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produzione e lo stile di vita occidentale non poterono trasmettersi all’Impero di Mezzo e farlo
crescere nel senso voluto dai protagonisti di quelle rivoluzioni: infatti, di fronte all’aggressività
condita di supremazia militare e tecnologica mostrata dalle potenze imperiali (Russia, Inghilterra,
Giappone, Francia, Stati Uniti) nel cercare di aprire il mercato cinese al “commercio internazionale”
(vale a dire agli interessi dei paesi avanzati), un’aggressività di cui le Guerre dell’Oppio (1839-
1842, 1856-1860) ed i successivi “Trattati ineguali”
2
(che videro tali potenze spartirsi il Paese
riservando le briciole agli altri, come il porto di Tianjin “concesso” all’Italia) sono stati la
concretizzazione più immediata, la Cina non ha risposto come il Giappone, che si è riscattato nel
periodo degli imperatori Meiji (cioè dal 1868) facendo leva sulla mobilitazione patriottica di stampo
nazionalista per rispondere alla sfida occidentale.
Con la rivoluzione comunista che ha portato alla nascita della Repubblica Popolare, la Cina ha
voltato pagina almeno dal punto di vista del raggiungimento di una completa indipendenza, anche
se molti sono stati gli aspetti tipici della società imperiale ereditati dal regime, in special modo la
struttura di potere centralizzata, verticistica ed autoritaria. Tuttavia ciò ha avuto un prezzo, ossia la
marginalizzazione economica e strategica della Cina nello scacchiere mondiale. Infatti, i ripetuti
fallimenti dei tentativi maoisti di sviluppare forzatamente l’economia e la conseguente “uguaglianza
nella povertà” si traducevano in esigue capacità militari e nella subordinazione economico-militare
rispetto all’omologo sovietico e rendevano diffidente il resto del mondo rispetto alla capacità del
regime comunista cinese di garantire la stabilità all’interno ed all’esterno dei propri confini. Ma la
vera svolta nella storia cinese si è prodotta a partire dal 1978 con la ascesa al potere di Deng
Xiaoping, la cui azione ha dato l’input affinché la Cina tornasse ad essere in tutti i sensi un Impero
di Mezzo ed ad attirare su di sé le attenzioni del mondo intero. L’azione riformistica di Deng è stata
condotta esclusivamente sul piano economico aprendo l’economia nazionale agli investimenti
privati stranieri, restituendo ai privati (sotto forma di concessione di diritti d’uso, non di proprietà)
la coltivazione della terra ed iniziando a dar vita, dopo il “sonno giuridico” dell’epoca maoista
durante la quale gli affari statali venivano condotti secondo impulsi ideologici, ad una continua
2
Con il Trattato di Nanjing del 1842 al termine della I Guerra dell’Oppio, la Cina doveva cedere Hong Kong all’Impero
britannico ed aprire cinque porti propri al commercio con la Gran Bretagna riservandole tariffe preferenziali,
concessioni commerciali estese due anni dopo a Stati Uniti e Francia; alla fine della II Guerra dell’Oppio, con la
Convenzione di Pechino del 1860 Francia, Gran Bretagna e Russia strappavano nuove piazze commerciali e statuti
privilegiati (il cosiddetto regime delle “capitolazioni”, in virtù dei quali i cittadini stranieri con residenza cinese avevano
il diritto di essere giudicati da tribunali costituiti da propri connazionali e non dai tribunali locali) per i loro residenti. In
più, con la guerra franco-cinese del 1884-85 la Cina rinunciava al proprio protettorato sull’Annam (l’Indocina francese,
oggi Vietnam, Laos e Cambogia) e con la guerra sino-giapponese del 1894-95 il Paese cedeva Taiwan e rinunciava al
protettorato sulla Corea. Ancora, nel 1898 Germania, Francia, Russia e Gran Bretagna si spartiscono la Cina in zone
d’influenza e con la guerra russo-giapponese del 1904-05 il Giappone subentra alla Russia nei propri diritti (sulla
Manciuria, ossia la regione nordorientale della Cina). Infine, con l’indipendenza della Manciuria del 1922 e la guerra
sino-giapponese del 1937-45, inquadrata nella Seconda Guerra Mondiale, la storia cinese tocca i suoi punti più bassi.
5
attività legislativa volta a dotare lo Stato degli strumenti indispensabili per poter fondare su basi di
sempre maggiore certezza giuridica le relazioni economiche con l’estero.
Che cos’è, dunque, la Cina a livello interno? Prima di tutto è un paese che sta vivendo una
transizione interna a tutto tondo ed è alla ricerca continua di punti di equilibrio a cui approdare in
conseguenza di ogni cambiamento. Così, dal punto di vista economico è stata data priorità
all’obiettivo dello sviluppo economico ed ha quindi abbandonato la soluzione autarchica per
approdare prima ad un’economia a maggioranza statalista e poi, per assecondare ulteriormente le
esigenze di crescita, sempre più (per produzione, occupazione, remunerazione) in mano ai privati,
producendo i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Tale scelta è stata confermata, dopo il 1989,
per garantire la sopravvivenza politica del regime, il quale ha fatto della crescita economica la
propria fonte di legittimazione politica ed ha evitato di subire la stessa fine dei regimi comunisti del
“socialismo reale”, evento che avrebbe inevitabilmente disintegrato un paese che, vista la sua
enorme estensione territoriale è naturalmente caratterizzato da una enorme diversità di situazioni a
livello locale. Il punto di approdo politico a cui si è giunti nel periodo post-1989 non è stato quindi
un revival della durezza maoista ma il sistema politico come oggi lo conosciamo: fusione tra Partito
e Stato; sistema politico sempre monopartitico ma con un partito che, conscio delle diversificazioni
che l’apertura economica ha creato a livello socio-economico, si serve sempre più di altri strumenti
(ONG dirette dal governo, gli otto partiti democratici che hanno riconosciuto la leadership del
Partito comunista, la cooptazione al potere delle classi in ascesa economica) per occupare in
maniera più efficace lo spazio politico; sistema decisionale ancora di stampo verticistico ma con
l’impegno a garantire una maggiore trasparenza delle scelte dell’Ufficio Politico; partito
formalmente ancora di tipo marxista-leninista per ideologia guida ed organizzazione ma che in
realtà persegue la tecnicizzazione dei propri quadri e privilegia (o cerca di privilegiare) la
competenza ai legami di guanxi; istituzionalizzazione del regime, se si pensa che la nomina di Hu
Jintao a capo del regime segue la sua designazione quale successore di Jiang Zemin fatta da Deng
Xiaoping nel 1992. La scelta della “porta aperta” ha prodotto infine notevoli conseguenze a livello
sociale, tutte causate dalla progressiva perdita del controllo del Partito comunista sull’economia e
riassumibili nella progressiva differenziazione sociale e i problemi che questa crea a livello politico;
infatti, il regime politico viene delegittimato specialmente dalle proteste e rivendicazioni dei ceti più
svantaggiati dall’apertura economica (contadini ed operai delle aziende pubbliche in
ristrutturazione), specialmente alla luce dell’evidenza dei legami che tengono insieme politici e i
“vincitori” dell’apertura economica, un prezzo che il Partito deve pagare (ma a cui deve mostrarsi in
grado di porre almeno parzialmente rimedio) per mantenere l’attuale equilibrio.
6
In secondo luogo, la Cina non è un paese omogeneo poiché presenta situazioni differenti nelle
varie parti di cui si compone, né sembra particolarmente coeso: sono le regioni meridionali quelle
che trainano l’economia e nelle quali si concentrano le attività imprenditoriali private, le migliori
infrastrutture ed i più alti livelli di reddito pro-capite e che godono delle maggiori risorse idriche,
mentre è in quelle centro-settentrionali, dove si concentrano l’attività agricola ed i combustibili
fossili, la gente è più povera, le industrie sono per lo più di proprietà pubblica (anche se specie nelle
regioni centrali cresce l’afflusso di investimenti esteri e l’attenzione delle politiche governative) e
l’ambiente naturale è più devastato, con un deserto che avanza rapidamente e risorse idriche assenti
e/o presenti ed in rapido esaurimento od inquinate; vi è dunque una sperequazione nelle condizioni
reddituali tra campagna e città; il paese presenta tendenze separatiste nelle regioni autonome di
Xinjiang e Tibet e tendenze protezionistiche a livello provinciale, con barriere doganali
interprovinciali che alla luce delle norme WTO dovranno essere abolite.
Come è vista, invece, la Cina dagli altri attori internazionali? E che ruolo occupa nello
scenario mondiale? Sostanzialmente, si possono distinguere due visioni della Cina a livello
internazionale, a seconda che si voglia sottolineare cosa questo paese abbia da dare oppure cosa
voglia pretendere, una ripartizione che per sommi capi corrisponde ad una distinzione tra un
atteggiamento ottimista e fiducioso da una parte e timoroso e diffidente dall’altra nei confronti del
ruolo che questo paese riveste o potrebbe rivestire a livello mondiale.
Secondo gli ottimisti, la Cina è ormai diventato un perno dell’economia mondiale, è ormai un
paese che con l’adesione alla WTO è stato guadagnato in maniera irreversibile alla causa della
globalizzazione economica ed è soprattutto un’opportunità da sfruttare e dalla quale farsi
coinvolgere; infatti, quegli attori internazionali governativi e non che intrattengono rapporti
economici con il paese asiatico e che da questi hanno tratto vantaggi (soprattutto i paesi
dell’estremo oriente asiatico) focalizzano il proprio interesse sulla sua rapida crescita economica e
sugli aspetti ad essa connessi: la convenienza di delocalizzarvi la produzione per la presenza di
manodopera instancabile ed a basso costo; la crescita della domanda cinese di prodotti esteri (beni
finiti, semilavorati, componenti da assemblare, beni strumentali, materie prime di qualsiasi tipo) che
stimola in maniera decisa l’economia regionale e mondiale; un mercato interno che con la
progressiva crescita dei redditi individuali sarà in grado di assorbire prodotti di qualità e/o
contenuto tecnologico sempre maggiore. Inoltre, gli ottimisti tendono a sottolineare i miglioramenti
che i processi di riforma delle aziende e delle banche pubbliche intrapresi dal governo hanno
permesso di ottenere, ed hanno fiducia che la situazione interna, precaria ma in miglioramento, in
materia di diritti umani e libertà fondamentali individuali possa continuare a migliorare mano a
mano che si procede nell’apertura del paese alle influenze del mondo esterno.
7
Per quanto riguarda il ruolo politico che la Cina sarà in grado di rivestire a livello
internazionale, gli ottimisti ritengono che la dirigenza politica cinese abbia convenienza, in primis
per garantirsi un qualche futuro politico, a puntare ancora tutte le proprie carte sullo sviluppo
economico e sulla volontà di perseguire quindi una politica estera conforme a tale proposito, cioè la
stabilizzazione dell’area Asia-Pacifico. Dimostrazioni di tali intenti da parte della leadership cinese
andrebbero viste innanzitutto nell’opposizione della Cina ad azioni destabilizzanti nell’area
circostante i suoi confini occidentali, nella sua volontà di contribuire costruttivamente alla stabilità
dell’area centroasiatica attraverso la costituzione della SCO, nel suo importante contributo al
controllo della questione della proliferazione nucleare in Corea del Nord, ed ovviamente attraverso
la leva economica nella forma di fortissimi legami bilaterali e multilaterali (ossia, la costituzione dal
2011 di un’area di libero scambio ASEAN-Cina) con i paesi circostanti e di aiuti ai più poveri tra
questi.
A questa visione “positiva” della Cina se ne affianca un’altra altrettanto diffusa, un’opinione
timorosa ed insieme scettica delle capacità e delle ambizioni cinesi, di chiaro stampo protezionista e
diffusa sia tra quei paesi industrializzati nei quali quei settori economici labour-intensive e
caratterizzati da scarsa innovazione da sempre protetti dalla concorrenza estera stanno cadendo
sotto i colpi delle esportazioni cinesi, sia tra i paesi sottosviluppati (specialmente extra-asiatici) in
diretta competizione con la Cina nell’attrarre gli investimenti esteri e nelle esportazioni di prodotti,
anche qui, ad alta intensità di lavoro. Secondo coloro che appartengono a questa categoria di
osservatori, la Cina è un rivale da temere poiché i prodotti che essa esporta sono talmente
imbattibili nei prezzi e nei gusti dei consumatori da mandare in crisi le imprese nazionali dei paesi
importatori, una “invasione” alla quale si dovrebbe rispondere ove consentito con barriere doganali.
Tale misura, peraltro, sarebbe giustificata secondo i pessimisti per due motivi: da una parte essa
costituirebbe infatti una sorta di reazione all’incapacità del governo cinese di garantire il rispetto
della normative internazionali in materia di diritto d’autore, viste le grandi quantità di prodotti
contraffatti di origine cinese che affluiscono nei mercati esteri; da un altro punto di vista la
giustificazione di queste misure consisterebbe nel fatto che il vantaggio competitivo di cui la Cina
gode nei confronti degli altri paesi sarebbe ottenuto principalmente grazie a pratiche di “dumping
sociale”, ossia la dura compressione dei diritti dei lavoratori, e “dumping valutario”, ossia il
mantenimento di un tasso di cambio fisso ed artificialmente basso della moneta nazionale con il
dollaro; quest’ultima pratica giustificherebbe, inoltre, le pressioni specialmente da parte statunitense
a favore di una liberalizzazione dei tassi di cambio e, più in generale, dei flussi di capitali da parte
cinese, mostrando così di tenere in poco conto (o di non saperne nulla) l’importanza che per la
stabilità interna della Cina riveste il controllo di questi fenomeni da parte del governo. Infine,
8
questa parte dell’opinione pubblica mondiale non perde tempo a rimarcare come le carenze del
sistema economico cinese possano mettere in serio pericolo la continuità della crescita nazionale ed
a sottolineare le mancanze del regime interno nel garantire e rispettare i più fondamentali diritti
individuali.
Tale atteggiamento nei confronti della Cina contraddistingue i pessimisti/timorosi/diffidenti
anche quando si tratta di valutare il suo ruolo politico internazionale. Costoro (specificamente
alcuni circoli governativi ed accademici americani), infatti, pur non potendo fare a meno di notare
che la Cina appartiene a pieno titolo a quell’insieme di paesi che ha interesse ad opporsi al
terrorismo internazionale, vedono di questo paese solo il potenziale pericolo che essa rappresenta e
potrebbe diventare a livello militare: le continue esplicite minacce nei confronti di Taiwan e la più
velata minaccia che essa rappresenta per la sicurezza del Giappone, le massicce importazioni di
armi e tecnologie militari dalla Russia, le responsabilità nella proliferazione di tecnologie nucleari
nei confronti della Corea del Nord, Pakistan e, secondo i sospetti americani, anche Iran, oltre alla
fornitura di tecnologia militare alla Siria (Gertz, 1996; Fisher, 2004). Queste sarebbero tutte
manifestazioni del più ampio pericolo che la Cina potrebbe rappresentare per il futuro equilibrio
mondiale una volta che il completamento del proprio sviluppo economico le permettesse di ergersi a
potenza a tutto tondo; non a caso, tra le altre cose proprio gli Stati Uniti sostengono modalità di
riforma dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e, al suo interno, specialmente del Consiglio di
Sicurezza attraverso la concessione del seggio permanente a paesi rivali della Cina nell’ambire al
ruolo di potenza regionale quali Giappone ed India. Infine, la Cina viene vista come un competitore
strategico anche per quanto riguarda la corsa ad assicurarsi una fornitura stabile di idrocarburi dal
Mar Caspio, ritenuti dai paesi occidentali fondamentali per poter diversificare gli
approvvigionamenti rispetto alle forniture mediorientali e quindi di importanza tale da valere i
tentativi di impedire all’Impero di Mezzo di mettervi le mani sopra.
Nessuna di queste due posizioni, se presa da sola, costituisce una spiegazione esauriente del
fenomeno cinese. Infatti, il problema fondamentale nell’approccio che si ha nei confronti di questo
paese è proprio... la mancanza di conoscenza di ciò di cui si parla, mentre ciò che occorre, invece, è
cercare di avere della Cina una visione a tutto tondo e se possibile scevra da pregiudizi ed interessi
particolari. Proprio questo è l’obiettivo di questo lavoro, ossia dare un’immagine dello stato attuale
e delle tendenze future dell’economia cinese, dei lati positivi e di quelli negativi della
ultraventicinquennale crescita cinese, dei rischi e delle convenienze che tale processo comporta per
la stessa Cina e per tutti gli altri paesi, al fine di mostrare come la Cina sia diventata ormai un perno
attorno al quale ruota il processo di globalizzazione mondiale ma al contempo non abbia raggiunto
9
un comparabile peso politico internazionale, condizionata com’è dalla priorità del raggiungimento
di un più rapido sviluppo economico.
Il lavoro è strutturato in due parti. La prima parte è costituita da quattro capitoli: il primo
capitolo analizza a livello generale la politica cinese in materia commerciale e di investimenti diretti
dall’estero, soffermandosi tra l’altro su esempi di settori “nuovi” dell’economia cinese in rapida
crescita (come quello delle tecnologie) e di comparti tradizionali che si trovano invece in difficoltà
(agricoltura e, parzialmente, il settore tessile), sul ruolo chiave della crisi finanziaria del 1997 nel
mutare il ruolo regionale della Cina e sui suoi principali partner commerciali; nel secondo capitolo
verrà analizzata la risposta del paese alla crescita della propria domanda energetica, prestando
attenzione ad ogni singola fonte energetica, e specialmente il petrolio, ed alle conseguenze
ambientali che tale risposta ha implicato fino ad ora; il terzo capitolo verrà invece dedicato
all’analisi della politica tecnologica della Cina, con una specifica attenzione dedicata ai risvolti
militari e strategici della crescita tecnologica cinese ed ai differenti risultati dello sforzo profuso per
dotarsi di una propria tecnologia nazionale, analizzando il settore dell’aeronautica militare quale
esempio di fallimento del tentativo del paese di costituire un’industria nazionale tecnologicamente
competitiva e, al contrario, il settore della tecnologia spaziale quale simbolo dei successi ottenuti
anche grazie alla collaborazione straniera; infine, il quarto capitolo è dedicato ai punti deboli
strutturali del sistema economico cinese, ossia le aziende di Stato, le banche pubbliche e la
corruzione.
La seconda parte è, invece, costituita da due capitoli: il quinto capitolo analizza i vari aspetti,
punti d’incontro e di scontro nelle relazioni politiche bilaterali che la Cina intrattiene
rispettivamente con Stati Uniti, Russia, Giappone ed India, ed il sesto capitolo tratta invece
dell’evoluzione che sta subendo il sistema politico cinese e dei suoi possibili approdi.
10
2. La Cina e l’economia internazionale.
2.1 Più di venticinque anni di crescita economica a pieno ritmo: l’integrazione della Cina coi
mercati mondiali.
Nonostante le diatribe sul maggiore o minore grado di affidabilità dei dati statistici
3
, è
incontestabile che negli ultimi 25 anni la Cina abbia compiuto grandi passi nel senso di una sempre
maggiore apertura verso l’esterno ed integrazione coi mercati internazionali. Si è così abbandonata
l’autarchia di stampo maoista, che ha conosciuto il suo momento forse più drammatico nella
politica del “Grande Balzo in Avanti”, e grazie all’azione di Deng Xiaoping a partire dal 1978 si è
avviata una graduale e sperimentale apertura verso l’esterno. In una prima fase, che data proprio
1978, venne attuata la cosiddetta politica delle “quattro modernizzazioni” (dell’industria,
dell’agricoltura, della scienza e della difesa), della quale rilevano in particolare i seguenti aspetti:
1) il regime iniziò a decollettivizzare la struttura agricola e la terra venne consegnata ai contadini,
non come proprietà bensì con l’introduzione della responsabilità individuale nella coltivazione: da
quel momento i contadini sarebbero stati liberi di decidere cosa e come coltivare nei terreni loro
assegnati e di vendere i frutti del loro lavoro;
2) venne lanciata la politica del figlio unico e il controllo delle nascite venne riconosciuto un
obiettivo primario dello sviluppo, dato che i piani pluriennali del governo prevedevano un aumento
del PIL pro capite da 250 (1978) a circa 1000 dollari nell’anno 2000, ma questo veniva ritenuto
possibile solo qualora la popolazione non avesse superato il miliardo e duecento milioni, obiettivo
oggi abbondantemente oltrepassato; il governo iniziò, quindi, a fissare nei piani quinquennali i tetti
massimi di crescita della popolazione ed istituì comitati provinciali per la pianificazione familiare
col compito di concedere l’autorizzazione, che divenne obbligatoria, alle gravidanze nel rispetto dei
limiti quantitativi fissati dai piani: chi si atteneva alle regole otteneva vantaggi prettamente
economici (assegni familiari, accesso gratuito ad ospedali e scuole, maggiori forniture alimentari,
migliori ubicazioni abitative, aiuti previdenziali ai genitori ecc.) come gli svantaggi di chi non lo
faceva, penalizzazioni che erano tanto maggiori quanto più alto era il numero dei figli
4
;
3
Da una parte c’è chi ritiene che il tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo sia stato sopravvalutato da parte delle
autorità cinesi. Tra questi, ad esempio, Lardy (1998) ha dimostrato che l’effettivo tasso di crescita annuo sarebbe
inferiore a quello dichiarato di uno-due punti percentuali. Dall’altra parte altri osservatori, come per esempio Dore
(2003), ritengono che se si tenesse conto di indicatori chiave come l’incremento del consumo di elettricità e della
produzione di automobili, avvenuti rispettivamente ad un tasso medio annuo del 15 e del 30%, il tasso medio annuo di
crescita del PIL reale dovrebbe attestarsi su un valore vicino all’11-12%, cioè circa un paio di punti percentuali in più di
quanto si ricava guardando ai dati ufficiali.
4
Per un quadro più dettagliato si veda Weber (2003). I risultati tangibili di questa politica, anche a causa della
tradizionale preferenza per i maschi, del conseguente fenomeno dell’infanticidio femminile e dell’aumento della
11
3) venne varata la politica della “porta aperta”, con la quale si intendeva aprire progressivamente il
paese agli investimenti esteri, e che si sostanziò principalmente nell’istituzione tra 1979 e 1980 di
quattro Zone Economiche Speciali (Shenzhen e Zhuhai, rispettivamente di fronte alle isole di Hong
Kong e Macao, e Shantou, nel Guangdong; Xiamen, di fronte a Taiwan, nel Fujian), alle quali dal
1984 si aggiunsero anche l’isola di Hainan ed altre 14 città costiere: in esse gli investitori esteri
godevano (e tuttora godono) di notevoli agevolazioni quali ad esempio tassa sul reddito agevolata,
esenzioni da imposte industriali, commerciali e da imposizioni doganali all’esportazione; il Paese
viene, inoltre, aperto al commercio internazionale tramite l’abbattimento progressivo degli ostacoli,
tariffari e non, ad importazioni ed esportazioni.
La seconda ondata di riforme, focalizzata sulle aree urbane, ha avuto luogo a partire dal 1984:
1) concessione agli abitanti delle città delle libertà, già concesse ai contadini, di intraprendere
attività commerciali e di avviare imprese familiari;
2) professionalizzazione nella gestione delle imprese statali attraverso l’introduzione del principio
di responsabilità, primo passo di un processo di riforma che sta continuando ancora ai giorni nostri;
3) progressiva liberalizzazione dei prezzi dei beni di consumo.
Nel 1988, infine, dopo un periodo di agitazione economica e sociale legato alle forti spinte
inflazionistiche successive alla liberalizzazione dei prezzi e causato dalla rincorsa con i salari, a
causa del trauma provocato dal verificarsi di una sempre più marcata differenziazione sociale in una
società da sempre abituata all’uguaglianza nella povertà, ed infine a causa della divisione interna
del Partito in fazioni pro e contro l’apertura, il regime iniziò a percorrere una via moderata alle
riforme, la quale avrebbe costituito l’approccio che sarebbe stato seguito fino ai giorni nostri.
Infatti, nonostante la prova di forza di piazza Tiananmen, proseguì l’apertura economica attraverso
le ZES, le cui performances economiche furono ragguardevoli; inoltre, nel 1990 vennero aperte
borse valori a Shanghai e Shenzhen, e due anni dopo il settore dei servizi venne aperto agli
investimenti esteri. Dal 1994 in poi, con il passaggio di poteri a Jiang Zemin e la successiva morte,
nel 1997, di Deng Xiaoping, si parla di storia dei nostri giorni.
speranza in vita di uomini e donne, sono che: 1) oggi il numero degli uomini supera quello delle donne, tranne che nella
categoria degli over 60; 2) il tasso d’incremento della categoria di persone over 65 è da tempo superiore a quello della
categoria di persone tra 15 e 64 anni; 3) la categoria di persone tra 0 e 14 anni è in diminuzione in valore assoluto
(Rosen, 2003; China Statistical Yearbook, 2001).
12
I risultati di questo lungo percorso.
Come si presenta la Cina contemporanea ai nostri occhi? Innanzitutto, per i motivi
precedentemente esposti, si presenta con una popolazione il cui ammontare tende a stabilizzarsi e
che sempre più si trasferisce dalle campagne alle città. Quest’ultimo fenomeno, normale
conseguenza che si osserva nei Paesi che sperimentano processi di sviluppo, ha iniziato a verificarsi
dalla fine degli anni Novanta specialmente per il rilassamento della politica di controlli sulle
migrazioni interne, ed è stato sia causa che conseguenza della nascita di nuove città. Soprattutto, è
un fenomeno che è destinato ad acquisire enormi dimensioni mano a mano che la Cina diventa
sempre più ricca, dato che attualmente ancora il 60% della popolazione vive nelle campagne.
Una ulteriore conseguenza dell’urbanizzazione è l’aumento dei consumi e della domanda dei
beni necessari alla vita di città, ma ciò non avrebbe potuto accadere senza la forte crescita dei
redditi individuali. E allora ecco un po’ di cifre sul “miracolo” economico cinese: 1) a livello
internazionale, è la domanda cinese che determina le quotazioni di moltissime risorse, dal rame al
nichel, platino, alluminio, stagno, petrolio, dal caucciù al cotone ed alla lana; 2) a livello interno, un
PIL che a livello nazionale in 25 anni è quasi quintuplicato, attestandosi al 2003 intorno ai 1.450
miliardi di dollari e facendo registrare una crescita media annua tra il 9 e il 10%; 3) un PIL pro
capite, anch’esso a prezzi correnti, che è cresciuto dai 250 dollari del 1978 a circa 1.050 dollari
5
del
2003 ed una quota della ricchezza mondiale che si aggira sul 4% (nel 1978 era solo lo 0,8%), ancora
molto poco in termini relativi e rispetto ai Paesi più avanzati (basti tenere in conto che la quota
dell’economia mondiale rappresentata dal Giappone è di circa il 12%), ma molto se si guarda in
un’ottica di lungo periodo e se si pensa che dall’inizio dell’attuazione della politica voluta da Deng
Xiaoping circa 270 milioni di persone non vivono più con meno di 1 dollaro al giorno e che il
reddito pro-capite residuale (vale a dire, depurato dall’imposizione fiscale diretta) è aumentato più
di cinque volte sia per le famiglie cittadine che per quelle urbane (Weber, 2003; Lardy, 2004).
Questa crescita economica è stata, però, molto squilibrata sia a livello regionale che alla luce
di un confronto tra campagna e città.
5
Ovviamente, i dati medi e la nozione egualitaria che se ne ricava va presa con le molle. Non solo, infatti, i dati
statistici rivelano che la famiglia cinese risulta avere un potere d’acquisto del 28% superiore al reddito ufficiale, ma
occorre tenere in conto altri fattori socio-economici: le entrate dal lavoro sommerso, che oscillerebbero tra il 15 e il
35% del reddito individuale; la elevata propensione al risparmio dei cinesi, che mettono da parte circa il 40% del
proprio reddito annuo; la distribuzione di molti generi di prima necessità (trasporti, istruzione, alloggi, ecc.) gratuita od
a prezzi politici; il fiorire nelle città di un ceto manageriali che godrebbe di retribuzioni oscillanti tra i 500 e gli 800
dollari mensili (Weber, 2003; Dore, 2003; Domenach, 2003).
13
Nonostante sia indubbio che i redditi di tutti siano aumentati, il rapporto tra il reddito pro
capite della regione più ricca e quello della regione più povera è passato da un valore di 6 nel 1978
ad uno di 13 nel 2003; si calcola, inoltre, che le regioni situate nelle zone costiere, dove in gran
parte sono state situate le ZES, pur rappresentando una quota della popolazione totale che si aggira
intorno al 3% avrebbero prodotto e produrrebbero una quota pari al 10% della ricchezza nazionale;
d’altra parte, si ritiene che il 20% della popolazione cinese, che risiederebbe essenzialmente nelle
città, detenga il 47,5% del reddito nazionale (Dayal-Gulati e Husain, 2002; Domenach, 2003)
6
.
Tuttavia, non è solo né tanto la ricchezza ciò che attira l’attenzione sulla Cina di oggi, quanto
la sua notevole integrazione coi mercati mondiali. Innanzitutto, l’economia cinese attualmente (ma
con il passare del tempo lo sarà probabilmente sempre meno) si presenta fortemente complementare
a quella dei Paesi sviluppati, in quanto la Cina eccelle in quei prodotti manufatti che i Paesi
industrialmente avanzati non sono più in grado di produrre a costi competitivi e, quindi, già
importano da altri Paesi in cui la manodopera costa poco. Così, non solo l’economia cinese
contribuisce ad aumentare il reddito dei Paesi più ricchi ma esporta anche poca inflazione in quanto
permette un ulteriore abbassamento dei costi a consumatori, rivenditori, produttori ed importatori.
Un indicatore fondamentale dell’alto grado di integrazione ed apertura verso l’estero
dell’economia cinese è un aumento notevole del valore del commercio con l’estero della Cina, con
una forza tale che si può tranquillamente ascrivere la Cina tra i Paesi che hanno seguito un modello
di crescita export-led
7
: innanzitutto, la Cina oggi è il terzo importatore mondiale di beni; in secondo
luogo, l’incidenza del commercio con l’estero sull’economia nazionale è aumentata notevolmente
passando da una quota inferiore al 10% del PIL nel 1979 fino ad oltrepassare oggi il 50%, una
percentuale tre volte superiore a quella degli Stati Uniti e pari a più del doppio di quella giapponese,
con le importazioni che rappresentano circa il 30% del suo PIL; inoltre, nel 2001 il valore totale del
commercio con l’estero ha per la prima volta toccato i 600 miliardi di dollari, moltiplicandosi di ben
27 volte rispetto a 20 anni prima; ancora, continuati nel tempo sono stati i surplus in bilancia dei
pagamenti fatti registrare dalla Cina, i quali nel 2002 e nel 2003 si sono pressoché stabilizzati
toccando rispettivamente i 30,3 e i 25,3 miliardi di dollari, livelli pressoché corrispondenti a quelli
6
Vi sono, tuttavia, anche indicazioni in senso contrario che le statistiche ufficiali non sono in grado di percepire, vale a
dire le rimesse di coloro che sono emigrati dalle regioni più povere a quelle più ricche, le quali cambiano le condizioni
delle province più arretrate e, di fatto, la distribuzione del reddito al loro interno.
7
Contrariamente a quanto sostengono molti, ad esempio Rosen (2003), il fatto che in Cina a crescenti livelli delle
esportazioni si accompagnassero elevate e crescenti importazioni non permette di inferire che lo sviluppo cinese non sia
stato guidato dalle esportazioni. Infatti, innanzitutto va ricordato che tale meccanismo mira, attraverso lo stimolo delle
esportazioni, a far sì che un paese acquisisca la valuta estera necessaria proprio per l’acquisto all’estero di beni
intermedi e mezzi di produzione indispensabili alla sua crescita. Proprio perciò, una politica di export-led di prodotti
manufatti, processati o assemblati, che hanno rappresentato e rappresentano la maggior parte delle esportazioni cinesi,
non implica affatto una politica di import-substitution nelle materie prime o nelle parti da assemblare o da processare.
Se così fosse, classici esempi di sviluppo trascinato da esportazioni quali Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e
Singapore non dovrebbero più essere considerati come tali.
14
fatti registrare nel 2004; infine, i volumi di importazioni ed esportazioni hanno fatto registrare
straordinari e continui incrementi (rispettivamente, in confronto al 1990 ad una media superiore al
15% e 20% annuo) , salvo un leggero rallentamento nel 1999 a causa della forte contrazione degli
scambi coi Paesi asiatici vittime della crisi del 1997, e nel 2003 si sono rispettivamente attestati a
strabilianti tassi d’incremento del +39,9 e +34,6% (Romiti, 2003; Lardy, 2003; Weber, 2003;
Prasad e Rumbaugh, 2003; U.S. EIA, 2004).
Ma la caratteristica che realmente distingue l’esperienza cinese, rispetto ad esempio allo
sviluppo trascinato dalle esportazioni avvenuto storicamente nella maggior parte delle economie del
sud-est asiatico, è l’elevato livello di concorrenza interna consentita. Mentre, infatti, nelle prime la
fase di decollo economico è stata caratterizzata dalla presenza di forti barriere alle importazioni e
agli investimenti dall’estero, in Cina si è assistito sin dai tempi di Deng ad un progressivo
ampliamento dei settori aperti agli investimenti esteri ed ad un abbattimento delle barriere tariffarie
e non, con i benefici di cui il sistema-paese Cina ha goduto principalmente in termini di spill-over di
conoscenze tecnologiche ed esperienze manageriali (efficienti modelli organizzativi e gestionali,
strategie multinazionali di business
8
). L’obiettivo era proprio quello di favorire la modernizzazione
del sistema economico ed imprenditoriale attraverso l’apertura agli investimenti diretti dall’estero, i
quali, affinché potessero assicurare all’economia cinese effettivi ritorni in termini di diffusione di
conoscenze, erano ammessi solo a condizione che gli investitori stranieri operassero in joint-venture
con imprese locali.
8
Un esempio di ciò e della volontà di perseguire una strategia di respiro globale è l’esperienza della Legend Computer
Systems, nata negli anni Ottanta dalla separazione di una branca dell’Accademia cinese e oggi divenuta leader asiatico
nella produzione di personal computer, la quale ha di recente aperto un laboratorio per la ricerca e lo sviluppo
scientifico in California per utilizzarlo come listening post, ossia come canale per cogliere le novità che circolano nella
Silicon Valley. Decisioni di questo tipo sono state prese anche da altre aziende cinesi. Sempre per quanto riguarda la
Legend, un evento emblematico del suo successo internazionale è stato la sua recente acquisizione dell’intero settore dei
personal computer dell’IBM.
15
2.2 La politica commerciale cinese.
Come accennato in precedenza, uno dei principali effetti della politica della “porta aperta” è
stato il forte incremento dei flussi commerciali, con l’aumento delle esportazioni che è stato
proporzionalmente maggiore rispetto alle importazioni, fatto che ha permesso alla Cina di far
registrare a partire dal 1995 surplus commerciali. Tale apertura non sarebbe stato possibile senza un
progressivo processo di sostituzione degli ostacoli non tariffari con barriere tariffarie e di
abbattimento e livellamento di queste ultime, in grandissima parte avvenuta prima dell’entrata del
Paese nell’Organizzazione Mondiale del Commercio: secondo fonti cinesi e di UNCTAD, WTO,
FMI e Banca Mondiale, dal 1982 al 2002 il livello medio tariffario è passato dal 55,6% al 12,3%,
percentuale quest’ultima che, se ponderata per il valore delle importazioni in ogni categoria
merceologica, scende al 6,4%; inoltre, c’è stato un maggior livellamento delle tariffe, dato che la
dispersione tariffaria
9
è scesa da circa il 30% del 1993 al 9,1% del 2002 (Tabella 2.2a; Rumbaugh e
Blancher, 2004).
Tabella 2.2a_Tariffe___________________
Media
Non
Ponderata
Media
Ponderata
Dispersione
Tariffaria
1982 55,6 … …
1985 43,3 … …
1988 43,7 … …
1991 44,1 … …
1992 42,9 40,6 …
1993 39,9 38,4 29,9
1994 36,3 35,5 27,9
1995 35,2 26,8 …
1996 23,6 22,6 17,4
1997 17,6 16,0 13,0
1998 17,5 15,7 13,0
2000 16,4 … …
2001 15,3 9,1 12,1
2002 12,3 6,4 9,1
Fonte: Rumbaugh e Blancher (2004).
9
La dispersione tariffaria è la differenza tra la tariffa in assoluto più elevata e quella in assoluto più bassa tra quelle
applicate nei vari settori merceologici.
16
A ciò si aggiunga che la legislazione cinese attualmente vigente prevede l’esenzione dai dazi
doganali all’importazione su macchinari ed apparecchiature acquistati all’estero da imprese
interamente straniere od in joint-ventures, nonché nel caso delle parti e delle componenti assemblati
in prodotti finiti e destinati alla reesportazione.
La caratteristica fondamentale che stanno sempre più assumendo le importazioni cinesi è
quella di consistere di componenti e prodotti che, una volta sottoposti ad assemblaggio o
trasformazione, sono destinate alla re-esportazione. Questa, più che essere la conseguenza diretta di
una politica governativa ad hoc volta ad incentivare lo sfruttamento di certe peculiarità della
manodopera locale al fine di acquisire un definito ruolo nell’economia mondiale, sembra invece
interamente frutto delle decisioni delle imprese straniere di delocalizzare i processi produttivi più
capital-intensive in Cina e del loro successo nel mettere in competizione reciproca le varie province
cinesi ottenendo condizioni meno stringenti e favorevoli al loro investimento. Di fatto, le imprese
straniere che hanno necessità di abbassare i propri costi di produzione sono consapevoli che
andando in Cina possono sostituire i processi che richiedono l’utilizzo di capitale con un elevato
impiego di manodopera molto laboriosa, tecnicamente preparata e a basso costo. Si pone, quindi, la
necessità di indagare quale sia la posizione che la Cina si appresta ad assumere nell’economia
mondiale.
La Cina nella divisione internazionale del lavoro.
Tale discorso non può che vertere su un punto fondamentale, vale a dire quale siano i vantaggi
competitivi del sistema economico cinese. Innanzitutto, il basso livello dei salari della sua forza
lavoro: nel 2003, infatti, il costo orario medio della manodopera si è attestato sui 70 centesimi di
dollaro all’ora, in costante aumento rispetto al livello del 1995, quando era di circa 30 centesimi
(Rosen, 2003), e nel settore statale il salario medio al netto dell’inflazione nel 2002 era tre volte e
mezzo quello del 1978 e due volte quello del 1992 (Lardy, 2004). La tendenza all’aumento dei
salari, che si sta verificando in misura più marcata nei centri costieri, è tuttavia ben controbilanciata
dall’ampia disponibilità di forza lavoro disoccupata, un’offerta che è destinata se non ad aumentare
quantomeno a restare stabile grazie al gioco di fattori che incentivano l’offerta, quali la crescente
migrazione dalle campagne, le politiche di ristrutturazione delle aziende di Stato e il conseguente
licenziamento di masse di lavoratori in eccesso, e fattori che spingono verso l’alto la domanda,
17
quali specialmente la crescente presenza di imprese interamente di proprietà straniera
10
: infatti,
l’aumento dell’occupazione nel settore non statale urbano è stato di circa 80 milioni di unità
nell’ultimo quinquennio (Boltho, 2003)
11
.
Nonostante ciò, non è questa la caratteristica che in assoluto rende più vantaggioso l’utilizzo
della manodopera cinese: se si guardasse solamente al costo orario del lavoro, si potrebbe
tranquillamente notare come almeno Indonesia (0,45), Filippine (0,75) ed India (0,80) non
sarebbero in una posizione di svantaggio rispetto alla Cina (Rosen, 2003). In realtà, ciò che
veramente attrae della forza lavoro cinese è la sua innata laboriosità
12
, alla quale si somma la
capacità di sostituire nel processo di produzione la componente tecnologica e di capitale con una
quantità di lavoro che nei Paesi industrializzati sarebbe insostenibile da utilizzare, dato l’elevato
costo che lì quest’operazione implicherebbe. Proprio questa osservazione conduce direttamente
all’analisi della trasformazione del ruolo della Cina nell’economia mondiale. Infatti, da semplice
paese esportatore di prodotti ad alta intensità di lavoro il Paese si sta specializzando nelle attività di
assemblaggio, processing e re-esportazione di componenti e prodotti non solo low-tech ma sempre
più high-tech. Questi cambiamenti, che riflettono un sempre maggiore sfruttamento del vantaggio
competitivo cinese, sono testimoniati dal progressivo mutamento nella composizione merceologica
delle esportazioni e delle importazioni cinesi.
10
L’arretramento della presenza statale nell’economia e l’incremento della componente privata risulta avere un effetto
ambivalente sul livello reale dei salari: se da una parte tale fenomeno contribuisce alla crescita delle remunerazioni
poiché le imprese private offrono ai lavoratori cinesi salari maggiori di circa il 30% rispetto a quelli offerti dalle
imprese pubbliche, da un altro punto di vista non bisogna dimenticare il fatto che le imprese private, diversamente da
quelle statali, non garantiscono ai propri lavoratori alcuna protezione in termini di servizi sociali gratuiti, il cui costo
quindi deve essere conteggiato nei salari dei dipendenti privati, anche se offrono loro migliori standard in termini di
sicurezza e salubrità del posto di lavoro.
11
Interessante, in proposito, è il sistema cinese di definizione dei minimi salariali: ogni città, ed addirittura ogni
quartiere, può stabilire la propria quota, a cadenza mensile, in base ad un parametro deciso dal governo di Pechino ed
aggiornato annualmente che tenga conto di fattori come il costo locale della vita, la media dei salari ed il tasso
d’inflazione. Come esempio generale della distribuzione dei salari si può utilizzare la città di Shenzhen, città creata dal
nulla all’inizio della politica della “porta aperta” ed oggi ha quasi 3 milioni di abitanti, la quale nel 2001 aveva due
diversi standards: la zona più interna, cuore commerciale della città, faceva registrare i più alti salari minimi dell’intero
Paese, pari a 72 dollari mensili, mentre nella periferia industrializzata le retribuzioni minime si aggiravano sui 55 dollari
al mese. Ma i livelli possono scendere ancora a causa del fatto per cui le amministrazioni locali tentano di attirare gli
investitori promettendo salari inferiori alle soglie stabilite.
12
Ross e Chan (2002) mostrano che nel settore calzaturiero il numero medio delle ore giornalmente lavorate dagli
operai è pari ad undici.