2
prio nel settore giuslavoristico, regolato con un sistema corporativo
2
.
Il codice Rocco quindi, nella sua originaria formulazione, sanzionava
penalmente all’art. 502 lo sciopero; ci trovavamo quindi nel momento
dello sciopero-delitto
3
, dopo essere stati col codice Zanardelli del
1889 nella fase dello sciopero-libertà
4
. Tale concezione era del tutto
antitetica a quanto previsto dall’art. 40 Cost. e infatti la Corte Costitu-
zionale non tardò a dichiarare abrogato dalla Costituzione l’art. 502
c.p., con la sentenza n. 29 del 4 maggio 1960.
Ma l’art. 502 non era l’unica norma incriminatrice dello sciopero:
il 20 ottobre 1961 fu sollevata la questione di legittimità costituzionale
degli artt. 330, 504 e 505 del c.p. dal Tribunale di Livorno, con
un’ordinanza
5
emessa nel corso di un procedimento penale nei con-
fronti di 193 dipendenti dell’azienda tramviaria automobilistica muni-
cipale di Livorno. Iniziando con l’art. 330, che incriminava
l’abbandono collettivo del lavoro effettuato da quattro categorie di
personale
6
, la Corte Costituzionale, che decise con la sentenza 123 del
28 dicembre 1962
7
, ne salvò la legittimità pur deducendone in motiva-
zione cause di incostituzionalità: la Corte rilevò infatti che il compor-
2
E rileva particolarmente, per l’oggetto di questo studio, che ai pubblici impiegati e gli addetti ai
pubblici servizi non era neanche concesso di organizzarsi nelle corporazioni fasciste. Diceva
ROCCO, nella relazione che precede i disegni di legge sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavo-
ro: “Vi sono Sindacati che non possono essere mai riconosciuti, quali i Sindacati dei dipendenti
dello Stato, delle province, dei comuni […]. I rapporti fra gli enti pubblici di carattere politico e i
loro dipendenti sono di loro natura tali che non consentono la creazione di organi sindacali di dirit-
to pubblico, perché è inconcepibile il riconoscimento giuridico di una difesa di categoria o di clas-
se contro enti che rappresentano l’interesse generale”. Rocco giustificava questa posizione col
comportamento che tennero i sindacati, che disposero dei servizi pubblici “secondo la loro volon-
tà” e il loro capriccio, per decidere della politica estera della Nazione, “della pace e della guerra”.
3
Ciò significava illiceità della condotta sia sul piano dei rapporti con lo Stato, con l’eliminazione
della relativa libertà, sia sul piano del rapporto di lavoro, dove l’astensione volontaria dalla presta-
zione dovuta equivale ad inadempimento contrattuale con tutte le conseguenze civilistiche e disci-
plinari.
4
La semplice mancanza dell’incriminazione penale ripristina la libertà di sciopero escludendone
la repressione da parte dello Stato, ma lascia intatto l’illecito sul piano contrattuale.
5
Pubblicata in G. U., 10 marzo 1962, n. 65.
6
Pubblici ufficiali, incaricati di pubblici servizi, il privato che esercitava un servizio pubblico o di
pubblica necessità non organizzato in impresa e il lavoratore dipendente da imprese di servizi pub-
blici o di pubblica necessità.
7
In Giur. cost., 1962, vol. II, pagg. 1506 e segg.
3
tamento degli scioperanti assume rilevanza penale
8
solamente quando
questi abbandonano o prestano l’ufficio in modo da turbarne la conti-
nuità o regolarità a scopi che non sono ritenuti meritevoli di tutela
dall’ordinamento, e rivendicare un miglioramento delle proprie condi-
zioni di lavoro è un comportamento da ritenere legittimo: la Corte do-
veva procedere alla ricerca dei limiti entro i quali l’astensione dal la-
voro di queste 4 categorie rientrasse nel diritto di sciopero e, non a-
vendo ancora il Legislatore emanato norme al riguardo, questa non
aveva alcun parametro legislativo cui agganciarsi e dovette quindi fare
riferimento al concetto derivato dalla tradizione accolta dai padri co-
stituenti che, secondo la Corte stessa, “si concreta nell’astensione tota-
le dal lavoro da parte di più lavoratori subordinati, al fine della difesa
dei loro interessi economici” e alla “necessità di contemperare le esi-
genze dell’autotutela di categoria con le altre discendenti da interessi
generali i quali trovano diretta protezione in principi consacrati nella
stessa Costituzione”. La Corte decise quindi per la non applicabilità
dell’art. 330 nel caso in cui i lavoratori si astenessero dal lavoro per
tutelare tali loro interessi e che in ogni caso l’applicazione della norma
penale fosse condizionata dal bisogno di salvaguardare altri interessi
“assolutamente preminenti rispetto agli altri collegati all’autotutela di
categoria”.
Comunque fu salvata la legittimità costituzionale di tutte le norme
impugnate, stabilendo che fossero sempre applicabili nel caso in cui i
comportamenti in esse previste fossero posti in essere per fini estranei
alla tutela dei diritti dei lavoratori; la Corte delegò ai giudici di merito
il compito di disapplicare tali norme nel caso in cui lo sciopero fosse
stato valido esercizio del diritto di cui all’art. 40 Cost. ma si auspicò
l’attuazione del precetto contenuto nella norma. Si era quindi stabilito
8
L’Avvocatura dello Stato aveva fatto notare che la questione relativa all’art. 330 c.p. non era con-
figurabile come di legittimità costituzionale, ma piuttosto d’interpretazione della legge penale.
4
che i comportamenti previsti dagli articoli impugnati non erano pe-
nalmente rilevanti se posti in essere nell’esercizio del diritto di sciope-
ro, non facendo altro che applicare l’art. 51 c.p..
In questa sentenza la Corte si pronunciò incidenter tantum su un
altro importante punto, a proposito delle limitazioni soggettive alla ti-
tolarità al diritto di sciopero, sostenendo che prevedere limitazioni per
particolari categorie di lavoratori non contrasta né con l’art. 40 né con
l’art. 3 Cost.. Con ciò la Corte andò in una direzione diametralmente
opposta a quanto sostenuto dalla dottrina all’epoca dominante
9
.
CRISAFULLI
10
al riguardo sostenne che sarebbe stato meglio invo-
care a conforto di tale decisione considerazioni di carattere generale e
opportunità politica. E, sempre quest’autorevole Autore, criticò la
mancata individuazione del fondamento giuridico di tali limitazioni e
la mancata determinazione delle categorie alle quali fossero legitti-
mamente applicabili, determinazione che mancò per evitare di acco-
gliere una tesi prospettata dall’Avvocatura dello Stato per la quale i
limiti avrebbero dovuto essere tratti dagli artt. 54 e 98 della Costitu-
zione e con la cui ammissione si sarebbero esclusi dal godimento del
diritto di sciopero tutti i pubblici impiegati e i funzionari dello Stato.
L’Autore concluse deducendo che la carenza di una legge che regolas-
se questo delicatissimo settore non poteva assolutamente bastare a
giustificare il tentativo che la Corte aveva fatto di stabilire dei limiti,
cosa nella quale il Legislatore trovava notevoli e oggettive difficoltà,
dovendo limitare una libertà senza sopprimerla.
Si sarebbe potuto forse obiettare all’autorevole Autore che il fatto
che la Corte costituzionale fosse stata costretta a pronunciarsi sul pun-
to significava che era fortemente necessario che qualcuno si occupasse
9
SICA, Il diritto di sciopero nell’ordinamento costituzionale, in Rass. dir. pubbl. 1950, I, 144 e
CALAMANDREI, Significato costituzionale del diritto di sciopero, in Riv. giur. lav. 1953, I, 243.
10
Incostituzionalità parziale dell’art. 330 c.p. o esimente dell’esercizio di un diritto? in Giur.
cost., 1962, pagg. 1509 e segg.
5
a livello istituzionale del problema, e se secondo la Costituzione solo
la legge può regolare il settore, una devoluzione di questo ai giudici
costituzionali può essere considerato il male minore tra i tanti possibi-
li, stante il fatto che molto spesso questi si sono sostituiti ad un Parla-
mento inerte e che la Corte ha sempre avuto una funzione “legislati-
va”, pur se “solo” abrogativa.
Ma le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 330 c.p. con-
tinuarono ad essere sollevate. Il pretore di Roma, con ordinanza 7
marzo 1968
11
contestò un punto importante a proposito della delega
data dalla Corte costituzionale ai giudici di merito per accertare caso
per caso se lo sciopero posto in essere costituisse valido esercizio del
diritto garantito dall’art. 40, che non sembra assolutamente prevedere
una riserva di giurisdizione al riguardo, bensì una riserva di legge. I-
noltre il pretore argomentava sostenendo che la decisione nei singoli
casi sarebbe stata pericolosa e molte volte arbitraria, potendo essere
questi risolti facendo riferimento a parametri variabili e potenzialmen-
te diversi, e quindi illegittima ai sensi dell’art. 3 Cost. Con la stessa
ordinanza si faceva poi notare come l’esclusione del diritto di sciopero
per intere categorie di lavoratori importasse gravi conseguenze in re-
lazione alla libertà sindacale, deducendo quindi una violazione
dell’art. 39 Cost.. Precedentemente, nel 1966
12
, anche il giudice istrut-
tore di Roma aveva sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 330 c.p. ritenendo che questa non fosse preclusa dalla senten-
za 123/1962 in primo luogo perché anche in questo caso si deduceva
la violazione dell’art. 39 Cost. e in secondo luogo si riteneva che la ci-
tata sentenza non avesse pienamente risolto il problema, essendosi so-
lamente limitata ad affermare l’applicabilità dell’art. 51 c.p.. Qualcuno
poi sosteneva l’idea dell’abrogazione, ancorché non espressa, da parte
11
In G.U., 10 agosto 1968, n. 23.
12
In G.U., 24 giugno 1967, n. 157.
6
della Costituzione repubblicana dell’art. 330, ritenuto ispirato in toto
all’ordinamento corporativo fascista e quindi contrastante con
l’ordinamento vigente.
Si contestava inoltre la tesi per cui limitazioni alla titolarità del di-
ritto di sciopero fossero legittime ex art. 98 Cost., facendo notare che
con tale norma si prevedeva la possibilità per il Legislatore di preve-
dere il divieto all’iscrizione a partiti politici per determinate categorie
di pubblici funzionari e che questo non cita assolutamente i sindacati
accanto ai partiti.
In una memoria di costituzione si faceva poi notare come gli im-
putati, nella fattispecie dei Vigili urbani, si erano impegnati, in con-
formità alle direttive delle loro organizzazioni sindacali a espletare le
funzioni da ritenersi essenziali, portando ad esempio le funzioni di po-
lizia giudiziaria o di pubblica sicurezza relative ad eventuali incidenti
stradali.
Le numerose cause furono riunite e risolte con la sentenza
31/1969. A proposito della tesi dell’avvenuta abrogazione dell’art. 330
ad opera della Costituzione la Corte rispose che questa norma aveva
ancora ragione di esistere nell’ambito del nostro ordinamento demo-
cratico, per il caso di abbandoni arbitrari del posto di lavoro che non
hanno finalità rivendicative, pur se appariva eccessiva la sanzione da
essa comminata; argomentò inoltre sottolineando che una norma mol-
to simile esisteva nell’art. 181 del Codice penale Zanardelli, che era di
chiara ispirazione liberale
13
. Alla tesi per cui si sarebbe violato l’art. 3
13
NEPPI MODONA risponde con nella nota alla sentenza in esame, Sciopero nei pubblici servizi,
ordinamento corporativo e politica costituzionale, pubblicata in Giur. Cost. 1969, pagg. 412 e
segg. che l’art. 181 del codice Zanardelli era nato per scopi e finalità del tutto estranee alla repres-
sione degli scioperi nei pubblici servizi o nel pubblico impiego, dimostrandolo dalla formulazione
letterale della norma (“i pubblici ufficiali che in numero di tre o più, e previo concerto, abbando-
nano indebitamente il proprio ufficio” ) e con la mancanza di qualsiasi accenno a tale utilizzazione
della disposizione nei lavori preparatori e soprattutto con argomentazioni di carattere storico, con
cui si faceva notare come la norma in questione avesse trovato applicazione nel periodo fascista,
durante il quale la giurisprudenza abrogò praticamente l’inciso “previo concerto”, ravvisando
7
Cost. prevedendo con legge limitazioni soggettive alla titolarità del di-
ritto di sciopero la Corte rispose agevolmente replicando che il diritto
di eguaglianza può farsi efficacemente valere se sussiste parità di si-
tuazioni, parità che non esiste quando i lavoratori sono preposti a
compiti indirizzati alla tutela di diritti pari ordinati a quello
all’autotutela della categoria o, sempre i lavoratori, hanno il compito
di tutelare le esigenze necessarie ad assicurare la vita della comunità e
dello Stato
14
.
Nell’ultimo punto della motivazione la Corte si assume il compito
della determinazione dei criteri generali per determinare l’esercizio
del diritto di sciopero, delegando al giudice di merito il compito di
applicare tali criteri ai casi concreti, contestando quindi la citata tesi
sulla riserva di giurisdizione del pretore di Roma
15
. Quindi nel dispo-
sitivo la Corte “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 330,
primo e secondo comma, c.p., limitatamente all’applicabilità allo
sciopero economico che non comprometta funzioni o servizi pubblici
essenziali
16
, aventi carattere di preminente interesse generale ai sensi
della Costituzione.
quest’elemento addirittura in un presunto accordo tacito. Tale norma fu soprattutto usata per puni-
re gli scioperi dei ferrovieri, ritenuti, secondo l’Autore citato arbitrariamente, pubblici ufficiali. Lo
stesso Autore poi, al contrario della Corte, argomenta la sua opinione anche in base alla enorme
differenza di pena tra le due fattispecie.
14
ZACCARIA, Illegittimità dell’art. 330 c.p.: un’altra sentenza difficile della Corte Costituzionale,
sempre in Giur. cost., 1969, pag. 438, critica quest’assunto ma non sembra giungere ad alcuna
conclusione limitandosi a dire che la Corte avrebbe potuto effettuare un’indagine per dare, a pro-
posito dell’art. 3 una soluzione più concreta.
15
Anche qui interviene NEPPI MODONA, che parlando di conseguenze negative sulla serenità
dell’attività giudiziaria e sulla garanzia della certezza del diritto, fa notare le tensioni sociali che si
stavano vivendo in quel periodo.
16
RUSCIANO rilevò una certa confusione riguardo questo concetto: esistevano nel nostro ordina-
mento, sino all’approvazione della legge 146/1990 diverse nozioni di servizio essenziale, che
l’Autore ritiene create “a fini diversi e tra loro malamente coordinate”. Era poi molto criticabile la
nozione di servizio essenziale da attribuire alla Consulta che determinava, sempre ad avviso di
quest’Autore, “un indebito effetto di vischiosità nello sviluppo del sistema giuridico”. Non tutte le
esigenze di una società ormai industrializzata potevano essere ricondotte ai valori costituzionali,
come sembrava pretendere la Corte costituzionale: RUSCIANO notava che anche servizi a prima
vista non essenziali, come ad esempio quelli di intermediazione finanziaria o di approvvigiona-
mento di autoveicoli in caso di conflitti molto duri potevano creare grandi disagi per i cittadini. In
Lo sciopero nei servizi essenziali, in Giornale dir. lav. rel. ind., 1988, pag. 392.
8
Queste due sentenze, una interpretativa di rigetto e l’altra inter-
pretativa di accoglimento, a distanza di sette anni l’una dall’altra ave-
vano, almeno ad avviso della dottrina di allora, un contenuto sostan-
zialmente identico; si nota infatti facilmente come la raccomandazione
dell’applicazione dell’art. 51 c.p. e la parziale declaratoria
d’incostituzionalità conducano allo stesso risultato, senza assoluta-
mente soddisfare le richieste fatte dai giudici a quibus, che chiedevano
appunto una declaratoria d’incostituzionalità dell’intera norma. Era
anche criticabile l’atteggiamento tenuto dalla Corte che secondo il
NEPPI MODONA si era limitata a scrivere una sentenza di pura tecnica
giuridica, senza farsi carico delle conseguenze sociali che ne sarebbe-
ro derivate
17
. ZACCARIA
18
critica duramente il fatto che la Corte, dopo
aver stabilito che il diritto di sciopero andasse comunque limitato nel
caso in cui vi fosse stato pericolo per alcuni “valori fondamentali”,
quali ad esempio “l’integrità della vita e della personalità dei singoli”,
si sia bloccata senza fornire qualche precisazione in grado di dare a ta-
le principio una maggiore concretezza. Sostiene in altre parole che è
discutibile aver fatto, come ha fatto la Corte, delle distinzioni
all’interno della riserva stabilita dall’art. 40 Cost., prevedendo una zo-
na “meno” e una zona “più” riservata, dire quindi che alcuni limiti al
diritto possono essere anche previsti dall’interprete, mentre altri devo-
no essere necessariamente previsti dal Legislatore, senza fornire alcun
parametro di riferimento al riguardo. E l’Autore paventava che,
nell’attesa dell’intervento della legge, il diritto di sciopero nell’ambito
di servizi che realizzano i diritti che la Corte aveva ritenuto di prima-
17
Ma è molto probabile che la sentenza in esame sia stata scritta da giudici influenzati dalla nota
del CRISAFULLI sopra citata, in cui l’autorevole Autore sosteneva appunto che il giudice costitu-
zionale avrebbe fatto meglio a dichiarare l’illegittimità parziale dell’art. 330.
18
In op. cit., pagg. 439-441.
9
ria importanza potesse essere sostanzialmente soppresso
19
. La senten-
za del 1969 ha quindi dato un’interpretazione più restrittiva del diritto
di sciopero di quella che si era avuta con la sent. 123/62.
Resta fermo comunque il principio desumibile da questa sentenza:
“l’esercizio del diritto di sciopero è garantito anche se implichi la in-
terruzione di servizi pubblici, eccetto che non si tratti di servizi il cui
funzionamento sia da considerarsi essenziale, e cioè indispensabile al-
la collettività”
20
.
Una differenza tra le due sentenze può però essere scovata: nella
123 del 1962 infatti la Corte ammise la possibilità che nel nostro ordi-
namento potessero essere previsti limiti alla titolarità del diritto di
sciopero
21
. Infatti la Consulta ritenne che per quanto riguardava i ser-
vizi del genere in discussione
22
, un’eventuale interruzione degli stessi
non avrebbe potuto ledere o porre in pericolo interessi garantiti da
norme costituzionali, e quindi essere addetti a tale settore non avrebbe
comportato la perdita “dell’esercizio del potere garantito dall’art. 40
Cost.”. Invece, dal dispositivo della sentenza n. 31 del 1969, sopra ci-
tato tra virgolette, si desume che i giudici costituzionali avevano stabi-
lito che l’art. 330 c.p. fosse incostituzionale se applicato a scioperanti
che non avessero messo in pericolo servizi e funzioni essenziali con
carattere prioritario rispetto al diritto di sciopero ai sensi della Costitu-
zione.
Con la seconda sentenza quindi il discrimine non andava più cer-
cato nella titolarità del diritto, ma doveva essere scorto caso per caso,
basandosi sull’essenzialità o meno del servizio che era stato interrotto.
19
Lo stesso discorso poteva valere anche nel caso in cui la Corte avesse concluso in senso oppo-
sto, riconoscendo in mancanza di una legge una situazione obiettiva di maggior libertà
20
Per essenziale va intesa qualsiasi erogazione di servizi, volta a fronteggiare bisogni della collet-
tività indispensabili al normale funzionamento della convivenza: vale a dire bisogni che non pos-
sono essere soddisfatti altrimenti dalla media dei cittadini, RUSCIANO, op. cit., pag. 393.
21
Ma tali limitazioni avrebbero dovuto essere imposte al fine di salvaguardare altri interessi gene-
rali che trovassero diretta tutela in norme costituzionali.
22
Gli scioperanti erano lavoratori addetti ad un’azienda tramviaria.
10
E l’art. 330 continuò a salvarsi anche otto anni dopo, quando la
sentenza n. 222 del 1976 decise la questione di legittimità costituzio-
nale sollevata dal pretore di Tivoli con un’ordinanza emessa alla fine
del 1972. Si deduceva l’illegittimità costituzionale della norma dal
contrasto con gli artt. 3, 39 e 40 Cost., derivante questa volta dal fatto
che il personale degli istituti psichiatrici, a causa della necessarie in-
terdipendenze, connessioni e relazioni tra i vari servizi forniti in tale
tipo di istituti, dalle quali quindi derivava una loro essenzialità globa-
le, non avesse assolutamente, secondo il giudice a quo, il diritto di
scioperare. La Corte dichiarò la questione non fondata, sostenendo che
in ogni caso è sempre possibile individuare i servizi che devono ne-
cessariamente conservare efficienza per l’appagamento delle esigenze
della collettività o, nel caso concreto, di una ristretta comunità sociale
i cui individui sono legati dalla identità di interessi. E proprio nel caso
preso in esame dal pretore di Tivoli la Corte fa notare che esisteva una
norma, nell’art. 2, 4° comma, della legge 18 marzo 1968, n. 431, che
stabiliva con precisione le prestazioni indispensabili che andavano as-
sicurate in ogni caso, norme quindi che potevano fornire parametri va-
lidi ai soggetti interessati e all’interprete.
Inoltre si considerava che il diritto di sciopero va limitato nel
momento in cui sono richiesti alla persona l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, come prevede
l’art. 2 Cost. e in base al solito criterio della differenza delle situazioni
si giustificava il tutto dal punto di vista dell’art. 3, senza però andare
oltre e continuando quindi la Corte a tenere quell’atteggiamento che
era stato criticato da Zaccaria ai tempi della sentenza n. 31.
È comunque da rilevare che ai fini della definizione di servizio
essenziale non ci si deve avvalere della tradizionale distinzione giuri-
dico-formale tra settore pubblico e settore privato. È dato comune che
11
non tutti i servizi pubblici sono essenziali e non tutti i servizi essenzia-
li sono pubblici
23
.
La giurisprudenza di cui si è appena scritto, in particolare per
quanto riguarda le prime due sentenze, può sembrare “retrograda a chi
la legge in questi giorni: la Corte costituzionale, e più di lei la magi-
stratura ordinaria, furono molto lente e prudenti nell’eliminare
dall’ordinamento le norme fasciste che criminalizzavano lo sciopero,
“con buona pace dei padri costituenti”
24
. Ma la lettura di queste sen-
tenze va fatta tenendo presenti i tempi in cui la Corte e la magistratura
operavano e la cultura giuridica nella quale si trovavano ad operare,
nella quale lo sciopero era considerato un fattore destabilizzante, la
contrattazione collettiva era ritenuta un attentato alla libertà d’impresa
e alla libertà del mercato e l’organizzazione sindacale “una bomba in-
cendiaria piazzata nel sottoscala della Repubblica”. Era quindi da lo-
dare, ad avviso dell’autore citato, la liberalizzazione del diritto di
sciopero operata dalla Consulta.
25
23
Ad avviso di ROMAGNOLI comunque la distinzione rileva “sia perché le differenze di regime
giuridico dei rapporti di lavoro e dell’azione datoriale richiedono tecniche diverse di regolamenta-
zione del conflitto; sia perché tra imprese e pubbliche amministrazioni esistono sempre differenze
strutturali”, dalle quali derivano comportamenti datoriali differenti. Op. cit. pag. 397.
24
ROMAGNOLI, Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, in
Commentario alla Costituzione, art. 40, supplemento legge 12 giugno 1990 n. 146, Zanichelli,
Bologna, 1994, pag. 3.
25
Quindi, “nell’ambito dei servizi di cui sia riconosciuta in sede giudiziale l’essenzialità, in caso di
sciopero deve essere assicurata la continuità di quella parte dei medesimi che sia da considerarsi,
sulla base di parametri precostituiti, assolutamente indispensabile. Ove tale garanzia non sussista o
sia disapplicata, lo sciopero è perseguibile come un delitto e gli scioperanti devono essere puniti
con la reclusione. ROMAGNOLI, op. cit., pag. 4.
12
1.2 L’AUTOREGOLAMENTAZIONE
Fino al 1990, a regolare il delicato settore abbiamo, oltre alle tre
sentenze di cui si è parlato nel precedente paragrafo, un’altra forma di
disciplina, che creò allora non pochi problemi, nella pratica e nella te-
oria, nonostante all’inizio si sperò fosse una buona soluzione: parlia-
mo dell’autoregolamentazione, alla base della quale secondo alcuna
dottrina vi era un motivo culturale, ossia la centralità dei lavoratori nel
nostro assetto costituzionale dalla quale nasce un loro senso di respon-
sabilità nella conduzione del conflitto che avrebbe fatto apparire inuti-
le e “oltraggiosa” una regolamentazione eteronoma della lotta. E vi
era anche un, forse più pragmatico, motivo politico-sindacale, che te-
neva conto dell’effetto boomerang che avrebbe prodotto uno sciopero
senza regole, effetto che consisteva almeno nel rischio di isolamento
che avrebbero corso i lavoratori in lotta che facevano mancare i servi-
zi agli altri cittadini, lavoratori come loro
26
.
Con essa sono direttamente le associazioni sindacali a regolare,
unilateralmente, il modo in cui si dovrà svolgere il futuro conflitto con
l’adozione di codici di comportamento
27
le cui norme i loro associati
erano tenuti ad osservare in caso di agitazioni, sotto la minaccia di
sanzioni.
La dottrina distingueva tra due tipi di autoregolamentazione
28
:
quella in senso stretto o unilaterale, cioè proveniente dalla stessa or-
ganizzazione che deve applicare i codici, e quella bilaterale. Il primo
tipo si riteneva di abbastanza facile identificazione in quanto, “pur in-
carnandosi in modelli storici e sub-settoriali alquanto articolati e fra
26
Detto ciò, RUSCIANO concepisce l’autoregolamentazione come un patto di civiltà tra sindacati
confederali e cittadini.
27
Che ROMAGNOLI ribattezza ironicamente “i breviari del buon scioperante”, in Diritto di sciope-
ro, autodisciplina e sindacalismo autonomo, in Giornale dir. lav. e rel. ind., 1979, pag. 257.
28
CARINCI, Autoregolamentazione del diritto di sciopero, in Riv. it. dir. lav., 1987, I, pag. 166.
13
loro non uniformi, conserva nondimeno una sostanziale omogeneità in
relazione alla natura ed alla sua efficacia giuridica”, mentre con il se-
condo faceva riferimento ad “una fenomenologia normativa quanto
mai frammentaria e disaggregata”
29
ricomprendendo l’esperienza delle
clausole di tregua o di pace sindacale e le varie forme di procedimen-
talizzazione del conflitto collettivo.
E già sul punto iniziarono a sorgere i problemi: l’art. 40 Cost.
sembra prevedere chiaramente una riserva di legge, quindi l’atto dello
Stato con il più forte valore normativo. Ma qui la disciplina non è pre-
vista neanche da un regolamento, bensì da un atto di autonomia nego-
ziale. La dottrina reagì, cercando qualche appiglio per risolvere la que-
stione: qualcuno parlò dell’art. 40 come un invito, o una semplice
clausola a legiferare accoglibile come tale da parte di qualsiasi fonte
30
.
Altri sostennero che la preferenza per la legge dell’art. 40 andava
intesa in un altro senso, cioè solamente come impegnativa del Legisla-
tore ad assicurare in ogni caso un ambito di esercizio del diritto di
sciopero. In altre parole l’art. 40 avrebbe dovuto essere attuato nel ca-
so in cui le parti si fossero trovate in una condizione di disparità e si
fosse manifestata la necessità di creare delle regole che ristabilissero
l’equilibrio tra di loro. Sempre per lo stesso autorevole Autore andava
invece intesa come una riserva in senso tecnico qualora si fosse dovu-
to in qualche modo limitare la titolarità del diritto
31
.
29
PASCUCCI, La regolamentazione autonoma del diritto di sciopero nella dottrina italiana, in Riv
dir. e proc. civ., 1989, pag. 185, in cui si riporta la relazione tenuta dall’Autore durante il semina-
rio “Letture di diritto sindacale 1989 – Le basi teoriche del diritto sindacale”, tenuto a Napoli il 17
maggio 1989 e organizzato dalla Scuola di specializzazione in diritto del lavoro e relazioni indu-
striale dell’Università di Napoli.
30
DELL’OLIO, Lo sciopero e la norma (Riflessioni sui servizi pubblici essenziali), in Dir. lav.,
1988, I, pag. 18.
31
D’ANTONA, La legge sullo sciopero dei servizi pubblici essenziali e le tendenze del diritto sin-
dacale, in Riv. giur. lav. , 1989, I, pag. 11.
14
Altri
32
ancora ritenevano la riserva relativa, e indiscutibilmente
non assoluta, argomentando in base all’osservazione che molto spesso
la Costituzione affida a soggetti diversi dal Parlamento funzioni a tute-
la degli interessi dei lavoratori e sostenendo che alla legge fossero ri-
messi solamente i principi informatori della materia e che l’attuazione
di questi andasse delegata, con tutte le garanzie necessarie, a fonti più
vicine “agli interessi dei lavoratori e alle esigenze organizzative di va-
ri servizi”.
Ma la tesi più intrigante fu quella per cui la riserva di legge elimi-
na la possibilità che lo stato disciplini la materia con altri atti, ma non
impedisce che fonti di autonomia negoziale, quindi atti di privati, di-
sciplinino efficacemente la materia. Atti di questo tipo avrebbero avu-
to valenza di negozi giuridici per l’ordinamento statale, e di “legge”
per l’ordinamento sindacale
33
. Ma “il fatto che l’art. 40 faccia riferi-
mento a limiti di legge non esclude evidentemente la possibilità di
porre, con efficacia diversa, limiti di autonomia collettiva”
34
, senza
però eliminare del tutto il diritto. Questa dottrina conclude quindi qua-
lificando come inconsistente la tesi dell’illegittimità ex art. 40 Cost. di
una disciplina autonoma. Anche Francesco SANTORO PASSARELLI si
pose su questa stessa linea di pensiero, dicendo che “la riserva non e-
sclude che siano le stesse parti interessate a regolare lo sciopero,
s’intende con effetto nei loro rapporti interni”
35
.
32
RUSCIANO, Lo sciopero nei servizi essenziali, cit., pag. 414.
33
GIUGNI, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano, 1960.
34
GIUGNI, L’autoregolamentazione dello sciopero, in La disciplina del diritto di sciopero, Roma,
1976, pag. 23.
35
F. SANTORO PASSARELLI, La disciplina dello sciopero prevista dalla Costituzione, in La disci-
plina del diritto di sciopero, Roma, 1976, pag. 44. Lo stesso autorevole Autore, in un altro scritto
osservava comunque che “la previsione di una disciplina legale non comporti l’esclusione di una
disciplina collettiva, salvi i limiti stabiliti da una legge imperativa, se ed in quanto tale legge inter-
venga”. Ma PASCUCCI, in op. cit., ha fatto notare che quando questi scriveva del rapporto tra legge
e autoregolamentazione, l’una forma di disciplina escludeva l’altra, mentre negli anni ’80 aveva
trovato sostenitori l’ipotesi di combinare queste due forme. F. SANTORO PASSARELLI, Pax, pac-
tum, pacta servanda sunt (A proposito delle cosiddette clausole di tregua sindacale), in Mass.
giur. lav., 1971, pag. 375.
15
Ma c’erano voci di dissenso, per le quali queste forme di autore-
golamentazione potevano rappresentare un grave e concreto pericolo
per il diritto di sciopero, che potevano comprimere in virtù della loro
deterrenza politico-sociale
36
. Non si criticava quindi l’istituto sotto il
profilo giuridico-formale, ma gli si muovevano dei rilievi di ordine
politico.
Tornando al problema in generale, diciamo subito che
l’autodisciplina inizia ad affacciarsi quando la Corte costituzionale,
con le sentenze di cui sopra ed in particolare con la 31/1969, sembrò
escludere, ad avviso di ROMAGNOLI, che gli addetti ai servizi pubblici
essenziali fossero titolari del diritto di sciopero, ritenendo comunque
che soltanto il Parlamento potesse “fissare le modalità di esercizio in
una misura tale da assicurare almeno un minimo di prestazioni”
37
.
Dalla pronuncia della Corte questo Autore concluse che tali forme di
autoregolamentazione non avessero alcuna rilevanza, provenendo da
soggetti che non sono nemmeno titolari del diritto di cui vogliono re-
golamentare l’esercizio da parte loro.
Parte della dottrina non era d’accordo: GIUGNI
38
sostenne che “la
salvaguardia dei beni essenziali non presuppone necessariamente una
discriminazione di titolarità, ma piuttosto una valutazione caso per ca-
so della congruità dei modi di esercizio dello sciopero” e che solo i
soggetti in un particolare status subiectionis possono essere discrimi-
nati.
36
Relazione finale della Commissione interministeriale di studio sulla disciplina del diritto di scio-
pero nei servizi pubblici essenziali, in Rass. sind., 1982, I, n. 4, pag. 39. Commissione presieduta
da Guido ZANGARI.
37
Op. cit..
38
Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, cit..