8
RIASSUNTO
In Sardegna lo stato sanitario del germoplasma di carciofo “Spinoso sardo” è
ormai da parecchi anni compromesso da infezioni virali indotte da diversi
virus, quali principalmente TSWV (tomato spotted wilt virus), ArLV
(Artichoke latent virus) e AILV (Artichoke Italian latent virus) che
compromettono dal punto di vista qualitativo e produttivo le carciofaie
isolane. Non essendoci allo stato attuale nessuna strategia di lotta contro tali
gli agenti infettivi, l’unica “arma” a favore degli agricoltori rimane quella della
difesa chimica preventiva contro i principali vettori di tali virus.
Una soluzione auspicabile potrebbe essere rappresentata dall’impiego di
materiale risanato che andrebbe a costituire i nuovi impianti: a tal proposito
la micropropagazione del carciofo “Spinoso sardo” si inserisce in questo
contesto, riuscendo ad offrire una validissima alternativa alla lotta chimica
preventiva e, attraverso la coltura in vitro di apici meristematici, ottenere
germoplasma virus esente da utilizzare per l’impianto di nuove carciofaie.
Da diversi anni l’Agenzia Regionale AGRIS Sardegna, in collaborazione con
l’Agenzia LAORE, ha avviato diversi programmi di rinnovamento del
germoplasma, mediante l’immissione e la cessione gratuita di materiale
vegetale di cloni di carciofo, “Spinoso sardo” micropropagato, selezionato e
risanato; attraverso i suoi laboratori e le sue aziende sperimentali ha quindi
dato vita ad una massiva ed ampia diffusione nelle diverse zona cinaricole
regionali.
La presente tesi sperimentale si pone come obiettivo principale l’ottenimento
di materiale vegetale risanato dal virus Tomato spotted wilt virus (TSWV),
attraverso la coltura in vitro di apici meristematici di dimensioni inferiori a
0,5 mm, condizione inderogabile ed essenziale per l’ottenimento di
percentuali di risanamento accettabili.
9
1 CAPITOLO – Introduzione
1.1 Definizione della coltura in vitro
Per coltura in vitro si intende l’applicazione biotecnologica in cui cellule,
tessuti e organi sono coltivati in un ambiente sterile ed artificiale ed in
condizioni chimico-fisiche controllate (1). Più specificamente in ambito
vegetale, si intendono tutte quelle tecniche utilizzate in laboratorio per
mantenere tessuti e organi vegetali in coltura sterile, intendendo tali attività
come integrative e non alternative alle tecniche tradizionali di
moltiplicazione agamica e clonale.
Lo sviluppo della biologia molecolare di questi ultimi decenni è stato
possibile grazie all’acquisizione delle conoscenze sugli organismi più
semplici, come batteri virus e lieviti. È stato poi necessario e indispensabile
verificare negli organismi superiori sia l’universalità di tali conoscenze, sia
l’esistenza di nuovi meccanismi biologici, propri solo degli eucarioti
superiori.
La coltura di cellule e tessuti di piante (e di tutte le tecniche che ne derivano)
trova il suo fondamento nella teoria della “totipotenza cellulare” (1). In tutte
le piante vascolari l’embrione si evolve in una struttura allungata bipolare,
per via della presenza di due meristemi apicali, quello caulinare (fusto) e
quello radicale. Durante il ciclo vitale della pianta questi meristemi
producono continuamente nuovi organi, come fogli, fusti o radici che vanno
ad aggiungersi a quelli prodotti durante l’embriogenesi. Grazie al
meccanismo di crescita illimitata le piante vascolari sono state definite
organismi ad embriogenesi ricorrente o ontogenesi ricorrente. A causa di
questa ontogenesi ricorrente, nelle piante, a differenza di quello che accade
negli organismi animali, non si assiste alla separazione della linea somatica e
della linea germinale; infatti solo ad un dato momento dello sviluppo, gli apici
vegetativi si trasformeranno in apici riproduttivi, cioè in strutture atte alla
riproduzione. Per questo principio importantissimo, ogni cellula somatica,
nelle piante vascolari, può considerarsi potenzialmente un progenitore di un
nuovo individuo.
10
1.1.1 Cenni storici della coltura in vitro e stato dell’arte
I padri e pionieri della coltura in vitro furono gli scienziati M. J. Schleiden e T.
Schuann nel 1838, che con la loro “teoria cellulare” (1), identificarono nella
cellula, l’unità presente in tutti gli esseri viventi, sia vegetali e sia animali. Gli
albori della tecnica delle colture in vitro, nei vegetali, ebbe inizio nei primi
anni del 1900, con la pubblicazione di “Experiments on the culture of isolated
plant cells” (1902) ad opera di Gottlieb Haberlandt il quale, basandosi sul
concetto di totipotenza, riprese e ampliò la teoria cellulare formulata da
Schwann e Schleiden 60 anni prima, riuscendo a mantenere in vita numerosi
tipi di tessuti vegetali per diversi giorni, senza ottenere divisione cellulare. In
particolare egli prese come materiale di partenza cellule del tessuto a
palizzata di Laminum purpureum e di Eichoria crassipes, l’epidermide di
Ornithogalum (Liliacee) e peli epidermici Pulmonaria mollissima
(Boraginacee), facendoli crescere in una soluzione di Sali di Knop e
saccarosio, annotando le seguenti osservazioni: una crescita di cellule con
parete sottile e maggior volume, la comparsa di amido nei cloroplasti,
nessuna divisione cellulare. Solo molti anni dopo White nel 1934, coltivando
radici di pomodoro e utilizzando un terreno contenente sali, estratto di
lievito e saccarosio, osservò degli abbozzi di divisioni cellulari; egli scoprì che
l’estratto poteva essere sostituito da tre vitamine del gruppo B: tiamina,
piridossina e acido nicotinico, grazie a questa intuizione mantenne i suoi
estratti radicali in coltura per molti anni. Nel 1935 Gautheret in Francia e
White negli USA nel 1938, riuscirono ad ottenere la divisione di cellule isolate
da Salix e da tabacco e infine mantenere delle colture cellulari
indefinitamente. La ragione era l’utilizzo dell’acido indol-3-acetico (IAA), un
ormone regolatore di crescita, della famiglia delle auxine, che permetteva la
crescita di un tessuto indifferenziato sulle superfici di taglio sterilizzate,
questo tessuto fu definito “callo”. Tale tessuto era in apparenza identico a
quello generato inizialmente per mitosi, sulle superfici di taglio.
Successivamente fu provato che il callo poteva essere propagato (secondo
particolari condizioni), in modo indefinito. Sulla superficie di taglio quindi, le
cellule inizialmente si dividono attivamente e in modo sincrono; dopo 4-6
settimane di continue divisioni cellulari, l’espianto produce all’incirca il
11
doppio in peso di tessuto calloso, rispetto a quello originario. Il tessuto
calloso da questo momento può essere rigenerato in una nuova coltura. Il
processo di crescita del callo può essere certamente considerato un processo
di de-differenziamento, come è stato dimostrato dalle variazioni nella
morfologia e nel metabolismo cellulare. È perciò possibile, variando le
condizioni di coltura, indurre il ri-differenziamento del callo in tessuti
specializzati, fino a riprodurre l’intera pianta.
Nel 1951 F. Skoog e Tsui dimostrarono che l’aggiunta di adenina e di alti
livelli di fosfato in colture di tabacco, inducevano la crescita del callo e la
formazione di gemme; questa intuizione culminò nel 1957, quando Skoog e
Miller dimostrarono che la 6 furfurilamminopurina, una citochinina isolata
da DNA idrolizzato, poteva indurre il differenziamento in cauli, dei calli
indifferenziati; inoltre il rapporto citochinina/auxina era in grado di
differenziare diversi programmi morfologici da cellule di callo: un rapporto
superiore a 1 induceva la formazione di fusti, un rapporto inferiore a uno
induceva la formazione di radici. Nel 1958 la totipotenza cellulare fu
dimostrata da Steward il cui gruppo di ricerca fu il primo a trasformare delle
linee cellulari di carota in embrioni, che più tardi furono detti embrioni
somatici. Tornando indietro nel tempo, nell’anno 1949, vennero poste invece
le basi del risanamento in vitro, partendo da materiale vegetale infetto da
virosi. In base a tal proposito, lo scienziato Ball osservò in vari esperimenti
che il meristema apicale di una pianta infettata da un virus (cioè la piccola
massa di cellule indifferenziate, con una dimensione inferiore al decimo di
millimetro, situata all'estremità dello stelo o del fusto, che cresce
costantemente ed origina gli organi della pianta) era, quasi indenne. Questa
scoperta rivoluzionò il mercato delle piante ornamentali, in particolare
dell’orchidea, visto che si poté effettuare il risanamento ma allo stesso tempo
ottenere milioni di piante.
Nei decenni successivi l’uso delle colture di cellule, protoplasti e tessuti e
delle tecniche di ricombinazione genetica, ha permesso di creare nuove
varietà utilizzando i meccanismi molecolari e cellulari che sono alla base
della diversità biologica. Sul piano metodologico si tratta di una scorciatoia
considerevole e nello stesso tempo di una grande scommessa. Essa offre
12
anche la possibilità di accrescere la variabilità genetica che è seriamente
diminuita in seguito alla distruzione dell’habitat delle specie selvatiche e che
rende alcune specie e varietà coltivate molto vulnerabili agli agenti patogeni
ed ai parassiti. A fianco dei centri di conservazione del germoplasma, le
colture di cellule e di tessuti ed il controllo di milioni di linee cellulari
saranno sempre più dei fattori essenziali della variabilità e della diversità
genetica.
Da oltre 60 anni in Italia la micropropagazione è considerata una tecnica di
propagazione vegetativa innovativa (2), da affiancare alle tradizionali
tecniche di propagazione agamica
; ciò ha reso possibile che il nostro paese sia tra i maggiori produttori di
piante propagate in vitro (2). Negli anni 2000 e in particolare nel 2006 è stato
condotto un censimento in Italia, al fine di quantificare le piante prodotte con
questa tecnica. Da questo censimento è stata stimata una produzione di 25
mln di piante propagate con la tecnica della micropropagazione. Di questi 25
mln risultava che oltre il 60% della produzione era relativa al comparto
frutticolo (2). Di recente molti laboratori (commerciali privati e/o di
istituzioni pubbliche), hanno sviluppato la micropropagazione di un’ampia
gamma di specie da frutto e ornamentali (2); inoltre altri laboratori hanno
proposto nuove realtà produttive quali quelle del carciofo (AGRIS per lo
“Spinoso sardo” e il Violetto di Provenza). Questo ha dato e sta dando un
notevole impulso allo sviluppo della coltura in vitro, riflettendosi nel numero
maggiore di capitali (privati e pubblici) investiti nel settore, arrivando cosi ad
una maggiore diversificazione dell’offerta e alla produzione di un prodotto
avente standard qualitativi elevatissimi.
1.2 Cenni storici, botanica e coltivazione del carciofo
Il carciofo è una pianta diploide a 34 cromosomi (2n=2x=34), allogama a
causa di una spiccata proterandria. La specie presenta un’elevata eterozigosi
che caratterizza le cultivar attualmente coltivate (popolazioni costituite da
mescolanze di cloni) e che si manifesta nelle discendenze propagate per seme
con una grande variabilità morfologica e fisiologica (3).
13
Il carciofo, il cui nome botanico è Cynara scolymus L., appartiene alla famiglia
delle Composite ed è una pianta poliennale, coltivata prevalentemente nel
bacino del Mediterraneo. Deriva dalla pianta araba denominata “Kharsuf” che
significa cardo commestibile e notizie del suo consumo alimentare si fanno
risalire agli antichi egizi; cenni storici del suo utilizzo sono rintracciabili in
epoca greca e romana. Già nel 300 a.C. Teostratto, nella sua “Storia delle
piante”, descriveva le caratteristiche e le virtù del carciofo nell’isola di
Trinacria, mentre Plinio “il vecchio” (I° secolo d.C.) ne documenta il suo uso
nella cucina romana, nel suo scritto “Naturale historia” (3). Il massimo
esperto dell’epoca, il celebre Apicio, parla in particolare dei cuori di carciofo
nel “Dere conquista”, il trattato considerato come codice alimentare
dell’antica Roma (3). Notizie più certe della sua coltivazione risalgono al XV°
secolo, quando venne introdotta da Filippo Strozzi nella zona di Napoli, per
poi diffondersi in toscana e altre regioni d’Italia. La stessa Caterina de Medici
fu una grande consumatrice (3).
La coltivazione del carciofo in Sardegna e in particolare della tipologia
“Spinoso sardo”, è di antica tradizione, anche se non si hanno notizie certe
sulla sua introduzione e successiva diffusione nell’isola. A tal proposito, vi è
una testimonianza scritta della sua presenza nel trattato “Agricoltura di
Sardegna” (1780), del nobile sassarese Andrea Manca dell’Arca che
testualmente riporta: “sono i carciofi e cardi grati allo stomaco, onde si
reputa il cardo una delle piante più utili dell’orto (3). In Sardegna è l’essere
pianta e il carciofo fiore e frutto che ella produce”. La coltivazione vera e
propria la si può comunque datare intorno al 1920 soprattutto nelle zone
costiere del sassarese e del cagliaritano, dove la presenza di porti favoriva i
collegamenti ed i commerci con la penisola. A titolo informativo, nella figura
1.1, vengono riportati i dati ISTAT del 1929, relativi alle superfici e alle
produzioni di carciofo nelle regioni italiane (3).