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Introduzione
La Reggia di Capodimonte, a Napoli, immersa nel verde della foresta, costituisce
è stata costruita tra il 1738 e il 1838 sull’omonima collina, che domina l’antico centro
storico, il Palazzo, con le collezioni d’arte esposte in ambienti monumentali, rappresenta
un punto di riferimento imprescindibile della Capitale Meridionale.
La sua storia è indissolubilmente legata al susseguirsi delle dinastie e della politica
napoletana, che vide i Borboni, il dominio francese di Gioacchino Murat, la
Restaurazione, il Regno d’Italia sotto i Savoia e, dal 1946, la Repubblica Italiana.
Oggi questo spazio è conosciuto come il Museo di Capodimonte e il fulcro delle
opere esposte è rappresentato proprio dalla collezione Farnese, una raccolta di opere
d’arte realizzata in epoca rinascimentale per volere di Alessandro Farnese (1468-1549),
papa con il nome di Paolo III, che, a partire dal 1543, iniziò a raccogliere e commissionare
opere d’arte ai più grandi artisti del tempo. Sviluppata tra Roma, Parma e Piacenza, gran
parte della collezione fu trasferita, per ragioni storiche, a Napoli nella prima metà del
XVIII secolo.
La Reggia di Capodimonte è stata, infatti, sin dalla sua fondazione, sede di
prestigiose collezioni e residenza principesca, ed è oggi tra i più ricchi musei italiani, per
l’importanza delle sue opere e lo splendore dei suoi Appartamenti di Stato.
Costruito su progetto dell’architetto e ingegnere militare Giovanni Antonio
Medrano, denominato “Major Regius Praefectus Mathematicis Regni Neapolitani”, con
la collaborazione dell’architetto romano Antonio Canevari, il vasto Palazzo costituisce il
culmine di centoventiquattro ettari di riserva di caccia.
Per il Palazzo, Medrano concepì un progetto monumentale a pianta rettangolare
(170 metri di lunghezza e 87 metri di lato minore), con due ali sporgenti e perpendicolari
e tre cortili centrali. Le imponenti facciate, alte più di trenta metri, intonacate e colorate
di un bel rosso ocra, sono scandite da un gigantesco ordine di fasci di lesene doriche in
piperno grigio, disposte su un alto basamento. Grandi sfere di pietra armonizzano il basso
attico che nasconde il tetto, alleggerendo il rigore dell’allineamento architettonico. Tre
ampie cisterne sotto i cortili permettevano l’approvvigionamento dell’acqua.
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Fin dall’inizio il solenne edificio fu concepito per ospitare la collezione d’arte che
Carlo di Borbone aveva ricevuto dalla madre, Elisabetta Farnese, ultima erede di una
nobile famiglia che poteva vantare un Papa, vari Cardinali e illustri condottieri.
La collezione annovera capolavori di Tiziano, Raffaello, Michelangelo,
Parmigianino, Carracci e importanti reperti archeologici rinvenuti nelle Terme di
Caracalla e in altri luoghi di Roma.
Accuratamente accresciuta nel corso del Seicento dai duchi di Parma, Ranuccio I
e Ranuccio II Farnese, la collezione principesca si arricchì di opere di scuola emiliana e
fiamminga. Salendo al trono di Napoli e di Sicilia nel 1734, Carlo decise di portare nella
sua nuova capitale tutto il patrimonio artistico, antico e moderno, con sculture, dipinti,
disegni, libri, bronzi, mobili, cammei, monete, medaglie e molti altri reperti archeologici,
raccolte nei secoli nel palazzo romano e nelle residenze ducali di Parma, Piacenza e
Colorno.
Con il suo ambizioso programma di opere pubbliche e di rappresentanza, il Re
volle dotare Napoli di un museo dinastico che rivaleggiasse con le collezioni italiane ed
europee, con Roma in particolare, dove furono aperti i Musei Capitolini nel 1734,
ponendo la capitale del nuovo regno al centro della scena politica e culturale
contemporanea.
Grazie al graduale arrivo della collezione tra il 1735 e il 1739, e la contemporanea
scoperta di Ercolano nel 1738, e di Pompei dieci anni dopo, Napoli si impone come meta
ambita del Grand Tour da artisti, intellettuali e cultori affascinati da lo svolgersi della
storia attraverso il quale si vedeva la terra promessa dell’arte.
Il trasporto della collezione, che avvenne non senza difficoltà data la grande
quantità di opere, fu aspramente criticato da studiosi emiliani e romani. Infatti Pio VI
Braschi, constatando l’impoverimento del patrimonio della capitale pontificia per la totale
rimozione dei reperti archeologici conservati nel maestoso palazzo nobiliare del rione
Regola, cercò invano di impedirne la partenza nel 1787.
Le opere d’arte annunciate da Parma, grossolanamente imballate e inventariate,
giunsero a Napoli tra il 1735 e il 1739 via mare da Genova, e furono portate al piano
nobile del Palazzo Reale. Il gran numero di casse ha rapidamente invaso le stanze, le scale
e l’androne dell’edificio.
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Negli anni immediatamente successivi, Carlo di Borbone decise di ripensare la
residenza collinare, allora adibita a casino di caccia, a museo, ampliando e ridefinendo il
progetto: i dipinti dovevano essere collocati nelle sale rivolte a sud, di fronte al mare, in
quanto più illuminate e più asciutte, mentre le stanze rivolte a nord, verso il bosco,
dovevano ospitare libri, medaglie e oggetti preziosi. I lavori iniziarono il 10 settembre
1738, ma sarebbero passati vent’anni prima che il progetto fosse completato, almeno in
parte.
Nel 1758 i dipinti della Collezione Farnese furono disposti in dodici sale del piano
nobile, in ordine di scuole e di artisti di spicco. Così furono visti dai viaggiatori che
visitarono Capodimonte nella seconda metà del Settecento, tra cui Jean-Honoré
Fragonard, il Marchese de Sade, Joseph Wright di Derby, Pierre-Henri de Valenciennes,
Angelika Kauffmann, Johann Wolfgang Goethe e Antonio Canova.
Succeduto al padre all’età di otto anni, dopo l’ascensione di quest’ultimo al trono
di Spagna nel 1759, Ferdinando, sotto l’illuminata supervisione di Bernardo Tanucci e
del Consiglio di Reggenza, promosse la ripresa dei lavori per consentire l’accesso tra gli
Appartamenti Reali e l’ala destinata al Museo.
Nel frattempo il Re accrebbe la collezione con tele provenienti dalla Guardaroba
(sala privata) di Palazzo Farnese e con l’acquisizione di dipinti di scuola napoletana e,
più in generale, meridionale, come alcune opere di Jusepe de Ribera, Polidoro da
Caravaggio e Luca Giordano. Nell’inventario stilato nel 1799, il Museo contava ben
1.783 opere, classificandosi come uno dei più importanti d’Europa.
Il dipinto del 1760 di Antonio Joli, Ferdinando IV a cavallo con la sua corte,
mostra il Palazzo in costruzione, con il personale di servizio che osserva dal piano nobile,
mentre il Re, ancora bambino, esce dall’edificio seguito da dignitari, cortigiani e guardie.
Sullo sfondo vediamo una bellissima veduta di Napoli e del golfo, racchiusi dal profilo
della Penisola Sorrentina e Capri.
Gli anni tumultuosi legati alla Repubblica Partenopea (1799-1800), alla partenza
di Ferdinando per Palermo e al successivo Regno di Napoli, governato da Giuseppe
Bonaparte (1806-1808) e Gioacchino Murat (1806-1815), mutarono la destinazione d’uso
di l’edificio, divenuto esclusivamente residenziale. Per facilitare l’accesso al Palazzo, i
nuovi signori crearono una strada che lo collegava con il cuore della città, Corso
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Napoleone, poi ribattezzato Corso Amedeo, e il Ponte della Sanità, oltre a risolvere
l’annoso problema dell’approvvigionamento idrico.
La regina Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie di Murat, decorò le
sale con mobili eleganti e preziosi ornamenti provenienti dalla Francia: si può citare, tra
i tanti esempi, l’eccezionale serie di sessanta sedie e due poltrone di tappezzeria in velluto
dipinte con vedute di Parigi, i bellissimi vasi della Manufacture de Sèvres con effigi
imperiali, il vaso in bronzo dorato contenente un orologio, realizzato dalla celebre bottega
di Bailly Fils, e i due busti in porcellana biscuit di Murat e Carolina Bonaparte, ispirati ai
modelli in gesso di Antonio Canova.
Di commissione francese sono anche i grandi ritratti ufficiali di Napoleone
Bonaparte e Gioacchino Murat, realizzati dal pittore di corte François Gérard, allievo di
Jacques-Louis David (Sala 54). Nel dipinto del 1805, che conserva la cornice originale,
il condottiero corso, incoronato da un alloro e vestito di un manto di velluto cremisi ed
ermellino, è raffigurato in piedi davanti al trono, con lo scettro e l’orbe imperiale.
La Pinacoteca Farnese, dopo le vicissitudini legate al saccheggio perpetrato
dall’esercito francese guidato dal generale Championnet, fu trasferita nel seicentesco
Palazzo degli Studi, dove, rispettando le idee già espresse dal monarca borbonico,
l’amministrazione francese decise di creare un centro culturale che riuniva in un unico
istituto le accademie, le belle arti, le raccolte archeologiche e le biblioteche. L’ambizioso
programma di un museo universale, simile a quanto si stava realizzando a Parigi con il
Louvre e a Londra con il British Museum, si realizzò dopo il ritorno a Napoli di
Ferdinando IV (Ferdinando I delle Due Sicilie), con la creazione nel 1815 del Real Museo
Borbonico. Con l’Unità d’Italia nel 1860, l’istituzione fu ribattezzata Museo Nazionale,
che mantenne fino al 1957.
Alle predette collezioni si aggiunge nel 1817 quella particolarmente eclettica del
cardinale Stefano Borgia, con opere d’arte orientale, occidentale, antica, medievale e
moderna. La collezione, il cui acquisto era già stato deciso da Gioacchino Murat e
ratificato da Ferdinando, è stata esposta nel Palazzo del dotto Porporato a Velletri,
secondo un criterio enciclopedico suddiviso in dieci classi di oggetti: Antichità egizie,
volsche, etrusche, greche e romane e manufatti orientali, arabi, europei, messicani e copti
e cristiani. La collezione è oggi divisa tra Capodimonte e il Museo Archeologico
Nazionale di Napoli.
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Perdendo il ruolo di museo e divenendo sede residenziale dei monarchi
napoletani, il Palazzo fu progressivamente completato dopo il ritorno dei Borboni da
Tommaso Giordano, sotto la direzione di Antonio Niccolini: nel 1823 lo scalone
esagonale dell’avancorpo rivolto a sud fu terminato, sviluppato su un preesistente
progetto di Ferdinando Sanfelice, cui seguì nel 1835 il completamento dell’ala
settentrionale attorno al terzo cortile e lo scalone monumentale sorretto da colonne
doriche, fortemente rastremate a ricordare quelle dei templi arcaici di Paestum.
Contemporaneamente, le sale principali degli Appartamenti Reali furono
interessate da interventi decorativi ideati da Niccolini: il Salone delle Feste,
originariamente destinato ad ospitare le opere della Collezione Farnese, fu dotato di due
gallerie per musici, sostenute da eleganti colonne ioniche e adornate da delicati dipinti di
ispirazione pompeiana, specchi e grandi lampadari di cristallo. Il pavimento è in marmo
rosso siciliano con piastrelle geometriche bianche.
All’antichità vesuviana fa riferimento anche la raffinata Alcova Pompeiana di
Francesco I e Maria Isabella di Borbone (Sala 23), realizzata tra il 1829 e il 1830 su
disegno del Niccolini, con tempere di Gennaro Maldarelli e Salvatore Giusti, e arazzi in
seta della Real Manifattura di San Leucio. Il pavimento è composto da antichi mosaici,
mentre i preziosi arredi moderni – un treppiede e un tavolo sormontato da una scacchiera,
sono realizzati in bronzo, pietre preziose, alabastro e legno mineralizzato.
Passata ai Savoia dopo il 1860, la Reggia di Capodimonte ospitò i nuovi sovrani
durante la loro visita a Napoli, ospitando inoltre la famiglia dei Duchi d’Aosta fino agli
anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Fu in questo periodo che
vide l’allestimento il Salone della Culla – così chiamato per la culla, oggi esposta alla
Reggia di Caserta, donata nel 1869 dal Comune di Napoli per la nascita di Vittorio
Emmanuele III – dove nel 1877 fu posato uno splendido mosaico antico proveniente dalla
Villa Jovis di Capri, e il Salone Camuccini. In questa vasta cornice dell’ala nord sono
esposte le grandi tele, con soggetti tratti dalla storia antica e dai racconti biblici, di Pietro
Benvenuti, Paolo Falciano, Francesco Hayez e Vincenzo Camuccini – da cui la sala
prende il nome – pittore de La Morte di Cesare e La morte di Virginia.
Insieme ai dipinti sono esposte alcune statue neoclassiche, tra cui il delicato tondo
La notte di Bertel Thorvaldsen. Al centro del salone troviamo un ampio tavolo circolare
in marmo, lavorato con materiale archeologico di provenienza vesuviana. Vari ambienti
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degli Appartamenti Reali hanno però subito ripetuti mutamenti di aspetto con il
susseguirsi dei Re Borbonici, Francesi e Piemontesi.
Pur conservando la sua sontuosa destinazione, in questi anni l’edificio si trovò
adibito a spazio espositivo con l’istituzione nel 1863, sotto l’egida di Annibale Sacco,
amministratore delegato della Real Casa, della Galleria d’Arte Moderna, che raccoglieva
dipinti ottocenteschi già nelle collezioni borboniche o frutto di recenti acquisizioni, e
l’Armeria (Sala 46). Quest’ultimo espone una pregevole collezione di armature, armi
bianche e da fuoco di origine farnesiana e borbonica, come la preziosa armatura cesellata,
detta “del Giglio”, opera cinquecentesca di Pompeo della Cesa.
Nel the Salottino di Porcellana fu trasportato a Capodimonte dalla Reggia di
Portici, che passò allo Stato. La lavorazione del prezioso boudoir rococò, iniziata dalla
Manifattura di Capodimonte per la regina Maria Amalia di Borbone nel 1757, si compone
di oltre tremila pezzi di porcellana bianca con decori policromi a rilievo, montati su telaio
di legno. La sala rettangolare è ulteriormente arricchita da quattro specchi francesi, un
grande lampadario, anch’esso in porcellana, e una volta in stucco che imita la ceramica.
Il pavimento originario non si conserva, mentre le porte intagliate ei tendaggi sono stati
prodotti dalla Manifattura di San Leucio.
Negli anni immediatamente successivi giunsero a Capodimonte tutte le
porcellane, insieme a tutte le ceramiche presenti negli ex palazzi borbonici, per lo più
dalla Real Fabbrica di Porcellane, fondata da Carlo di Borbone nel 1743, e quella fondata
da Ferdinando nel 1772, creando una delle raccolte fittili più importanti al mondo. Il
grande Carro dell’Aurora in biscuit di ceramica, realizzato intorno al 1806 dalla Real
Fabbrica di Napoli e da quella di Poulard-Prad, può senza dubbio essere considerato uno
dei capolavori delle due manifatture napoletane, sia per la qualità della modanatura, che
si ispira l’affresco seicentesco dello stesso soggetto dipinto da Guido Reni per i
Rospigliosi a Roma, ma anche per l’estrema perfezione delle figure e delle ghirlande di
fiori. La Caduta dei Giganti è un’altra grandiosa macchina scenica realizzata da Filippo
Tagliolini.
Con il passaggio del Palazzo allo Stato nel 1920, una parte del Palazzo fu di volta
in volta aperta al pubblico, pur rimanendo residenza dei Duchi d’Aosta. Fu però solo negli
anni successivi alla seconda guerra mondiale che la Reggia di Capodimonte ospitò
definitivamente le Collezioni Farnese e Borbonica, insieme a quelle via via via via
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aggiunte, come la Collezione Avalos, donata nel 1862 e confluita con le raccolte di il
Museo Nazionale nel 1882. Il disordine dei lavori nell’ex Palazzo degli Studi trovò
soluzione solo nel 1948 con la separazione delle collezioni archeologiche, rimaste in situ,
il trasferimento della Biblioteca Nazionale a Palazzo Reale e la storica e collezioni
artistiche alla Reggia di Capodimonte.
Importanti lavori di restauro dell’edificio sono stati intrapresi su progetto
dell’architetto Ezio Bruno De Felice, sotto la direzione del Soprintendente Bruno
Molajoli, con un ampio programma di riqualificazione curato da Ferdinando Bologna e
Raffaello Causa. Tali interventi coinvolsero:
- riforme di consolidamento strutturale dopo i danni verificatisi durante la
guerra.
- l’eliminazione dei locali di servizio al secondo piano per creare nuovi
spazi espositivi per la collezione di dipinti Farnesiani e del Cinquecento.
- l’ampliamento dello scalone principale effettuato nel 1838 per consentire
un facile accesso al secondo piano.
- l’eliminazione della cappella di corte creata nel 1838 per farne un moderno
auditorium.
- il trasferimento della preziosa biblioteca della Duchessa d’Aosta alla
Biblioteca Nazionale di Napoli.
- la creazione di una museografia raffinata, neutra e moderna, lontana dai
criteri storicistici del secolo precedente.
- la realizzazione di un “Appartamento Reale” dove saranno esposti pezzi
del XVIII e XIX secolo, ma dove non verrà effettuata una ricostruzione storica degli spazi.
- il trasferimento del salottino in porcellana dalla sede del 1866 ai nuovi
spazi dell’“Appartamento Reale”
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Il nuovo museo, inaugurato il 5 maggio 1957, presentava le opere in maniera
ordinata, suddivise tra il primo piano, con gli appartamenti storici e la Galleria
dell’Ottocento, e il secondo piano, dove la galleria è stata organizzata in ordine
cronologico.
Nel 1958 il museo accolse anche la collezione di maioliche e oggetti d’arte donata
dall’eclettico antiquario e mecenate Mario De Ciccio.
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Spinosa N., Utili M., Museo di Capodimonte, Milano 2002, p. 17.
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Successivamente, le sale sud-ovest del piano rialzato furono scelte per ospitare il
Gabinetto dei disegni e delle stampe, dove sono custoditi capolavori della grafica, tra gli
altri di Michelangelo, Raffaello, Fra Bartolomeo, Tintoretto, Parmigianino, Carracci,
Lanfranco, Falcone, Caracciolo, Rembrandt e vanWittel. Ricordiamo il meraviglioso
disegno attribuito a Michelangelo Buonarroti raffigurante Venere e Amore, qui presente
anche qui, composto da vari fogli assemblati, ripetuto più volte da chi seguì il maestro
rinascimentale, e il Bambino morso da un gambero, opera del quinto decennio del XVI
secolo da Sofonisba Anguissola.
Il lenzuolo, già di proprietà di Cosimo dei Medici, fu ammirato fin dalla sua
concezione per la capacità dell’artista di esprimere la contrizione del fanciullo; la
testimonianza di Giorgio Vasari nelle sue Vite, quando parlava del soggetto, di originale
realismo, che era stato suggerito personalmente al pittore da Michelangelo.
Non si sa però esattamente quali opere fossero esposte nel museo, poiché gli
annuari dell’epoca furono distrutti durante la Seconda Guerra Mondiale. Oltre alla
destinazione museale, nel palazzo già nel 1755 aveva sede la Reale Accademia del Nudo,
affidata alla direzione del pittore Giuseppe Bonito.
Nel 1759 il resto della collezione fu trasferito: si tratta dei cartoni preparatori per
gli affreschi della Cappella Paolina di Michelangelo e della Stanza di Eliodoro di
Raffaello in Vaticano, oltre a dipinti di Giorgio Vasari, Andrea Mantegna e Masolino da
Panicale.
Verso la fine degli anni Settanta del Settecento, con il trasferimento di altri pezzi
della collezione Farnese, il museo occupò ventiquattro sale. Furono acquistati anche
nuovi dipinti, i primi di pittori meridionali, come Polidoro da Caravaggio, Cesare da
Sesto, José de Ribera e Luca Giordano, oltre a tavole di Anton Raphael Mengs, Angelika
Kauffmann, Élisabeth Vigée-Le Brun e Francesco Liani.
Nel 1783 fu acquisita la collezione del conte Carlo Giuseppe di Firmian,
contenente circa ventimila incisioni e disegni di artisti come Frate Bartolomeo, Perin del
Vaga, Albrecht Dürer e Rembrandt.
Contemporaneamente, su suggerimento del pittore di corte Jakob Philipp Hackert,
venne inaugurato un laboratorio di restauro, affidato prima alla direzione di Clemente
Ruta e poi a Federico Andrés.
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Nel 1785, durante il regno di Ferdinando I delle Due Sicilie, fu istituito il
Regolamento del Museo di Capodimonte, che definiva gli orari di apertura, i compiti dei
custodi, le responsabilità del destinatario e le condizioni di accesso al museo, ma
ciononostante l’accesso alla popolazione non venne liberalizzato – nonostante ciò già
avvenisse in altri musei borbonici – se non in presenza di un nulla osta rilasciato dalla
Segreteria di Stato.
Alla fine del Settecento, quando il museo ospitava circa milleottocento dipinti, si
decise di creare un unico polo museale napoletano e la decisione ricadde sul Palazzo degli
Studi, futuro Museo Archeologico Nazionale. I lavori per questo nuovo uso pubblico del
palazzo erano iniziati nel 1777 sotto la direzione di Ferdinando Fuga, con l’intento di
trasportarvi l’intera collezione Farnese ed Ercolanese, quest’ultima formatasi dopo i
ritrovamenti degli scavi archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia, oltre a trasformarlo
nella sede della biblioteca e dell’accademia.
La ricchissima collezione è stata ulteriormente incrementata nel 1970, con la
donazione di Angelo e Matio Astarita di oltre 400 disegni, acquarelli e oli di Giacinto
Gigante e altri artisti della scuola di Posillipo.
Nel 1988 il museo ha ricevuto in donazione i manifesti pubblicitari dei Grandi
Magazzini Mele, che testimoniano il gusto colorato ed esuberante del design pubblicitario
durante la Belle Époque.
Tra il 1995 e il 1999, sotto la direzione del Soprintendente Nicola Spinosa, si è
concluso un nuovo allestimento del Museo, condotto secondo un iter che lega la storia
del collezionismo al percorso cronologico. I lavori sulla struttura architettonica, iniziati
nel 1986, hanno adeguato l’edificio ai moderni standard di conservazione, risolvendo
anche alcuni problemi strutturali causati dal terremoto del 1980.
Il piano scientifico ha determinato la ricollocazione delle opere ottocentesche al
terzo piano, lasciando spazio alla Collezione Farnese, con la presentazione delle arti
applicate e il prezioso Cofanetto, capolavoro dell’oreficeria cinquecentesca, realizzato
per custodire preziosi manoscritti. Il secondo piano ospita la raccolta di opere legate alla
città, seguendo un’idea di Galleria napoletana già sperimentata da Gioacchino Murat, con
capolavori, tra gli altri, di Simone Martini, Tiziano, Caravaggio e Luca Giordano. I sette
arazzi, realizzati a Bruxelles su disegno di Bernard van Orley tra il 1527 e il 1531,
costituiscono un ciclo più completo di arazzi cinquecenteschi, insieme a quelli della
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Cappella Sistina, su cartoni di Raffaello. Donati a Carlo V dalla città di Bruxelles nel
1531, gli arazzi entrarono nella collezione del principe Francesco Ferdinando d’Avalos,
erede dell’eroico condottiero delle Guerre d’Italia, attraverso l’eredità di Don Carlos,
figlio di Filippo II di Spagna.
Anche lo storico appartamento è stato oggetto di un programma di
ristrutturazione, con il notevole aumento del numero dei dipinti esposti. Alle pareti si
possono ora apprezzare dipinti provenienti da diverse collezioni, scelti per i loro soggetti
relativi ai monarchi napoletani o scene campestri del Regno. Tra queste troviamo le
significative tele di Giovanni Paolo Pannini, che celebrano la visita del re Borbone al
Papa, dopo la vittoria di Velletri nel 1744, con Carlo di Borbone e Benedetto XIV davanti
alla Basilica di San Pietro, e Carlo di Borbone ricevuto da Benedetto XIV al Caffè del
Quirinale (Sala 32).
Da segnalare inoltre il magnifico Ritratto di Carlo IV e di Maria Luisa di Parma,
opere di Agustín Esteve su originali di Franciso Goya, dove l’analisi psicologica si fa più
acuta e profonda (Sala 34), e il Ritratto di Ferdinando IV di Borbone, efficace opera di
Anton Raphael Mengs che fu dipinta nel 1759 per l’ascesa al trono del giovane re. Tra le
notevoli vedute del Regno, abbiamo la tela di Jakob Philipp Hackert, Ferdinando IV a
caccia di folaga presso il lago Fusaro del 1783 (Sala 43), o la composizione più
drammatica di Pierre-Jacques-Antoine V olaire in L’eruzione del Vesuvio dal Ponte della
Maddalena, firmato e datato 1782 (Sala 43).
Nel 1820 il paesaggista norvegese Johan Christian Dahl dipinse la Casina Reale
di Quisisana, commissionata dal Principe di Danimarca come dono a Ferdinando di
Borbone; le figure in primo piano che si affacciano alla veduta, intente a contemplare il
romantico panorama, sono il suddetto principe con la consorte Carolina Amalia e il suo
seguito. Da segnalare la sala dedicata al tema del paesaggio (Sala 29), nella quale sono
conservate le opere dei pittori seicenteschi Carlo Saraceni e Claude Lorrain, insieme ai
vedutisti veneziani del Settecento, Francesco Guardi e Bernardo Bellotto. Il Paesaggio
con la ninfa Egeria, firmato e datato 1669 dal pittore francese, naturalizzato romano, è da
considerarsi uno dei capolavori di Capodimonte, per l’abile successione dei piani e la
raffinatezza degli effetti luminosi. Il dipinto, commissionato dalla famiglia Colonna e
acquistato per i Borboni nel 1800, raffigura la scena mitologica in un’ampia veduta dove