E‟ chiaro che i due approcci non definiscono lo stesso fenomeno in 
quanto il primo pone l‟accento sul riconoscimento del valore delle 
persone e sulle loro possibilità di crescita ( competenze individuate in 
senso stretto, individuate secondo un processo bottom – up ); il 
secondo invece si interessa delle condizioni di successo dell‟impresa, 
delle sue possibilità di generare un differenziale competitivo partendo 
dal business e dalla strategia ( core competences, definite in base ad 
un procedimento top – down ). 
La differente chiave interpretativa la troviamo riflessa nei diversi 
approcci metodologici che le aziende adottano nella costruzione del  
modello. I modelli gestionali  impostati secondo la prima prospettiva 
sono di tipo induttivo perché le competenze vengono definite dal 
basso, cioè attraverso l‟osservazione di specifici comportamenti 
individuali di successo ma, per tale motivo, presentano una maggiore 
complessità nella loro elaborazione. I modelli riconducibili, invece, al 
secondo approccio sono di tipo deduttivo perché le competenze sono 
definite a priori, partendo dalla strategia aziendale, tramite elenchi di 
caratteristiche ideali ritenute necessarie per affrontare con successo 
l‟attività aziendale. E‟ anche vero però che il nuovo scenario 
competitivo impone di superare la contrapposizione tra questi due 
piani ( competenze individuali e competenze organizzative ) e di 
integrare le due visioni secondo un modello che lega le capacità 
individuali e il loro sviluppo alle specifiche condizioni del contesto di 
business e alle sue evoluzioni. 
Scelta vincente per un‟azienda sarà allora quella che cercherà di 
mediare trovando un equilibrio dinamico tra i due approcci: l‟azienda 
determinerà le strategie e le competenze a queste funzionali ma, al 
contempo, dovrà riconoscere e  sviluppare quelle effettivamente 
possedute dalle sue risorse umane  al fine di garantirsi la continuità di 
2
performance di successo, in coerenza con i valori, gli obiettivi e le 
strategie del business. 
Nel primo capitolo viene analizzata l‟evoluzione del concetto di 
organizzazione. In particolare si cerca di mettere in rilievo quanto 
questa evoluzione possa essere stata una dei motori scatenanti 
l‟attenzione alle competenze.  L‟analisi di alcune teorie evidenzia 
quanto sia variata la considerazione dell‟individuo all‟interno di 
un‟organizzazione. Semplificando al limite le trasformazioni, si 
potrebbe pensare che il focus si è andato sempre più spostando da un 
addestramento ad una mansione, fino a giungere ad una formazione 
che non può più trascurare di considerare il soggetto come risorsa in 
grado di mettere a frutto i tre tipi di saperi che possiede: sapere, saper 
fare, saper essere. Le competenze, in questo nuovo contesto 
organizzativo, possono essere considerate come un elemento capace di 
inglobare in un unico sistema il complesso di esperienze, 
comportamenti, abilità e conoscenza posseduti da un soggetto. 
Nel secondo capitolo si entra nella problematica terminologica dove si 
analizzano varie definizioni di competenza che fondamentalmente  si 
possono distinguere in due grandi categorie e approcci: l‟approccio 
individuale e quello organizzativo. 
Nel terzo capitolo viene ripresa la problematica del capitolo 
precedente per una descrizione più dettagliata che analizza, oltre alle 
definizioni dei due approcci anche il contesto e la metodologia, gli 
strumenti e le modalità di analisi di ciascuno. Infine si è cercato di 
congiungere questo bipolarismo presente nella letteratura e nella 
prassi aziendale analizzando un modello detto “integrato” che tenta di 
conciliare i primi due.      
  
    
3
  
Capitolo 1 
 
 
COMPETENZE  ED EVOLUZIONE 
ORGANIZZATIVA 
 
 
Introduzione 
 
 
Nella recente letteratura sociologica e pedagogica vi è sempre un  
maggior riferimento al concetto di competenza. 
L‟accresciuto interesse dimostrato dall‟utilizzo sempre più frequente 
di questo termine è sintomo di importanti cambiamenti che hanno 
portato la nostra società nell‟era del post-industriale . 
Un‟analisi del processo evolutivo delle teorie dell‟organizzazione,  
dell‟organizzazione del lavoro e del progresso tecnologico, mette in 
luce il cambiamento avvenuto nella concezione dell‟uomo  e, più in 
particolare, quanto sia variata la considerazione attribuita all‟individuo 
all‟interno di un‟organizzazione, divenuta sempre più complessa. 
L‟individuo è infatti passato dal rango di semplice esecutore, 
ingranaggio di una macchina complessa , fino a giungere ad essere 
considerato risorsa umana . 
I cambiamenti organizzativi hanno avuto delle ripercussioni anche sul 
ruolo della formazione in contesto organizzativo. Semplificando al 
4
limite queste trasformazioni, si potrebbe affermare che il focus si è 
andato sempre più spostando da un addestramento ad una mansione,  
fino a giungere ad una formazione che non può più trascurare di 
considerare il soggetto come risorsa in grado di mettere a frutto i tre 
tipi di saperi che possiede: sapere, saper fare, saper essere. 
Nel nuovo contesto organizzativo che si viene a delineare il tema delle 
competenze ricopre una posizione predominante. 
Le competenze, infatti, possono essere considerate come un elemento 
sufficientemente  onnicomprensivo e flessibile, capace di inglobare in 
un unico sistema  il complesso di esperienza, comportamenti, abilità e 
conoscenza posseduti da un soggetto. 
5
1.1 Evoluzione del pensiero organizzativo  
 
Il modello di organizzazione del lavoro che ha fornito all‟analisi delle 
organizzazioni i primi oggetti di studio è stato quello ideato da 
Frederick Taylor, dal quale ha assunto il nome di taylorismo. Circa un 
secolo fa Taylor introdusse una vera e propria rivoluzione mentale, 
come viene definita da Bonazzi,1 rispetto alle condizioni di lavoro che 
erano state proprie della neo società industriale. La nuova forma 
organizzativa ideata da Taylor venne definita Organizzazione 
Scientifica del Lavoro (Osl).  
Secondo Friedberg2 i postulati su cui si basa l‟ OSL sono due: il 
concetto di one best way e quello di homo oeconomicus. 
Con il primo termine si presuppone che “esisterebbe, per ogni attività, 
un modo ottimale, ed un solo di svolgerla. In questa ottica 
l‟organizzazione è vista come l‟ordinamento meccanico di una serie di 
posti che possono essere definiti e descritti […]. Si può determinare 
quindi  il modo migliore , e il solo di organizzazione per raggiungere 
lo scopo dell‟impresa”3. 
Il secondo postulato, dell‟homo oeconomicus, considera l‟uomo  
“spinto unicamente da motivazioni economiche. L‟individuo al lavoro 
è in effetti trattato , in questa ottica, come un essere totalmente 
                                                 
1
 G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo , Milano , Franco Angeli , 1992 
2
 E. Friedberg, L’analisi sociologica delle organizzazioni , Formez, Roma, , 1986 
3
 Ivi, pp. 44-45 
6
intercambiabile  (a pari di qualificazione tecnica)  e passivo, che 
risponde in modo perfettamente prevedibile a stimoli economici”.4   
Da questi presupposti derivano i quattro principi individuati da 
Bonazzi5 grazie ai quali è possibile attivare l‟aumento della 
produzione: 
studio scientifico dei metodi di lavorazione; 
selezione ed addestramento scientifico della manodopera; 
intima e cordiale collaborazione tra i dirigenti e manodopera; 
ristrutturazione dell‟apparato direttivo tramite una rigorosa 
pianificazione. 
 Alla luce di questa breve presentazione del modello dell‟ Osl, si 
possono trarre delle considerazioni che hanno abbondantemente 
nutrito l‟acceso dibattito contro il Taylorismo.  
La critica più ricorrente scagliatasi  contro questo modello si oppone 
vivacemente alla ridotta considerazione attribuita all‟individuo, che è 
visto come un mero attuatore di azioni minuziosamente analizzate e 
definite dall‟esterno.  O.Du Roy in un suo articolo6 ha individuato 
cinque esclusioni o separazioni fondamentali  che, ai nostri giorni, 
possono essere considerate delle grossolane dimenticanze, ma che ci 
presentano chiaramente alcuni dei limiti di questo modello. La prima 
consiste nella mancanza di significato che viene ad avere il lavoro, in 
quanto il lavoratore non partecipa più alla “preparazione del lavoro 
                                                 
4
 Ibidem [nella stessa pagina] 
5
 Cfr. G. Bonazzi, op. cit. ,pp. 35-44 
6
 Cfr. O. Du Roy , Una ricerca europea coordinata sul tema . formazione ed organizzazione del 
lavoro, in S.Mollica , P. Montobbio, op. cit. in bibl.,pp. 374-382 
7
stesso, le modalità di lavoro, il suo svolgimento e , per finire , il 
controllo del lavoro”7 gli sono estranei . La seconda esclusione 
consiste nel togliere al lavoratore il sapere tecnico che viene ridotto a 
norma da seguire diligentemente. “La terza esclusione è la privazione 
del controllo del tempo di lavoro, il tempo viene assegnato al 
lavoratore, esistono tempi previsti per ogni più elementare compito”8. 
La quarta esclusione è la privazione della comunicazione, che non è 
più necessaria, in quanto il lavoratore deve solo eseguire 
macchinalmente il compito assegnatogli.  
Quinta ed ultima privazione consiste nell‟esclusione dalla possibilità 
di collaborazione informale, essendo tutto già necessariamente 
programmato. 
In netta opposizione al modello tayloristico, negli anni ‟30 si diffonde 
il cosiddetto filone delle human relations. Questo movimento ha avuto 
origine dagli esperimenti ad Howthorne  alla Western Electric 
Company9 che hanno portato alla ribalta l‟importanza del fattore 
„uomo‟ dimenticato da Taylor. Come afferma Friedberg, con questo 
modello “si è così scoperta l‟importanza dei fattori affettivi e delle 
motivazioni psicologiche nella comprensione del comportamento 
umano all‟interno di una organizzazione”.10  
Questa corrente di pensiero, il cui maggiore esponente è stato Elton 
Mayo, viene considerata dal Bonazzi come un tentativo “di avvolgere 
il tutto in una caramellosa aria di comprensione personale, di 
collaborazione ed armonia”11. E‟ vista inoltre come una mera reazione 
                                                 
7
 Ibidem, p 375 
8
 Ibidem p. 376 
9
 Cfr.G. Bonazzi , op. cit., pp. 52-53 
10
 E. Friedberg, op. cit.,p. 46 
11
 Cfr. Bonazzi, op. cit., pp. 52-53 
8