3
media ad opera della televisione - che ora vede anch’essa, pian piano, declinare la sua
supremazia - è ancora uno degli strumenti di comunicazione più utilizzati dalla
Chiesa, la quale può contare molte più emittenti radiofoniche di ispirazione cristiana
rispetto a quelle televisive. Un altro esempio a sostegno di quanto detto sono i
numerosissimi libri di orientamento religioso che vengono pubblicati ogni anno; un
primato che rende le case editrici cristiane fra le più attive dell’universo editoriale:
tutto questo nonostante il libro non sia più un medium principe e nonostante si legga
notoriamente sempre di meno, soprattutto in Italia.
Tornando però alla radio, i motivi che la rendono così appetibile agli occhi della
Chiesa sono diversi: innanzitutto il fatto che, essendo un medium “mobile”, è in grado
di portare a chiunque e in qualsiasi momento della giornata - quando si è in casa a
cucinare, quando si sta guidando, lavorando, mangiando, facendo ginnastica etc… - il
messaggio evangelico; poi il fatto che la radio, a differenza di altri media più
complessi e costosi (come la televisione e il computer) può raggiungere tutti (o quasi)
gli angoli della terra, da quelli più ricchi e popolosi a quelli più poveri e deserti; poi il
fatto che, essendo facile da usare - basta schiacciare un interruttore - non necessita di
una grande esperienza per essere “messa in moto”; infine il fatto che è un medium
“economico” e che quindi gli impianti necessari per la trasmissione costano poco, un
vantaggio soprattutto per i piccoli gruppi, come parrocchie e missioni, che non hanno
ingenti risorse finanziarie a disposizione.
La radio, insomma, è un medium universale, che risponde perfettamente alle
caratteristiche della Chiesa, la quale è, per sua natura, un’istituzione universale. È per
questo motivo che ho scelto di occuparmi di Chiesa e radio: spero, con il mio lavoro -
che tenta di fare un po’ d’ordine in un campo molto ampio ed ancora poco studiato - di
dimostrare come la radio sia un esempio della tendenza che ha la Religione Cristiana a
fare uso dei media – e non solo di quelli dominanti, ma, come ho detto prima, di tutti
quelli che sono disponibili di tempo in tempo2 – e come questa tendenza sia dovuta ad
2
I media dominanti, quelli che non lo sono più, ma anche i nuovi media (che promettono di assumere
presto il predominio). I nuovi media, però, per diventare strumenti di evangelizzazione, devono prima
farsi accettare dalla Chiesa, che è diffidente nei loro confronti: ecco perché le gerarchie ecclesiastiche
si presentano, come vedremo, inizialmente ostili nei confronti di radio e televisione. I “tempi di
accettazione” di un nuovo medium da parte della Chiesa sono generalmente piuttosto lunghi, come è
4
un’indole innata nel Cristianesimo, ossia quella di comunicare con ogni mezzo e a
tutti.
Il mio lavoro ha un’impostazione storica: prende quindi in esame l’evoluzione di
molte emittenti religiose nel corso del tempo. Ho deciso di scegliere questa
metodologia per esaminare come cambiano i linguaggi, i palinsesti, le dimensioni
delle stazioni radiofoniche cristiane al mutare dei contesti sociali, politici, legislativi;
per osservare anche, quindi, come la Chiesa si aggiorna e di conseguenza aggiorna
anche i suoi strumenti per comunicare alla gente.
Il testo è, inoltre, suddiviso in cinque capitoli: nel primo, introduttivo e di carattere
generale, vengono presi in esame alcuni documenti del Vaticano sui mezzi di
comunicazione, si fa una breve storia del rapporto fra cattolici e mass media e una
classificazione delle radio cristiane; nel secondo si delinea una panoramica delle
emittenti di questo tipo presenti nel mondo; nel terzo si passa invece dal globale al
locale, tracciando un identikit dei consorzi e dei network italiani e tratteggiando la
storia della radiofonia cristiana a Torino e provincia, attraverso le vicende di tre
emittenti, ossia Radio Proposta, Radio Nichelino Comunità e Susa Onda Radio; nel
quarto l’obbiettivo si allarga nuovamente, per delineare la storia della
programmazione religiosa a diffusione nazionale, dalla Rai, a Radio Maria, a Radio
Mater; nel quinto, infine, si racconta il cammino della Radio Vaticana dal 1931 ad
oggi, focalizzando lo sguardo soprattutto sui cambiamenti avvenuti durante i
Pontificati di Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Un’ultima precisazione: il mi o lavoro si concentra sulle emittenti radiofoniche
cattoliche e accenna solo talvolta, molto brevemente, alla realtà delle emittenti
radiofoniche evangeliche o afferenti ad altre confessioni riformate. Quest’ultima è,
infatti, una realtà così vasta che occorrerebbe un’analisi separata per poterla descrivere
al meglio.
avvenuto nel caso del teatro e del cinema. Ci sono, però, delle eccezioni: internet, ad esempio, che è
quasi subito stato utilizzato come strumento di comunicazione religiosa. I “tempi di accettazione” di
un nuovo medium dipendono sia dalle caratteristiche specifiche di quel medium - se si adattano di più
o di meno alla missione della Chiesa - sia dalle norme di legge che ne regolano l’utilizzo.
5
1. COMUNICARE IL CATTOLICESIMO
1.1 - Vaticano, cattolici e mass media
Il 26 novembre 1763, con l’enciclica Christianae rei publicae salus, il Pontefice
Clemente XIII condanna senza appello i media del tempo, definendoli strumenti di
«immoralità insolente e spaventosa»3.
Una posizione leggermente più positiva nei confronti della modernità è contenuta, un
secolo e mezzo dopo, nell’enciclica Rerum Novarum (1891) di Leone XIII; un
Pontefice che Pio X ricorda come «primo Papa della stampa», visto il suo impegno per
il reclutamento dei primi giornalisti cattolici.
Nonostante rare eccezioni, nella prima metà del XX Secolo l’atteggiamento della
Chiesa nei confronti dei mass media rimane però caratterizzato non solo dalla
diffidenza e dall’intransigenza, ma anche dalla vera e propria paura. Il modello
diventa, così, quello largamente collaudato sotto il fascismo dal Centro Cattolico
Cinematografico, che non esita a mettere in pratica il controllo della produzione
filmica, mediante la pubblicazione di elenchi con i giudizi morali per ogni pellicola. Si
può quindi affermare che, quando esordiscono e cominciano ad affermarsi i mezzi di
comunicazione di massa, le gerarchie ecclesiastiche non intravedono subito la loro
straordinaria potenzialità evangelizzatrice; si dimostrano, al contrario, più preoccupate
per gli effetti negativi che possono avere sui fedeli.
Bisogna tuttavia riconoscere che, anche prima della Seconda Guerra Mondiale, non
mancano alcuni segnali di apertura nei confronti dei media. Papa Pio XI, ad esempio,
non vede i media esclusivamente come una minaccia; è lui, del resto, a dare i natali
alla Radio Vaticana nel 1931. Pio XI dà poi un contributo fondamentale alla
fondazione del Bureau Catholique International de la radio (in seguito Unda), nel
1934. La sua politica è, però, ambigua: infatti, nella Divini illius magistri (1929), le
3
Clemente XIII, Christianae rei publicae salus,1763
6
«radiophonicae auditiones» sono sì considerate mezzi che offrono «grandi possibilità
nell’istruzione e nell’educazio ne», ma che possono anche portare a «naufragi religiosi
e morali»4; sotto il suo pontificato, inoltre, sia il Sant’Uffizio (1927 -28) sia la Sacra
Congregazione dei Riti (1936) decidono di vietare per ben due volte la trasmissione
via radio delle funzioni liturgiche. Pio XI interviene anche in materia di cinema: nel
1936, infatti, scrive un’enciclica, la Vigilanti cura, in cui elargisce lodi all’iniziativa
americana della Legion of Decency, che aveva unito vescovi e fedeli cattolici in quella
che il Papa definisce una «santa crociata»5 contro i film che mostravano scene di sesso
e violenza.
Finita la guerra, la Chiesa continua, però, a guardare ai media con paura. Negli Anni
Cinquanta arriva, quasi ovunque, la televisione: un medium giudicato ancora più
pericoloso, in quanto, attraverso le immagini, rischia di esporre ulteriormente la gente
allo scandalo. Il concetto di scandalo si riferisce alla visione di qualcosa di
perturbante, in grado di minare la coscienza delle persone. La Chiesa considera un
proprio dovere fare di tutto per evitare lo scandalo: ecco perché, negli anni che vanno
dal 1953 al 1957, in Rai si raggiunge il massimo grado di controllo da parte delle
gerarchie ecclesiastiche (a tal punto che presso il Servizio Pubblico opera persino un
cappellano col compito di censore). Un altro dovere al quale la Chiesa sente di dover
ottemperare ad ogni costo è quello di fermare la secolarizzazione dilagante; anche per
questo motivo la Rai è posta sotto la severa vigilanza della “barca di Pietro”: si vuole
evitare che la radio (e soprattutto la tv) pubblica favoriscano il processo di
laicizzazione della società.
Provando terrore nei loro confronti, la Chiesa non è quindi ancora in grado di capire
che può utilizzare i mezzi di comunicazione a proprio vantaggio. Va in
controtendenza, a metà degli Anni Cinquanta, Don Giacomo Alberione, il quale fonda
“Famiglia Cristiana”, il primo giornale (per la verità settimanale) che cerca di
coniugare il cristianesimo e la quotidianità delle persone, abbandonando una troppo
insistente informazione clericale e religiosa che ai laici non interessa più: «La gente
4
Pio XI, Divini illius magistri, 1929
5
Pio XI, Vigilanti cura, 1936
7
non può più stare troppo tempo in chiesa» ama ripetere Don Alberione «il mondo è
cambiato».
Nel 1954 Papa Pio XII (il Pontefice che proclama San Gabriele Arcangelo patrono
della radio) estende le competenze della Pontificia Commissione per la
Cinematografia anche alla Radio e alla Televisione; firma poi, nel 1957, l’enciclica
Miranda prorsus, nella quale individua precisi doveri sia per l’una sia per l’altra. La
Miranda prorsus è però un messaggio che tende ancora troppo a “mettere in guardia”
piuttosto che a proporre soluzioni nuove: viene infatti messo all’indice il cinema
“cattivo” e l’eccessivo accesso dei bambini alla tv.
Sono però gli ultimi fuochi di un integralismo destinato presto a spegnersi: l’8
dicembre 1963, infatti, viene approvato dal Concilio Vaticano II il decreto Inter
mirifica, la definitiva summa del magistero della Chiesa in materia di comunicazione
sociale. È un passo importante, perché, se con il Concilio Vaticano II la Chiesa accetta
per la prima volta il processo di secolarizzazione della società, con l’Inter mirifica
essa accetta - per ora con riserva - anche i media, cessando parzialmente di averne
paura. Il documento, inoltre, tratta di tutti insieme i mass media come unicum
socioculturale e pastorale; indica, inoltre, come dovere dei vescovi, quello di
utilizzarli per la loro predicazione, facendone anche materia d’insegnamento nelle
scuole e nella catechesi ordinaria; propone, infine, l’istituz ione di una “Giornata
Mondiale delle Comunicazioni Sociali”. Celebrata a partire dal 1966, la Giornata
Mondiale diventerà presto la principale occasione in cui tutti i Papi, a partire da Paolo
VI, si esprimeranno in merito al tema del rapporto fra Chiesa e media: per questo i
messaggi papali, realizzati ogni anno per questa ricorrenza, vengono ritenuti un
preciso spaccato, nelle sue diverse fasi, dell’approccio del cattolicesimo nei confronti
della comunicazione sociale. I messaggi, generalmente legati a fatti di attualità, non
mancheranno mai di sottolineare la necessità di una comunicazione adeguata in merito
a questioni cruciali come la famiglia, i giovani, gli anziani, la pace, la giustizia, la
libertà umana, l’evangelizzazione e la riconciliazione.
Se il clero si muove a piccoli passi, attraverso documenti successivi, il mondo si
trasforma, però, molto più velocemente: a dimostrarlo sono gli stessi cristiani
8
impegnati nel sistema dei media, desiderosi di aperture più convinte e rapide da parte
del Vaticano. Nel 1966 padre Roberto Tucci, su “La Civiltà Cattolica”, scrive un
articolo dal titolo Libertà del giornalista cattolico ed autorità della Chiesa,
un’autentica affermazione del diritto alla libertà di opinione, espressione e dissenso da
parte dei giornalisti cattolici contro l’autoritarismo della curia romana e
dell’episcopato.
Ad imprimere un’ulteriore spinta verso il cambiamento ci pensa Papa Paolo VI, che
lavora fin da subito alla creazione di un giornale cattolico di prestigio e diffusione
nazionale, sul modello del francese “La Croix”: nasce così, alla fine degli Anni
Sessanta, “Avvenire”, un giornale che, per la prima volta, intende rivolgersi ad un
pubblico più ampio di quello dei soli praticanti. Si comincia inoltre, con Paolo VI, a
parlare di etica della comunicazione e di comunicazione come servizio da rendere alla
società: i media cattolici, di conseguenza, non vengono più visti esclusivamente come
uno strumento di difesa contro i tentativi di emarginazione della Chiesa operati dalla
moderna società del consumo.
Papa Paolo VI è però ricordato anche per un altro importante passo: la pubblicazione
dell’istruzione pastorale Communio et progressio (1971). In essa i media vengono
definiti «strumenti preparati dalla Provvidenza di Dio per facilitare l’unione fra gli
uomini»6. Nell’istruzione pastorale, inoltre, viene ribadita la necessità di esprimersi
con un linguaggio appropriato quando si fa uso dei mezzi di comunicazione di massa:
«altro è infatti il linguaggio loro» sostiene la Communio et Progressio «altro è quello
del pubblico tradizionale»7. Nel documento viene anche riconosciuta la specificità di
ogni singolo medium, nonché la necessità di una formazione tecnica per gli operatori
cristiani; si dice infatti che «l’annuncio salvifico deve tener e conto dell’indole
particolare dei singoli strumenti»8 e che coloro i quali fanno uso di essi devono essere
scelti «con massima prudenza e cautela, previa un’adeguata preparazione teorico -
tecnica e pratica»9.
6
Paolo VI, Communio et Progressio, 1971, 12
7
Ivi, 128
8
Ibidem
9
Ibidem
9
La Communio et progressio inaugura gli Anni Settanta, un decennio molto importante
per i media cattolici: in questo periodo, infatti, si troveranno in prima linea nella
battaglia referendaria contro il divorzio e l’aborto. Verrà approvata, nel 1975, la legge
di riforma della Rai, grazie alla quale i cattolici (attraverso la Democrazia Cristiana)
riusciranno a conquistare il controllo di un’emittente televisiva pubblica, Rai Uno.
Nasceranno, inoltre, le radio e le tv libere, aprendo alla Chiesa la possibilità di far
sorgere nuove emittenti cristiane anche a livello locale; il loro numero continuerà in
seguito ad aumentare fino al 1990, quando, con la Legge Mammì, molte saranno
costrette alla chiusura. Per testimoniare la straordinaria vitalità del settore mediatico
cattolico, basti sapere che, proprio nel periodo in cui Silvio Berlusconi sta iniziando la
sua ascesa, si discute in Italia della possibile creazione di una rete televisiva privata
alternativa, a diffusione nazionale e ad ispirazione cristiana.
Dopo la Communio et progressio, Paolo VI firma un nuovo importante documento
legato ai media, l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi, datata 8 dicembre 1975.
In essa il Papa afferma che «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al suo Signore
se non adoperasse tutti i mezzi dell’intelligenza uman a ogni giorno più perfezionati»10.
L’avvento al soglio di Pietro di un Pontefice fortemente “mediatico”, Giovanni Paolo
II, dà un ulteriore impulso all’impegno dei cattolici all’interno dei mezzi di
comunicazione di massa: a suo avviso, infatti, nell’epoca moderna il messaggio
cristiano è ancora forte e spetta ai media il compito di diffonderlo in tutto il mondo.
A un anno esatto dalla sua elezione, il 16 ottobre 1979, Wojtyla pubblica l’esortazione
apostolica Catechesi tradendae, dove un intero capitolo, il sesto, è dedicato ai media:
per la prima volta la «comunicazione di gruppo» viene indicata come la via della
nuova catechesi.
A questo documento faranno seguito: un’altra esortazione apostolica, la Christifideles
laici (30 dicembre 1988), nella quale la comunicazione sociale viene definita una
«nuova frontiera della missione della Chiesa»11; l’enciclica Redemptoris missio (7
dicembre 1990), in cui si afferma che i media «non basta usarli per diffondere il
messaggio cristiano e il magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio
10
Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 1975, 45
11
Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 1988, 44
10
stesso in questa “nuova cultura”» ossia quella del “villaggio globale” «creata dalla
comunicazione moderna»12; l’esortazione Ecclesia in Africa (14 settembre 1995),
nella quale la comunicazione sociale è fatta rientrare nelle sfide che la Chiesa dovrà
affrontare per l’evangelizzazione in Africa.
Lo scritto di Wojtyla senza dubbio più interessante, però, riguardante i media è
l’istruzione pastorale Aetatis novae, del 22 febbraio 1992. A trent’anni dal Concilio
Vaticano II, il documento ne conferma le conquiste, esprimendo anche una chiara
volontà di impegno operativo: vengono infatti date in appendice alcune istruzioni per
la progettazione pastorale della comunicazione sociale, sia a livello diocesano che
nazionale. Si propone la valorizzazione delle persone presenti sul territorio (e in
particolare dei professionisti cattolici), una politica formativa sui media e la
collaborazione con i centri di studio e di ricerca. L’intento è, insomma, quello di
passare definitivamente dalla teoria alla pratica: per questo l’Aetatis Novae chiede una
«mobilitazione delle responsabilità» da parte dell’intera Chiesa mondiale, così da far
decollare la comunicazione sociale ovunque, una volta per tutte; un documento,
insomma, diretto più al resto del mondo che all’Italia, dove l’iniziativa cattolica nei
media era già da qualche decennio, come abbiamo visto, piuttosto attiva. Con questo
testo si chiude il lungo ciclo di documenti pontifici sui media ispirati dal Concilio.
Non ce n’è, del resto, più b isogno: ora infatti, all’interno della Chiesa, una corrente
largamente maggioritaria esprime fiducia ed ottimismo nei confronti dei mezzi di
comunicazione di massa. Non è difficile rendersene conto; basta leggere il titolo del
messaggio pontificio per la “Giornata Mondiale della Comunicazione Sociale” del 24
gennaio 1999, «Mass media: una presenza amica»; basta leggere una lettera - Il lembo
del mantello (1991) - dell’ex arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini,
secondo il quale la comunicazione «può essere lo strumento di un cammino della
massa verso le persone»13: quindi, per questo motivo, «la Chiesa deve praticarla»14,
entrando direttamente in tutti i media (senza però impadronirsene) così da influenzare
la produzione dei messaggi trasmessi.
12
Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 1990, 37
13
C. M. Martini, Il lembo del mantello, Centro ambrosiano editore, Milano, 1991
14
Ibidem
11
A partire dal 1990 la Cei (Conferenza Episcopale Italiana) - dopo un monito lanciato
dal suo segretario, mons. Camillo Ruini, il quale sprona i vescovi ad «investire nella
comunicazione e nei mezzi di comunicazione» - compie una serie importante di
azioni: il potenziamento di “Avvenire”, che raggiunge le 90.000 copie nel 1999;
l’istituzione della tv digitale via satellite Sat 2000 e dell’emittente radiofonica,
anch’essa via satellite, Blusat 2000 (poi ribattezzata In Blu); il rilancio, infine,
dell’agenzia giornalistica Sir (Servizio d’Informazione Religiosa). Tutte iniziative che,
coinvolgendo media vecchi e nuovi (fra cui la tv digitale e internet) testimoniano la
volontà della Chiesa di comunicare con il mondo a 360 gradi, ossia utilizzando, come
sostenuto nell’introduzione, tutti i mezzi a disposizione in un determinato periodo
storico, in questo caso il nostro.
Un sguardo merita, infine, il Messaggio di Papa Ratzinger in occasione della
Quarantesima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (28 maggio 2006):
costituisce, infatti, il primo vero documento di Benedetto XVI sul tema dei mezzi di
comunicazione di massa. Il Pontefice afferma che il loro compito è quello di
«contribuire costruttivamente alla diffusione di tutto quanto è buono e vero» senza
«adeguarsi a verità parziali e provvisorie»; i media devono, cioè, promuovere «la
ricerca e la diffusione di quello che è il senso ultimo dell’esistenza umana, personale e
sociale» ed essere «protagonisti della verità e promotori della pace che da essa
deriva». L’unica ricetta per portare a compimento questo difficile compito è, secondo
Papa Ratzinger, quella già indicata da Giovanni Paolo II e che si riassume in tre
parole: «formazione, partecipazione e dialogo». Benedetto XVI, nel suo documento,
mette però anche in guardia da quella che lui definisce «l’ambiguità dei mezzi di
comunicazione», vale a dire «le degenerazioni che si verificano quando l’industria dei
media diventa fine a se stessa, rivolta unicamente al guadagno, perdendo di vista il
senso di responsabilità nel servizio al bene comune». Il Santo Padre, ad esempio,
invita tutti i media a sostenere ed incoraggiare con più decisione la vita matrimoniale,
senza proporre, accanto alle immagini di famiglie felici, «espressioni di amore
degradanti o false».
12
Prima la Chiesa aveva paura dei media; negli ultimi anni del XX Secolo (e nei primi
del XXI) ha invece vissuto un’epoca di grande entusiasmo nei loro confronti (come
testimoniano anche le iniziative della Cei). Ora questo richiamo all’ambiguità dei
mezzi di comunicazione da parte di Benedetto XVI suona curioso: è forse l’inizio di
una nuova concezione cattolica dei media, oppure il Papa finirà lo stesso per
abbracciare il pensiero positivo di Wojtyla nei confronti di questi strumenti? Per ora
sembra che, dopo qualche incertezza, Joseph Ratzinger abbia intrapreso la stessa
strada del suo predecessore. Se cambierà idea avremo solamente modo di scoprirlo nei
prossimi anni del suo pontificato.
1.2 - Le radio e le televisioni cristiane: una classificazione
Dopo una breve panoramica sui documenti della Santa Sede legati ai media e sulla
storia del rapporto fra cattolici e mezzi di comunicazione di massa, torniamo a parlare
di radio, presentando una classificazione delle emittenti radiotelevisive cristiane
proposta da Robert White15 (docente di Teoria e Pastorale della Comunicazione
Sociale presso la Pontificia Università Gregoriana) al 1° Convegno «Mass media e
religione», tenutosi a Roma dall’8 al 10 dicembre 1989. White distingue quattro
modelli di emittenza religiosa:
a) Le trasmissioni cristiane in onda sulle reti pubbliche di un sistema
radiotelevisivo nazionale.
b) Le trasmissioni cristiane facenti capo a movimenti fondamentalisti di
rinascita religiosa.
c) Le trasmissioni dipendenti dalla Chiesa istituzionale (ad esempio
quelle prodotte da una diocesi o da una parrocchia).
d) Le trasmissioni che danno “voce ai senza voce”, che si propongono,
cioè, di aiutare i poveri, gli oppressi, le minoranze.
15
Cfr. R. White, “Le trasmissioni religiose alla radio e in televisione oggi”, in F. Lever, I programmi
religiosi alla radio e alla televisione. Rassegna di esperienze e prospettive in Italia e in Europa,
Leumann, Elledici, 1991, pp.23-58
13
Al primo modello (a) possiamo ascrivere il rapporto di collaborazione instaurato fra
Rai e Vaticano, che di fatto esclude la presenza delle sette e limita fortemente quella
dell’ala evangelica sulle reti nazionali del servizio pubblico italiano. Questo tipo di
trasmissioni parte dal presupposto, secondo White, che determinati valori siano
importanti, condivisi e di conseguenza proponibili al pubblico; è dunque costante lo
stimolo alla riflessione e il tentativo di far maturare delle convinzioni alla gente.
Inoltre, i programmi afferenti a tale modello tentano di coinvolgere ogni spettatore, sia
egli impegnato, solo interessato o addirittura indifferente rispetto alla religione: per
raggiungere questo obiettivo danno spazio a diversi punti di vista; mettono poi in
evidenza i temi riguardanti la tolleranza, la mutua comprensione e l’ecumenismo;
personificano, inoltre, i contenuti, mettendo al centro storie di gente comune, che
racconta le gioie della propria esistenza, ma anche i propri problemi, mostrando come
è riuscita ad affrontarli grazie alla forza della fede. Il servizio pubblico invita
generalmente la Chiesa a partecipare alla progettazione e alla produzione delle
trasmissioni, che non devono però mai fare proselitismo, bensì presentare la religione
come un annuncio, come fatto culturale in senso ampio. I problemi di questo modello
sono principalmente due: le trasmissioni religiose rischiano di diventare semplici
commenti socio-culturali annacquati e di non avere il coraggio di presentare
esplicitamente il messaggio religioso.
Passiamo ora al secondo modello (b). Secondo White, si può annoverare in esso
principalmente il lavoro dei fondamentalisti evangelici cristiani degli Stati Uniti. Nelle
loro trasmissioni la “teologia dell’annuncio” ha un’importanza chiave: l’annuncio
porta infatti al pentimento e dal pentimento nasce la conversione. Solo la parola di Dio
ha però il potere di convertire: il programma radiofonico o televisivo deve pertanto
essere una rivelazione letterale della Bibbia, da diffondere il più rapidamente e il più
ampiamente possibile. Per questo i media, strumenti di diffusione veloce e ad ampio
raggio delle informazioni, vengono ritenuti dagli evangelici un dono di Dio; anch’essi
hanno nutrito, però, per molti anni, delle riserve nei loro confronti. Centrale, in questo
modello, è la figura del predicatore: una figura carismatica, che si sente investita dalla
14
missione di rinnovare una fede che le Chiese istituzionali hanno fatto precipitare nella
routine e nell’indifferenza. Il predicatore è convinto di essere stato scelto da Dio: dà
così inizio alla sua opera senza un’autorizzazione ecclesiastica vera e propria; anzi,
trova anche da solo i finanziamenti di cui ha bisogno, arrivando a pagare i tempi di
trasmissione sulle radio e sulle tv private a prezzi competitivi con la pubblicità. La
ricerca di spazi sulle reti commerciali è una reazione alla scarsa attenzione che viene
data dal servizio pubblico alle confessioni riformate. Nei programmi religiosi di
questo tipo si punta molto sulla spettacolarizzazione (soprattutto in tv), stupendo il
pubblico con guarigioni in diretta, testimonianze di conversione personale (spesso di
personaggi famosi), grandiosi canti gospel rock, talk show e così via… Un gigantesco
varietà, insomma, dove però non manca mai il costante richiamo ad un codice morale
esigente e tradizionale. La religione, poi, è in questo caso presentata sotto forma di
messaggio autenticamente ed integralmente evangelico (poco indulgente nei confronti
della società moderna e secolarizzata), non come fatto culturale in senso ampio. Le
difficoltà di questo modello sono le seguenti: l’assenza di una Chiesa, intesa come
struttura decisionale e burocratica, lascia il pubblico senza protezione nei confronti di
tutti i falsi predicatori, vale a dire i ciarlatani; la necessità di adattarsi al mondo
radiotelevisivo commerciale porta spesso i movimenti evangelici ad adottare format di
programmi decisamente incompatibili con i valori religiosi; nella corsa ad aggiudicarsi
gli spazi di trasmissione, si possono creare conflitti tra gruppi religiosi, favorendo il
predominio di una sola tradizione.
Prima di proseguire è bene soffermarsi un attimo sulla radiotelevisione religiosa
evangelica, dando in proposito qualche informazione in più. Considerando il caso
degli Stati Uniti, dove questo fenomeno (che ha inizio nel 1930) è senz’altro più
diffuso, si può dire che fino agli Anni Sessanta i grandi network nazionali si mostrano
piuttosto restii a concedere spazio nei loro palinsesti ai predicatori pentecostali e
fondamentalisti: preferiscono dare visibilità alle organizzazioni ufficiali; in modo equo
a quelle protestanti, cattoliche ed ebree, per non fare favoritismi. I network
pretendono, inoltre, dai predicatori, la rinuncia ad ogni tipo di proselitismo e di
insegnamento dogmatico: una condizione per loro inaccettabile. Così i predicatori
15
decidono, per il momento, di tagliarsi fuori dal circuito dei grandi mass media
nazionali, rimanendo nelle piccole emittenti di provincia. Nel 1960, però, la Fcc
(organismo regolatore del sistema radiotelevisivo negli Stati Uniti) inaugura la
deregulation del settore: i programmi religiosi non vengono più considerati un
servizio pubblico che i network devono offrire gratuitamente; anzi, i network stessi
vengono autorizzati a vendere spazi finanziati dalla pubblicità ai vari gruppi religiosi.
Così ai predicatori viene aperta la strada alle reti radiotelevisive nazionali; e ben
presto superano, come numero di ore di trasmissione, le chiese istituzionali, molto
meno esperte nel raccogliere fondi. Per dare un’idea degli interessi in gioco, basta
presentare un dato: le somme investite per trasmettere programmi religiosi negli USA
crescono dal 58% nel 1959 al 92% nel 1977. La crescita prosegue poi anche negli
Anni Ottanta, mentre registra una battuta di arresto negli Anni Novanta, soprattutto
per gli scandali a sfondo sessuale che coinvolgono, in questo periodo, alcuni noti
predicatori, facendo quindi perdere credibilità all’intera categoria.
Al di là delle applicazioni pratiche nel mondo dei media, le chiese evangeliche hanno
pubblicato anch’esse dei docu menti sulla comunicazione, spesso più coraggiosi di
quelli della Chiesa cattolica. Il primo risale all’assemblea del Consiglio Ecumenico
delle Chiese (Cec), tenutasi a Uppsala (Svezia) nel 1968: in questo scritto viene
ribadito che film, romanzi e altri mezzi di comunicazione si prestano a trasmettere il
messaggio evangelico particolarmente bene, forse meglio rispetto ai mezzi tradizionali
delle chiese istituzionali; si mette però in guardia il pubblico da un abuso di tali
strumenti, perché possono far diventare la comunità anonima, passiva e invisibile. Un
altro documento in materia è uscito nel 1983, durante l’assemblea del Cec di
Vancouver (Canada): la comunicazione, si scrive, è efficace quando crea la comunità,
quando invita a condividere, come fece Gesù, la propria vita con quella degli altri. Da
qui nasce il primo dei cinque principi della comunicazione cristiana pubblicati nel
1986 dalla Wacc (World Association for Christian Communication): la comunicazione
cristiana deve costruire la comunità. Gli altri sono: la comunicazione cristiana è
partecipativa; è liberatrice; tutela e promuove tutte le culture; è profetica.
16
Chiusa la parentesi sulla radiotelevisione religiosa evangelica, è bene precisare che a
questo secondo modello appartengono non solo programmi evangelici, ma anche
cattolici, come Radio Maria (di cui si parlerà più avanti), che è in Italia (e non solo) il
punto di riferimento per chi nutre sentimenti fondamentalisti16. Le caratteristiche sono
però, in questo caso, radicalmente differenti rispetto all’evangelismo radiotelevisivo
americano: ad esempio, si ricorre assai meno alla spettacolarizzazione, anche se si
sottolinea molto l’elemento soprannaturale, come le apparizioni della Madonna e le
manifestazioni demoniache; le “folle oceaniche” riun ite dai predicatori, inoltre, sono
sostituite dalle telefonate in diretta degli ascoltatori da casa ed è questo il principale
strumento per creare comunità.
Eccoci al terzo modello (c). Esso si afferma quando cade il monopolio statale per le
trasmissioni via etere e tutti possono accedere alle licenze: nascono così delle
emittenti religiose nuove, soprattutto a livello locale, per insoddisfazione nei confronti
del servizio pubblico. Canali radiofonici e televisivi di questo tipo offrono un sostegno
ai piani pastorali di diocesi e parrocchie. Gli impianti sono di proprietà ecclesiastica;
talvolta se ne fanno carico alcune organizzazioni o movimenti religiosi. L’obiettivo
principale è quello di mettere in comunicazione i fedeli della Chiesa locale, per creare
in loro un senso di appartenenza e di reciproca solidarietà; i fedeli sono anche
incoraggiati a sentirsi proprietari dell’emittente e protagonisti nei processi decisionali
della comunità. I programmi che vanno in onda più di frequente sono: trasmissioni di
istruzione religiosa, preghiere, canti, meditazioni (spesso legate al giorno o al periodo
dell’anno liturgico), omelie, conversazioni spirituali, interventi esortativi o vere e
proprie campagne, informazione religiosa (anche se non esclusivamente) per lo più
locale, ma talvolta anche nazionale e internazionale, programmi di intrattenimento
normalmente (ma non solo) a sfondo religioso (ad esempio commedie e drammi
classici di valore morale). Il più delle volte, radio e tv locali trasmettono i programmi
prodotti da un consorzio di emittenti religiose, forniti loro a titolo gratuito per riempire
i palinsesti.
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Per non generare equivoci, è bene spiegare il significato del termine. Riferito alla religione, per
“fondamentalista” non si intende “terrorista”, bensì una persona che vuole recuperare i “fondamenti”
della propria fede, il suo messaggio originario che si è snaturato nel corso del tempo. La parola, qui,
non è quindi utilizzata con una connotazione negativa.