Introduzione La nostra è una specie sociale. Gli esseri umani sono costantemente coinvolti in interazioni
complesse di varia natura: cooperano e competono tra di loro, comunicano per scambiarsi
informazioni, acquisiscono nuove competenze osservando e imitando gli altri.
Trascorriamo la maggior parte della nostra vita interagendo con altre persone.
Di giorno siamo costantemente ingaggiati in relazioni di varia natura, parentali, amicali,
professionali, di notte i nostri sogni sono spesso popolati di quelle stesse persone.
Anche quando siamo soli i nostri pensieri sono spesso rivolti a coloro che fanno parte della nostra
rete sociale.
La complessa natura delle trame interpersonali di cui siamo quotidianamente attivi protagonisti è
oscurata dalla semplicità con la quale spesso riusciamo a gestire questa complessità.
Diversamente da altre specie, l’uomo ha evoluto la capacità di regolare le proprie interazioni sociali
rappresentandosi gli stati mentali sottostanti il comportamento altrui.
I processi di cognizione sociale e le rispettive basi neurali sono al centro dell’interesse di una nuova
branca delle neuroscienze, le neuroscienze sociali, che attraverso gli strumenti di indagine propri
delle neuroscienze cognitive, hanno come proprio oggetto di studio il comportamento sociale
umano.
In questi ultimi anni le neuroscienze sociali stanno compiendo un significativo sforzo teorico e
sperimentale per giungere alla comprensione dei correlati neurali della cognizione sociale umana.
È, infatti, auspicabile che l’individuazione delle aree cerebrali coinvolte nella regolazione delle
nostre quotidiane interazioni sociali, nonché l’analisi del ruolo svolto da queste aree cerebrali, possa
in prospettiva favorire un dialogo tra le neuroscienze e la psicopatologia, settori scientifici troppo
spesso distanti.
3
Tener conto, ad esempio, che aree distinte del circuito neurale sottostante la Teoria della Mente sono
specializzate nell’elaborazione di classi differenti di stimoli sociali, può aiutare i ricercatori e i
clinici a meglio comprendere i disordini psicopatologici conseguenti a un disturbo di questo
meccanismo neuro-cognitivo, si pensi all’autismo e alla schizofrenia quali esempi paradigmatici.
Un’idea emergente nell’ambito delle neuroscienze cognitive è che per gestire in modo adeguato
questa complessità gli esseri umani hanno evoluto meccanismi neuro-cognitivi specificamente
deputati.
Solo grazie al corretto funzionamento di questi meccanismi è possibile andare oltre la superficie
costituita dai comportamenti altrui e risalire agli stati mentali che li determinano.
Da quando si dispone delle neuroimmagini funzionali, quali la tomografia ad emissione di positroni
(PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), capaci di rilevare quali aree cerebrali sono attive
durante uno specifico compito, le neuroscienze si sono dedicate alla ricerca dei correlati neurali
dell’elaborazione degli stimoli di natura sociale.
Molte delle strutture che le neuroimmagini hanno mostrato coinvolte nell’elaborazione delle
informazioni sociali, erano già state indirettamente individuate da studi di lesione, che avevano
mostrato importanti deficit del comportamento interpersonale in seguito a danni cerebrali focali, in
particolare a carico della corteccia prefrontale, sia in età adulta che nell’infanzia.
Queste conferme cliniche sull’importanza della corteccia prefrontale nella cognizione sociale si
aggiungono a quelle provenienti da studi comparativi, che hanno dimostrato come le aree
prefrontali umane siano quelle in cui il processo di encefalizzazione raggiunge la massima
espansione.
Nella mia tesi, dunque, vorrei discutere sui processi mentali e sui meccanismi neuro-cognitivi che
rendono possibile la regolazione della nostra interazione con le menti altrui.
Nel primo capitolo affronterò il concetto di cognizione sociale, come costrutto multidimensionale
che incorpora un ampio raggio di abilità correlate a come la gente pensa circa se stessi e gli altri, e
interpreta tali informazioni sociali.
4
In seguito verranno esposti i correlati neurali sottostanti ad essa.
Un breve paragrafo approfondirà, inoltre, il comportamento sociale anche negli animali, dai
moscerini a specie più complesse come i primati.
Nel secondo capitolo, invece, approfondiremo i diversi approcci allo studio della cognizione
sociale, a partire dalla scoperta dei neuroni specchio fino ad arrivare alla teoria della mente.
E infine, nel terzo ed ultimo capitolo affronteremo le patologie del cervello sociale, tutte quelle
patologie nelle quali sono presenti anormalità delle cognizione sociale, iniziando dall’autismo, fino
ad arrivare alla schizofrenia.
5
Capitolo 1
La cognizione sociale: dagli animali all’uomo 1.1 Si può parlare di cervello sociale? Gli sviluppi della ricerca hanno dato vita a una nuova disciplina chiamata “neuroscienza sociale”
con il compito di capire in che modo il cervello guida il comportamento sociale e, viceversa, come
il mondo sociale influenza il cervello e la biologia dell’individuo.
Il cervello può essere considerato come un sistema vivente aperto e dinamico: è un insieme
integrato, formato da componenti diversi che interagiscono tra di loro (Thelen, 1989) e con
l’ambiente esterno (Siegel, 2001).
Per potere sopravvivere, un sistema vivente deve essere aperto alle influenze dell’ambiente, e anche
il cervello è funzionalmente legato ad altri sistemi, e in particolare altri cervelli (Siegel, 2001).
Inoltre, esso è dinamico e soggetto a cambiamenti in funzione del continuo variare dell’ambiente e
delle sue attività (Siegel, 2001).
L’idea centrale è che lo sviluppo della mente è il risultato delle interazioni fra processi
neurofisiologici e relazioni interpersonali (Siegel, 2001).
I nostri rapporti con gli altri hanno un’influenza fondamentale sul nostro cervello: i circuiti che
mediano le esperienze sociali sono, infatti, strettamente correlati a quelli responsabili
dell’integrazione dei processi che controllano l’attribuzione dei significati, la regolazione delle
funzioni dell’organismo, la modulazione delle emozioni, l’organizzazione della mente e la capacità
di comunicazione (Siegel, 2001).
Le relazioni interpersonali svolgono quindi un ruolo centrale nel determinare lo sviluppo delle
strutture cerebrali nelle prime fasi della nostra vita, e continuano a farlo durante tutta la nostra
esistenza (Siegel, 2001).
6
Le ricerche mostrano che le interazioni sociali svolgono un ruolo rilevante nella ristrutturazione del
nostro cervello. Ci riferiamo soprattutto alla questione della neuroplasticità, in base alla quale
esperienze ripetute “scolpiscono” la forma, le dimensioni e il numero dei neuroni, e delle rispettive
connessioni sinaptiche.
Il legame tra i cervelli poi attiva i neuroni, creando uno stato che i neuroscienziati definiscono
“risonanza empatica”. Possiamo cioè provare le sensazioni degli altri “come se fossimo nella loro
pelle”.
L’ultima scoperta delle neuroscienze, ovvero, i neuroni specchio, creano in sostanza un ponte fra
due cervelli e fanno sì che nel momento in cui una persona “vede” un’emozione espressa sul nostro
viso, essa provi immediatamente la stessa sensazione dentro di sé.
Il concetto del cervello sociale è emerso, però, in neuroscienze negli anni sessanta.
La teoria secondo cui i primati possiedono reti neurali dedicate alla percezione sociale fu
inizialmente proposta da Kling e Steklis (1976).
Il cervello “sociale” costituisce, infatti, la “somma” dei meccanismi neurali che presiedono alle
nostre interazioni, ai nostri pensieri e sentimenti verso le persone. Parlare di cervello sociale,
tuttavia, potrebbe indurre a ritenere che il cervello sia composto da aree separate, ognuna con un
ruolo particolare, e disgiunta dalle altre; questo è, infatti, un concetto superato (Cozolino, 2008).
In realtà, i circuiti utilizzati per una data funzione mentale non sono localizzati in una singola zona,
ma distribuiti in tutto il cervello (Cozolino, 2008).
Nel cervello non esiste un unico modulo dedicato al comportamento sociale; piuttosto esistono
numerose vie di elaborazione sensoriale, motoria ed emozionale che contribuiscono all’emergere
dell’intelligenza sociale (Karmiloff-Smith et al., 1995). Più complessa è la funzione, più ampia sarà
la distribuzione delle aree cerebrali.
Espressioni come “cervello sociale”, “cervello motorio” o “cervello sensoriale” sono definizioni
utili ma fittizie, usate cioè per convenienza euristica.
7
Quando parliamo di cervello sociale dobbiamo intendere un ambito composto di circuiti che si
estendono “in lungo e in largo”. Non esiste perciò una singola zona che controlla l’interazione
sociale (Cozolino, 2008).
Nel corso dell’osservazione di colonie di scimmie in cattività, furono prodotte delle lesioni nel
cervello di alcune scimmie, di cui venne monitorato il comportamento sociale (Cozolino, 2008). E’
stato dunque scoperto che il danneggiamento di certe strutture cerebrali causava aberrazioni del
comportamento sociale e un declino dello status di gruppo (Cozolino, 2008).
Finora, sono state identificate alcune strutture nell’area prefrontale, in connessione con aree nella
subcorteccia, soprattutto nell’amigdala (Brothers, 1996).
E’ stato, inoltre, evidenziato come i primati abbiano avuto una progressiva espansione delle aree
prefrontali, rispetto a altre aree del cervello.
Infatti, lavori paleoantropologici e di neuroanatomia comparativa suggeriscono che tale progressiva
espansione abbia avuto inizio con la comparsa di Homo habilis circa 2,3 milioni di anni fa (Dunbar,
1998).
Sono state formulate diverse ipotesi per spiegare quali spinte selettive abbiano potuto favorire
l’evoluzione di un tale fenomeno. Secondo l’ipotesi prevalente, l’accrescimento della massa
cerebrale è un tratto adattativo che i primati hanno evoluto in risposta alle pressioni selettive agite
dai complessi sistemi sociali entro cui si sono evoluti (Whiten e Byrne, 1997).
Alla base di questa ipotesi, avanzata nella sua forma più esplicita da Humphrey (1976), ma
delineata già anni prima da Chance e Mead (1953) e da Jolly (1966), vi è l’osservazione che il
mondo sociale, per le sfide che pone all’individuo, è più complesso di quello fisico, solitamente più
prevedibile.
Questa ipotesi è appunto definita ipotesi del cervello sociale (Dunbar, 1998).
L’idea centrale è che alla base della progressiva espansione della neocorteccia dei primati vi è stata
la necessità di manipolare le molteplici informazioni relative alla sfera sociale (Dunbar, 1998).
8
Sarebbe stato l’ambiente sociale quindi, e non quello ecologico o fisico, ad aver posto quelle
pressioni selettive in risposta alle quali i primati hanno evoluto meccanismi neurocognitivi
specificamente selezionati per la risoluzione di problemi come la capacità di fare previsioni sul
comportamento altrui, la capacità di manipolare gli altri individui del gruppo e la scelta degli
individui con cui stringere rapporti di alleanza e cooperazione.
L’ipotesi del cervello sociale individua dunque nella complessa natura dei gruppi entro cui gli esseri
umani si sono evoluti la pressione evoluzionistica alla base della progressiva espansione e
specializzazione delle aree prefrontali (Dunbar, 1993; 2003).
Il rapporto tra dimensione della corteccia e dimensione dell’intero cervello sembra essere aumentato
parallelamente alla dimensione del gruppo dei primati (Dunbar, 1992). Secondo questa ipotesi,
l’evoluzione avrebbe favorito gli individui cognitivamente capaci di fare uso di articolate strategie
per la formazione di alleanze e la gestione di complessi pattern di interazione sociale.
E’ possibile ipotizzare che ciò abbia imposto l’emergere di specifiche abilità in grado di gestire
differenti livelli di elaborazione delle informazioni sociali, nonché lo sviluppo di un sistema in
grado di manipolare e dare senso al comportamento altrui (Povinelli e Preuss, 1995; Barresi e
Moore, 1996).
Utilizzando l’evoluzione come principio organizzatore, partiamo dall’assunto che il cervello sociale
è stato modellato dalla selezione naturale perché il suo essere sociale favorisce la sopravvivenza
(Cozolino, 2008).
L’ipotesi migliore è che, quindi, un cervello più grande e più complesso rende possibile una
maggiore varietà di risposte in situazioni impegnative e in ambienti diversi (Cozolino, 2008).
Sappiamo, inoltre, che l’espansione della corteccia nei primati corrisponde a gruppi sociali sempre
più ampi. Nei gruppi numerosi non vi è soltanto sicurezza, ma permettono anche una
specializzazione di compiti; gruppi numerosi permettono anche una specializzazione di compiti
quali, cacciare, raccogliere e accudire (Cozolino, 2008).
9