quindi, questo lavoro si vogliono percorrere tre aspetti di fondamentale importanza:
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Crossley, R. & McDonald, A. (1984). Annie’s coming out. New York.
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- nella prima parte sono stati affrontati gli “ingredienti” principali della Comunicazione Facilitata;
si è cercato di delineare un inquadramento storico all‟interno del quale poter collocare alcune
considerazioni come ad esempio il fatto che molte sono le persone che si chiedono come sia
possibile che un soggetto, con una diagnosi di ritardo mentale o di autismo, possa rivelare un certo
grado di alfabetizzazione proprio attraverso l‟uso della CF.
Se si insegna ad una persona a comunicare mediante la facilitazione, essa potrà essere in grado di
partecipare ad un lavoro educativo, alla vita familiare e di comunità in modo molto più efficace
rispetto a quanto non riusciva a farlo in precedenza, anche se ciò non vuol dire che la capacità di
comunicare non cancella le altre difficoltà riscontrate; ad esempio, un soggetto autistico potrà
continuare ad avere sempre certe intolleranze alimentari, sensibilità sensoriali o disordini di tipo
ossessivo – compulsivo.
L‟aspettativa che ogni persona possa sviluppare capacità legate all‟alfabetizzazione è propria di
ognuno di noi; le aspettative occupano, dunque, una parte importante nella vita di un bambino in
quanto parlerà la lingua dei propri genitori o di coloro che lo circondano; per quei bambini ai quali è
stata riscontrata una certa disabilità, invece, questo processo è più complicato per il fatto che, se non
imparano a parlare la lingua o sembrano “strani” per certi loro aspetti, risulta essere di gran lunga
più difficile capire ciò che essi hanno realmente appreso.
- Nella seconda parte si tenta di spiegare come il fenomeno della CF sia stato scambiato anche per
un atto miracolistico dal pubblico in generale, o che molto spesso cadeva nelle mani di persone
prive di una specifica formazione e del tutto ignare di linee guida da seguire.
Molti facilitatori hanno, infatti, in modo semplicistico, ridotto il percorso di facilitazione della
comunicazione a un sostegno fisico alla mano o al polso della persona da facilitare, immobili nei
presunti risultati conseguiti.
Da qui, la conseguente suddivisione in coloro che sostengono che la CF sia un metodo funzionante
per quelle persone che presentano un canale verbale e comunicativo pressochè o totalmente assente,
e coloro che, al contrario, portano avanti la tesi tale per cui alla base della CF non ci sarebbe alcun
fondamento scientifico; a tal proposito sono soprattutto gli studi quantitativi a sottolineare una non
validazione della CF, mentre esistono studi qualitativi che indicano come diversi bambini e adulti
abbiano sviluppato abilità di comunicazione autonoma attraverso un training di CF.
Questa è la controversia che, a tutt‟oggi, ci accompagna.
- Infine, la terza parte, tratta alcuni degli aspetti essenziali di un disturbo quale, per l‟appunto,
l‟autismo, in quanto la CF viene sì, utilizzata in generale con quelle persone che hanno difficoltà a
parlare, ma anche e soprattutto con i soggetti autistici, la cui principale caratteristica è proprio
quella di una assenza del linguaggio.
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Vuole quindi essere una semplice linea guida che possa aiutare a tenere presente una teorica
definizione di autismo attraverso la rilevazione di tutte quelle anomalie comportamentali che
denotano le difficoltà dei soggetti autistici nel rapportarsi alla realtà circostante.
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Parte prima
Se con me tu vieni
Grande gioia hai nel cuore
Bambina che non parla
Cervello che funziona ti mordo se ho rabbia
Ti baci se vicini siamo
Sia Dio meno crudele
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(15 febbraio 2001, Rosa)
1. La Comunicazione Facilitata: una forma di C.A.A.
La comunicazione facilitata è una forma di Comunicazione Aumentativa Alternativa (C.A.A.);
questo termine è usato per descrivere tutte le modalità di comunicazione che possono facilitare e
migliorare la comunicazione di quelle persone che hanno difficoltà ad utilizzare i più comuni canali
verbali, soprattutto il linguaggio orale e la scrittura
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Si definisce “aumentativa” perché non sostituisce ma incrementa le possibilità comunicative
naturali della persona; si definisce “alternativa” perché utilizza modalità di comunicazione,
appunto, alternative e diverse da quelle tradizionali.
Come dice la parola stessa, quindi, non è altro che un insieme di metodi e strategie che servono per
potenziare le capacità residue del soggetto di comunicare e offre anche un metodo alternativo al
linguaggio dove esso sia assente o molto improbabile da verificarsi.
Tuttavia, esiste anche un po‟ di confusione tra i termini “comunicazione facilitata” e
“comunicazione aumentativa”, oppure “comunicazione aumentativa e alternativa”; infatti, possiamo
sottolineare, ancora una volta di più, come la comunicazione facilitata si basi sulla premessa che i
soggetti autistici possiedono una capacità nascosta di leggere e scrivere
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Guerra, C., Cadei, P. & Battistoni, N. (2002). A voce alta. Dialoghi di ragazzi autistici attraverso il metodo della
Comunicazione Facilitata. Ed. Junior, Torino.
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Beukelman, D. & Mirenda, P. (1992). Augmentative and Alternative Communication Processes. Baltimore, MD: Paul
H. Brookes.
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Biklen, D. (1993). Communication Unbound. New York.
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È una tecnica dove il facilitatore tocca la mano, il braccio o la spalla della persona affetta da deficit
comunicativo, mentre essa, congiuntamente, indica i simboli, le lettere o le parole.
La CF non deve essere confusa con l‟uso appropriato di una guida manuale o altri prompt che
vengono usati per insegnare la comunicazione o altre abilità; inoltre, non dovrebbe nemmeno essere
confusa con l‟uso indipendente dei sistemi comunicativi non verbali, come tabelle con lettere,
tastiere ed altri sistemi dei simboli. (ABA, 1995).
L‟uso di simboli, fotografie, gesti, apparecchi informatici serve a fare in modo che il bambino
sperimenti un modo di comunicare comprensibile a tutti, così da non essere sempre dipendente dai
genitori e familiari che ogni volta devono tradurre per altre persone i suoi desideri o i suoi pensieri;
(usare simboli o fotografie non preclude la comparsa o il rafforzamento del linguaggio, in quanto i
bambini che sperimentano quanto può essere utile ed efficace dire qualcosa a qualcuno cercheranno
di aumentare la loro capacità comunicativa il più possibile).
Può essere giusto ricorrere alla C.A.A. quando un bambino non riesce a sviluppare il linguaggio
verbale o quando esso non sia sufficiente a permettergli la comunicazione con gli altri, sia perchè
povero di vocaboli, sia perchè incomprensibile per chi non lo frequenta abitualmente.
I genitori credono, molte volte, di poter interpretare sempre correttamente i pensieri dei propri figli,
inciampando così nell‟errore di precedere nelle loro scelte e darne un‟interpretazione non
necessariamente giusta; fungono da canale comunicativo fra il bambino e il resto del mondo sì, ma
anche precludendo loro, a volte, la possibilità di essere una persona a sè capace di una identità
propria e staccata da quella dei genitori.
Specialmente nella socialità con i coetanei la comunicazione diventa uno strumento insostituibile:
se esso è assente non si potrà entrare in relazione con gli altri e quindi crescere all‟interno
dell‟ambiente sociale.
Cominciare fin da quando il bambino è piccolo a usare metodi alternativi è utile per evitare che
vengano usati per troppo tempo mezzi di comunicazione propri della primissima infanzia: piangere
per richiamare l‟attenzione, urlare o fare i capricci per ottenere qualcosa ecc.
Spesso coloro che non hanno la possibilità di parlare sfruttano questi metodi infantili anche da
grandi perchè sono gli unici che hanno a disposizione; questo naturalmente non li aiuta a crescere
emotivamente e anche agli occhi degli altri restano sempre come bambini piccoli.
Crossley si riferisce alla comunicazione facilitata come ad un allenamento alla comunicazione; usa
il termine di “allenamento” per indicare che il metodo è effettivamente un processo molto lungo
attraverso il quale il soggetto parte da un supporto significativo tanto fisico quanto emotivo per poi
arrivare ad una comunicazione indipendente senza più bisogno di un tocco fisico.
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La produzione a cui si giunge attraverso l‟uso della comunicazione facilitata varia a seconda della
disabilità, comportamento, stile di interazione, personalità, atteggiamenti, ansia oppure in base ad
altri fattori tra cui i diversi tipi di aiuto che la persona riceverà dagli amici e dai parenti; in questo
senso, ogni persona rappresenta un caso a sé, e la tecnica della comunicazione facilitata va
considerata come un insieme di pratiche che devono essere pensate su misura per ogni individuo.
È anche vero però che, allo stesso tempo, è di pari importanza il fatto che alcuni dei principi di base
devono essere sempre tenuti presenti per fare in modo che il metodo funzioni; ad esempio, un
soggetto con un disturbo della comunicazione deve imparare a guardare l‟obiettivo (e cioè la
tastiera) per poter essere accurato nella produzione e deve avere a disposizione un mezzo per poter
verificare ciò che ha scritto (attraverso la disponibilità di un display visivo o di lettere scritte,
oppure un facilitatore il cui compito è quello di ripetere ad alta voce tali lettere,…).
2. Breve storia della CF: Italia e resto del mondo a confronto.
La Comunicazione Facilitata viene impiegata con questo nome per la prima volta in Australia
all‟inizio degli anni „70 da Rosemary Crossley, un‟insegnante del St. Nicholas Hospital, con 12
bambini con handicap fisici e mentali
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Il metodo consiste nel sostenere fisicamente il braccio della persona così da permetterle di digitare
su una tastiera o indicare su un foglio appropriato (la tavola alfabetica) parole e frasi, in maniera da
consentirle di esprimere i propri pensieri anche nell‟impossibilità di usare il linguaggio verbale o i
gesti.
Benché dalle osservazioni di Crossley sembrasse che i bambini da lei trattati fossero in possesso di
abilità intellettuali normali o superiori, tali risultati non furono considerati convincenti dai suoi
superiori che non le consentirono di continuare il programma con bambini affetti da handicap grave.
Nel 1985, comunque, l‟autrice sperimentò la tecnica con dei bambini affetti da autismo, i quali,
secondo le sue osservazioni, rivelarono inaspettate competenze linguistiche a dispetto dei diversi
problemi che essi avevano invece nella sintassi e nell‟uso corretto dei pronomi con il linguaggio
verbale.
Dopo essere stata definitivamente allontanata dall‟ospedale, la Crossley aprì nel 1986 a Melbourne
il DEAL, Centro per la Comunicazione (Dignity through Education and Language), di cui era
coordinatrice del programma ed il metodo iniziò a diffondersi.
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Crossley, R. (1994). Facilitated communication training. New York.
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La comunicazione facilitata è stata scoperta, in generale, in numerosi Paesi e in modo del tutto
spontaneo; in diverse occasioni coloro che la scoprirono riscontrarono che, con la pratica, le persone
con autismo o altri disturbi dello sviluppo, potevano imparare a produrre parte o tutta la loro
comunicazione senza supporto fisico.
In questo senso, potremmo affermare che la chiave di tutto ciò è, senza ombra di dubbio, la pratica.
Questo metodo è emerso, per la prima volta, a seguito degli sforzi di un genitore e di un educatore il
cui obiettivo era la ricerca di un mezzo di espressione per tutte quelle persone che erano state
classificate come non educabili dai professionisti dell‟handicap.
Ad esempio in Inghilterra, una ragazza che, per convenzione, Biklen chiamerà Diana Moore,
diagnosticata autistica e con comportamenti aggressivi, era stata rifiutata anche dalle scuole
speciali; così, alla mamma di Diana non rimase altro che tenere la propria figlia in casa e provare ad
insegnarle a leggere.
Inizialmente, la madre aveva pensato di sostenere la mano per farle indicare lettere e parole;
successivamente, le aveva dato da tenere una penna in modo che potesse scrivere, sempre però
sostenendo la sua mano.
Un giorno, però, la mamma di Diana, notò che quest‟ultima non solo sapeva muovere da sola la
penna, ma si era anche rivelata in grado di scrivere i caratteri dell‟alfabeto; in poco tempo, così, la
sua comunicazione si trasformò da semplice e fatta di espressioni di una o due parole al massimo,
a complessa, quindi in grado di scrivere intere frasi
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Gli antecedenti della CF si possono tuttavia rintracciare in alcuni lavori svolti nei primi anni
settanta; in questo periodo, si ha notizia di due pediatri newyorkesi, Goodwin e Goodwin, che si
occuparono di più di 60 studenti con diagnosi di autismo alcuni dei quali erano in grado di digitare
su uno strumento detto “la macchina per scrivere parlante”; nonostante sembrasse che alcuni
ragazzi fossero riusciti a digitare messaggi pertinenti e finalizzati, dagli appunti non è tuttavia
risultato se il braccio degli studenti fosse sostenuto in qualche modo.
Sapere questo è importante ai fini del nostro studio, dato che, come vedremo, la CF si distingue
dalle altre forme di Comunicazione Aumentativa ed Alternativa proprio soprattutto per il fatto di
fornire l‟aiuto di un supporto fisico.
Nel 1974 fu pubblicato un articolo da Rosalind Oppenheim nel quale si affermava che era stato
possibile permettere ad alcuni studenti con autismo di scrivere sostenendo loro la mano e riducendo
gradualmente l‟aiuto
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In particolar modo, l‟autrice scoprì che il proprio figlio Ethan riusciva a scrivere se lei gli
appoggiava la mano sopra; con il passare del tempo Ethan imparò a comunicare solo con un tocco
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Crossley, R. (1994). Facilitated communication training. New York.
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Oppenheim, R. (1974). Effective teaching methods for autistic children. Springfield.