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PREMESSA
Che cos’è la “musica commerciale”? Cosa si intende quando ad un prodotto
musicale si attribuisce l’aggettivo “commerciale”? Perché il più delle volte
“commerciale” risulta essere una qualificazione peggiorativa, che designa
musiche di qualità inferiore e non degne di rientrare nel repertorio di un
(presunto) canone artistico? Ci sono parametri oggettivi, assoluti e condivisi
che distinguono musiche di qualità o “autentiche” da altre di tipo
“commerciale”? E perché, nonostante il termine ricorra frequentemente nel
discorso musicale (sia esso quello degli studiosi oppure quello di semplici
appassionati di musica), sembra che non ci sia una definizione univoca e
definitiva?
Attraverso una semplice ricerca nello sterminato mondo di internet
1
è
facilmente verificabile che tale questione è assai dibattuta, piena di
tendenze ed opinioni le più disparate possibili, ma che non per questo venga
raggiunta una “soluzione del problema”. Si potrebbe affermare, inoltre, con
un tono leggermente provocatorio, che la questione interessi più al normale
consumatore di musica che non allo studioso tout court.
Osservando la definizione proposta da Wikipedia (la più popolare
enciclopedia on-line) riguardo il termine “musica leggera”, si nota da subito
la sua equiparazione con un repertorio creato e promosso a scopo di
intrattenimento, tecnicamente poco elaborato e quindi destinato ad un
pubblico il più vasto possibile; la musica diventa un bene di mercato, una
merce di consumo:
«MUSICA LEGGERA. Viene abitualmente definita con il termine musica
leggera, musica pop, pop music (sinonimo inglese), o semplicemente pop, la
musica mainstream contemporanea, destinata ad un pubblico vasto quanto
più è possibile. L'espressione definisce un tipo di musica di facile ascolto e
poco elaborata, spesso ridotta a semplice intrattenimento e destinata al
consumo di massa.»
http://it.wikipedia.org/wiki/Musica_leggera
1
La ricerca è stata effettuata il 10 marzo 2011 tramite il sito Google, inserendo nel campo di
ricerca i termini “musica commerciale” definizione; sono stati quindi riportati i primi risultati,
tramite un criterio di scelta arbitrario e non utilizzando nessun tipo di metodologia scientifica.
Ove presente, è stato riportato il nome dell’autore del commento, mentre non sono stati
trascritti i nickname (nomi fittizi) degli altri interventi.
6
Stessa cosa per un utente di uno dei tanti blog musicali, per il quale il
termine “commerciale” (questa volta ben specificato) designa una serie di
musiche che hanno come obiettivo principale il massimizzare le vendite
piuttosto che la presentazione di un prodotto frutto di un processo artistico:
«a mio avviso il termine "commerciale" vuol dire tutto o niente e allo stesso
tempo può essere inteso in vari modi. se lo si intende esclusivamente come
"gruppo che spera di fare dei soldi con la propria musica" allora direi che il
99% dei gruppi è commerciale. Secondo me invece ha un altro significato che
prende vari fattori e li mette in un termine unico.. il termine commerciale che
mi piace usare può essere riassunto in "fare musica guardando più alle
vendite che alla musica in se".»
http://forum.virginradioitaly.it/posts/list/1336.page
Per un giornalista musicale di un noto quotidiano italiano, la «musica
cosiddetta commerciale» ha, per definizione, a che fare con il commercio:
«La riflessione scaturisce dal fatto che la musica in Italia avrebbe bisogno di
un grandissimo aiuto. Non si intende la musica cosiddetta commerciale che
per definizione ha a che fare con il commercio, quindi con i soldi e di
conseguenza gode di visibilità enorme (comunque, anche in questi ambienti
accadono cose tremende; anomalie come X-Factor danno ceffoni sonanti agli
artisti veri, quelli cioè che hanno vocazione sincera per la musica e non per il
successo televisivo, ossia quelli che hanno lavorato duramente sui propri
linguaggi artistici a dispetto delle avversità del mercato e della critica
dominante).»
Pasquale Rinaldis
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/10/11/il-peso-della-cultura/71034/
Si discosta in parte da questo parere un utente internet, secondo cui, oltre
all’attenzione per l’aspetto economico, “commerciale” indica musiche
mancanti di ispirazione artistica, un atteggiamento questo che può risultare
nocivo anche per gli stessi ascoltatori, in quanto essi sono fruitori di modelli
comportamentali superficiali:
«La definizione di musica commerciale, per me, è: musica scritta all'interno di
un preciso quadro di marketing, priva NON DI VALORI, ma di ISPIRAZIONE
artistica. Scrivere una canzone con il preciso intento di incontrare i gusti della
7
massa e ottenere profitto da questo, secondo me, è il contrario
dell'ispirazione artistica e musicale, che invece dovrebbe muovere un artista
verso l'espressione dei propri pensieri e delle proprie sensazioni. Inoltre credo
che questo tipo di musica sia anche dannosa per la società intera,
proponendo una marea di superficialità come modelli di aspirazione per i
nuovi musicisti.»
http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20080109072655AADcJpB
C’è chi poi attribuisce al “commerciale” una valutazione di tipo tecnica, in
quanto il termine designerebbe musiche qualitativamente inferiori: allo
stesso tempo però, da un lato si riconosce che tutte le espressioni musicali
possono avere un carattere commerciale, e dall’altro che il termine in
questione può anche indicare un’offerta musicale destinata ad un «fruitore
diverso», cioè ad un ascoltatore con precisi gusti musicali:
«Mi sono sempre chiesto a che cosa ci si riferisca quando si parla di musica
commerciale. La definizione è a mio avviso errata in partenza perché ritengo
che tutta la musica si possa definire commerciale. E' ovvio che la musica
viene creata per essere poi venduta. Anche Ludovico [Einaudi] è commerciale
perciò, è inutile che fate quelle facce. […] Anche lui scrive musica per
vendere, ed è ovvio visto che la sua professione è quella. […] Allora cosa è
veramente da intendersi come musica commerciale? Credo che per
commerciale si intenda un genere facilotto, per esempio il classico tunz tunz
con il tipo che dice oh yeah a ritmo, ma non potrebbe essere semplicemente
un prodotto indirizzato verso un fruitore diverso?»
http://forumludovicoeinaudi.beatall.net/index.php?showtopic=1731
Un ultimo esempio si sofferma invece sulle capacità “informative” della
musica, qui definita “leggera”. L’autore rileva un ammanco di potenzialità
espressive, cioè la capacità di comunicare un contenuto, un significato: ciò
non azzera la dignità di tale repertorio, ma contribuisce a farne un prodotto
musicale avente una diversa modalità di comunicazione.
«La musica leggera comporta una valutazione estetica, ma il momento
musicale manca di una strutturazione espressiva in grado di fornire essa
stessa un processo significativo. Il potenziale di musicalità inteso come
aggregazione di elementi diversi, riconducibili in estrema sintesi a tutto ciò
che comporta espressione, è ridotto all’essenziale: non fornendo alla
“musica” gli elementi caratteristici in grado di possedere un valore
rappresentativo ed elaborativo. Così, staticizzando il discorso musicale e
8
rimandando ad altre componenti il valore informativo, in questo caso
contenuto nel testo di un cantautore, ci lasceremo trasportare da
un’emozione ancorata al testo.
Chiarisco che ciò non rende poco dignitosa la musica leggera, ma
semplicemente spiega la differente e la specifica modalità di comunicazione di
ciò che mi piace definire come “assolutamente” musicale.»
Giuseppe Costa
http://musicaemusicologia.wordpress.com/2010/10/10/musica-significativa/
Se sfogliassimo poi le pagine di uno degli strumenti di ricerca musicologica
più popolari, La Nuova Enciclopedia della Musica Garzanti, alla voce musica
leggera
2
potremmo constatare un tono molto vicino alle posizioni espresse
dai vari utenti internet sopra citati:
«L’espressione “musica leggera” definisce tutta quella musica intesa e fruita
come svago e divertimento in contrapposizione alla musica colta o seria, alla
musica popolare, al jazz. […] Le esigenze proprie della produzione di massa si
traducono generalmente in un livellamento verso il basso della qualità, in una
limitazione della varietà delle forme musicali e delle tematiche»
[Aa. Vv., 1989: 879]
I pochi e semplici interrogativi iniziali nascono dall’intenzione di indagare un
campo della produzione musicale che, secondo il nostro parere, non ha
prodotto una riflessione complessiva e soddisfacente. “Commerciale” risulta
essere ancora un termine, un aggettivo, un settore della popular music
troppo vago, troppo soggetto a considerazioni insufficienti e personalistiche,
lontane da quella pretesa scientificità e dal riconoscimento accademico che
gli studiosi di questo ambito artistico rivendicano a gran voce,
3
ma che
sembrano dimenticare di applicare in casi come questo. «[…] nonostante gli
sviluppi incoraggianti degli ultimi anni, lo studio della popular music è
ancora pressoché agli inizi. La musicologia tradizionale continua a ignorare
la popular music perché è di “scarsa qualità”, mentre il campo relativamente
2
L’unico capitolo riservato, in questa edizione delle Garzantine, alla popular music è appunto
quello dedicato alla musica leggera (manca un riferimento diretto al termine “commerciale”,
ma l’interpretazione data risente della convinzione che la musica leggera sia un semplice
bene di consumo, sottoposto a regole di mercato); l’edizione successiva (1996) è mancante
di qualsiasi voce relativa alla popular music, scelta motivata dai curatori con il limitato spazio
a disposizione, che non avrebbe garantito un’adeguata trattazione dell’argomento.
3
In merito al discorso sul riconoscimento accademico dei popular music studies in Italia, cfr.
“Studiare la popular music in Italia”, [Fabbri, 2005: 61-73]
9
recente di studi culturali la trascura perché la musica in sé è talmente
speciale da renderla un soggetto proibitivo.» [Middleton, 2007: 13].
Allo stesso tempo non si può più evitare di affrontare un discorso critico su
di un repertorio che, piaccia o meno, rappresenta pur sempre la stragrande
quantità di musica prodotta attualmente, in particolare nell’ambito della
popular music: «È quasi impossibile evitare la popular music. Sia che si
passi accanto ad un impianto stereo al supermercato locale o che si sposti il
sintonizzatore dell’autoradio in cerca del più aggiornato bollettino per il
pendolare, essa è sempre presente. La popular music è ovunque. La si
potrebbe chiamare un sintomo di “inquinamento acustico”» [cit. in
Santoianni, 1993: 34].
La pretesa non è quella di proporre una versione definitiva e dogmatica,
quanto di verificare (a livello diacronico) l’evoluzione del discorso su tale
questione, cioè di ripercorrere storicamente le tappe principali che hanno
provocato una determinata connotazione del termine “commerciale”,
cercando di evidenziare i momenti principali in cui la discussione intorno a
questa tematica ha prodotto le riflessioni più notevoli. Inoltre, in questo
lavoro si vogliono confrontare (a livello sincronico) quelle che risultano
essere le tendenze in atto, cioè le modalità e le occasioni di utilizzo di tale
termine, da parte del mondo accademico (o comunque degli studiosi), ma
anche da parte di chi ne rappresenta il fruitore primo, cioè i “produttori”
(musicisti) e i “consumatori” (il pubblico) di musica.
10
INTRODUZIONE
Il termine popular music descrive un repertorio vastissimo e molto spesso di
difficile catalogazione, un repertorio che rappresenta la stragrande
maggioranza della produzione musicale attuale, una sommatoria di generi e
stili artistici che ha inglobato, all’interno di una matrice prevalentemente
occidentale, tradizioni delle più diverse aree culturali globali. Attraverso le
parole di Moore, conveniamo sul fatto che «L’espressione inglese popular
music indica quell’insieme di attività musicali comuni nel mondo
contemporaneo che va dalle canzoni al rock, dalla musica cinematografica e
televisiva al jazz» [Moore, 2006: 701].
È prassi convenzionale far risalire alla metà del XIX secolo il formalizzarsi di
«condizioni di una separazione funzionale, economica, ideologica, fra
musiche di intrattenimento da una parte e musiche d’arte […] dall’altra, e al
tempo stesso fra musiche popolari “commerciali” e tradizionali/rituali»
[Fabbri, 2008a: 3], comincia cioè a strutturasi e a diffondersi un mercato di
grandi dimensioni anche per quanto riguarda l’offerta musicale (è il periodo
che vede l’affermazione, in gran parte dell’Europa occidentale, della
Rivoluzione borghese); inoltre, «si può dire che alla dicotomia musica
colta/musica popolare si sostituisca progressivamente una tricotomia
musica colta/musica d’intrattenimento/musica popolare, dove la musica
d’intrattenimento incorpora elementi precedentemente categorizzati negli
altri due insiemi, segnandone la commercializzazione, e poi
l’industrializzazione» [Fabbri, 2008a: 3].
Di conseguenza, essendo composta da un repertorio eterogeneo e
dall’apporto creativo (quindi anche da un livello fruitivo) di un gran numero
di persone, tale genere è stato fin da subito caratterizzato da una sorta di
“etichettatura” per quanto riguarda le sue caratteristiche: musicisti,
studiosi, ma anche i consumatori di tale musica, hanno sempre cercato di
identificare, selezionare e compartimentare uno sterminato territorio
artistico in settori più limitati e specifici, con una connotazione più o meno
precisa.
Fra le tante denominazioni che la popular music ha visto svilupparsi al suo
interno, il termine “commerciale” è parso fin da subito un discrimine tra i
più importanti, una sorta di pietra angolare tramite la quale operare delle
11
forti distinzioni e selezionare una parte del materiale, sia a fini estetici, sia
per motivazioni ideologiche.
L’intento di questo lavoro è quello di indagare il significato e l’utilizzo del
termine “commerciale” nel repertorio della popular music, cercando di
analizzare i motivi per i quali tale termine assume una connotazione
negativa, sia dal punto di vista del mondo accademico e della critica di
settore, sia da quello degli stessi fruitori di musica popular.
Due sembrano essere le critiche più rilevanti riguardo a questo termine:
commerciale come frutto di una esplicita programmazione economica,
che esclude ogni contenuto artistico;
commerciale come testo qualitativamente povero dal punto di vista
musicale, cioè contenutisticamente semplice e di facile fruizione da
parte del pubblico.
Guardando la definizione proposta dal dizionario della lingua italiana
Devoto-Oli, si ha subito la percezione di quale sia la situazione, perché con
questo aggettivo si definisce un qualcosa «Prodotto in base a criteri esclusivi
di profitto (per lo più con una connotazione spregiativa)».
È ipotizzabile che la questione dell’utilizzo del termine “commerciale” in
musica sia stato affrontato in maniera limitata e pregiudiziale, per esempio
subendo l’influsso di temperie culturali dominanti (la critica della cultura di
massa e della mercificazione dei prodotti artistici, con conseguente
sottovalutazione di un repertorio esplicitamente destinato ad essere un
bene di consumo), oppure a causa di un parziale e limitato inquadramento
della questione (scarsa propensione all’analisi di tale repertorio attraverso
una metodologia di tipo musicologica o, all’opposto, tramite analisi
focalizzate solamente su dati specificamente musicali,
4
come la partitura,
con l’esclusione di caratteristiche come il contesto esecutivo,
l’interpretazione, la ricezione o le fasi tecniche di produzione come per
esempio il missaggio).
4
Riguardo alla questione delle analisi di tipo musicologico applicate a repertori di genere
popular si rimanda al capitolo “Change gonna come? Popular music e musicologia”
[Middleton, 2007: 151-181]
12
«Lo studio della popular music ha ricevuto un impulso decisivo dallo
sviluppo dei cultural studies. Naturalmente essa era già stata oggetto di
analisi che in molti casi hanno costituito a lungo dei riferimenti. […] Dunque,
da un lato, la popular music veniva assunta entro i dibattiti sull’industria
culturale, dall’altro il suo studio si indirizzava sulle dinamiche della
produzione e degli usi effettivi dei consumatori. Vale la pena notare che
questa tripartizione “standard” (produzione-testo-consumo) quando è stata
adottata in maniera rigida e aproblematica, tanto nella ricerca quanto nella
speculazione e nell’insegnamento, ha favorito un tipo di distorsione
“compartimentistica” dei fenomeni musicali, ostacolando le integrazioni
interdisciplinari» [D’Amato, 2001: 44].
Nell’ambito dell’attuale panorama musicale, il termine “commerciale”,
secondo un’ottica nuova, potrebbe essere collocato non come prodotto
degradato e massificato, privo di valori, bensì come legittima espressione
artistica di una determinata fascia socio-culturale. A supporto di questa
opinione si potrebbe richiamare quella che Middleton definisce come teoria
dell’articolazione: «le classi lottano per articolare l’insieme dei fattori
costitutivi di un repertorio culturale in modo tale da organizzarli in termini di
principi o di una serie di valori, determinati, a loro volta, dalla posizione e
dagli interessi di classe nel modo di produzione prevalente» [Middleton,
2007: 28].
Nella realtà culturale italiana, però, il dibattito sulla popular music e su
questo ambito più specifico è giunto in notevole ritardo rispetto al panorama
internazionale: richiamando l’analoga vicenda riguardante lo sviluppo e
l’affermazione, in Italia, di una vera e sistematica ricerca etnomusicologica,
è con ritardo decennale che i popular music studies si sono affermati anche
all’interno di una più organica e strutturata proposta accademica.
5
«In Italia, ad esempio, esiste un’unica rivista («Musica/Realtà») che abbia
concesso serio credito a ricerche sulla musica di massa, ma dalle persone
colte di buona educazione musicale essa è di norma ignorata, non solo
perché non risponde ai loro gusti (che è un rifiuto legittimo), ma perché
nemmeno viene riconosciuto come fenomeno importante sul piano socio-
5
Un rapido riepilogo della storia dei popular music studies è stato proposto da Fabbri nel suo
saggio “Studiare la popular music in Italia” [Fabbri, 2005: 61-73], mentre per una cronologia
delle tappe più importanti della disciplina nel nostro Paese si veda lo schema riassuntivo in
“Alla ricerca della «voce del popolo» [Agostini, 2010: 44-54]
13
culturale» [Baroni, Nanni, 1989: 9]. E, continuando sempre sulla stessa
linea, «[…] quali presupposti stanno dietro all’affermazione che la musica
“d’arte” è uno strumento di arricchimento e di formazione culturale e critica,
mentre la musica “d’uso” è sempre un più o meno futile passatempo? Quali
percorsi di pensiero reggono l’affermazione contraria che la musica colta
non è altro che il passatempo, spesso abbastanza futile, dell’élite
intellettuale o pseudo tale, e che la musica “popular” è ben più capace
d’incidere sulla formazione profonda di grandi masse di individui? Su quali
pre-concetti si basa l’affermazione che l’opera di un musicista di tradizione
colta è caratterizzata da sincerità e onesta intellettuale e quella di un
musicista “popular” deve sempre fare i conti con gl’interessi dell’industria?»
[Baroni, Nanni, 1989: 197].
Sviluppare il discorso riguardo il termine di commerciale nella popular music
e della sua connotazione in senso peggiorativo e negativo vorrà dire, allora,
introdurre (anche brevemente) un iniziale discorso sulla disciplina che
studia tale oggetto e sulle difficoltà che essa ha incontrato per una sua
affermazione all’interno del panorama culturale italiano.
Il punto di partenza, quindi, non può che essere il secondo Dopoguerra,
periodo storico-culturale che segna da una parte la caduta del regime
fascista, con il conseguente ritorno alle libertà di espressione e di confronto
civile e intellettuale, e dall’altra l’affermazione di una serie di ideologie che
vedono nella critica della cultura di massa il loro obiettivo e terreno di
espressione (la popular music, anche se limitatamente, rientra nell’oggetto
di queste analisi critiche).
Theodor W. Adorno, filosofo e musicologo tedesco, rappresenta uno dei
maggiori esponenti di questo periodo culturale, sicuramente colui che con
più attenzione e metodo si è soffermato sull’indagine della popular music e
delle sue caratteristiche, arrivando a conclusioni che si sono riverberate nei
decenni successivi e che, tra consensi e dissensi, hanno contribuito a
sviluppare un discorso critico in questo campo dell’espressione musicale.
Come affermato da Simon Frith «Quella di Adorno è l’analisi più sistematica
e inorridita della cultura di massa, ma anche la più provocatoria per
chiunque cerchi anche un solo frammento di valore all’interno dei prodotti
sfornati dall’industria di massa, dall’industria musicale» [cit. in Middleton,
2007: 60].
14
Entrando nello specifico del panorama italiano, avremo come base di
partenza (oltre ad iniziale studio di Luigi Colacicchi sulla musica leggera in
Italia risalente ai primi anni Quaranta) il gruppo di intellettuali denominatosi
Cantacronache che, intorno agli anni Cinquanta, esprime una forte critica
della canzone di consumo (una musica “gastronomica”, secondo la loro
stessa definizione), sia attraverso una produzione saggistica sia tramite la
creazione di un repertorio musicale da contrapporre alle logiche di mercato.
Degli stessi anni è il contributo dell’etnomusicologo Diego Carpitella
(“Musica popolare e musica di consumo”), uno studio che mirava all’analisi e
all’individuazione delle differenze strutturali e funzionali esistenti tra il
repertorio di tradizione orale e il prodotto dell’industria discografica.
Ulteriore fenomeno da analizzare è quello gravitante attorno al folk music
revival, movimento che nel corso degli anni Sessanta cerca di sviluppare e
proporre, tramite la riscoperta del patrimonio musicale folklorico,
un’alternativa per la canzone italiana; molto netta è la contrapposizione
verso un tipo di repertorio come quello proveniente dall’industria
discografica, ritenuto condizionato da pratiche di produzione e promozione
legate a logiche di mercato e quindi non corrispondente ad una autentica
espressione artistica.
Roberto Leydi, studioso ma anche animatore della scena del folk revival
italiano, sarà anche l’autore di un contributo sulla “musica di consumo”,
cercando di presentare un’analisi scevra di pregiudizi ideologici ed attenta
nell’individuare le caratteristiche peculiari di questo ambito musicale.
A partire dagli anni Ottanta, inoltre, ci sarà una produzione saggistica
sempre più sostenuta, grazie a riviste musicologiche come Musica/Realtà e
alla creazione della sezione italiana della IASPM (The International
Association for the Study of Popular Music)
6
, associazione che vede tra i
suoi fondatori Franco Fabbri (uno dei più attivi studiosi italiani di popular
music) e che nella sua seconda conferenza internazionale, dal titolo What is
popular music? e svoltasi a Reggio Emilia nel 1983, aveva tra gli obiettivi
quelli di una sistematizzazione della disciplina e delle metodologie di ricerca.
Un altro punto di riferimento importante sarà rappresentato dalla saggistica
in lingua straniera, che vede la presenza di autori di rilievo nella comunità
6
Associazione fondata nel 1981, in seguito ad una conferenza di studi svoltasi presso
l’Università di Amsterdam.
15
dello IASMP: Richard Middleton (Studiare la popular music) con il suo studio
culturale della musica e l’ampia panoramica sui popular music studies (oltre
alla critica della visione adorniana, è presente una prospettiva teorica della
disciplina ed il confronto con le metodologie di ricerca musicologiche ed
etnomusicologiche), Philip Tagg (Popular music: Da Kojak al Rave – Analisi
e interpretazioni) con le dettagliate analisi di brani e repertori che
potrebbero rientrare in un repertorio “commerciale” (dal brano Fernando the
Flute degli ABBA alla sigla televisiva di Kojak, fino agli stereotipi della
musica televisiva), Iain Chambers (Ritmi urbani) e la sua analisi delle
culture giovanili legate agli stili musicali, e Simon Frith (Il rock è finito) e lo
studio dei fenomeni sociologici sviluppatisi all’interno di uno tra i generi
musicali più importanti e diffusi.
Seguendo questo percorso, si arriverà a prendere in considerazione la
seguente e la più recente produzione saggistica inerente al tema, cercando
di individuare gli apporti più significativi, valutando le varie tendenze in atto
e proponendo una sintesi delle più importanti posizioni attualmente
esistenti. Non essendoci al momento, però, alcuno studio focalizzato
esplicitamente sulla nozione di “commerciale” all’interno della popular
music, le intenzioni di questa ricerca sono quelle di estrapolare, all’interno
di una saggistica molto vasta, elementi e spunti che possano definire in
modo più chiaro cosa si è inteso finora con questo termine.
Strutturalmente, questo lavoro si dividerà in tre sezioni: una prima parte
dedicata a ripercorrere storicamente l’evoluzione degli studi sulla popular
music che in qualche modo possono ricollegarsi al tema dell’utilizzo del
termine “commerciale”; una seconda in cui si tenterà di dimostrare come le
pratiche di fruizione e legittimazione di tali musiche siano definibili come
autentiche e legittime, attraverso pratiche di scelte determinate dal gusto e
dalla ricerca di valori; una terza (conclusiva) nella quale si tenterà un
parallelo tra l’estetica pop (con il riferimento quindi alla pop art) ed
un’estetica definibile commerciale, cioè l’estetica di quelle musiche che
vengono appunto qualificate con questo termine. A chiusura del lavoro verrà
riportata la testimonianza, tramite intervista, di uno dei protagonisti della
scena musicale italiana, il chitarrista Massimo Varini, collaboratore dei
maggiori artisti italiani e, in particolar modo, di quelli che comunemente
vengono designati come espressione della musica commerciale.
16
Se per la saggistica adorniana verranno prese in considerazione le sue
affermazioni riguardo il carattere ideologico della popular music (la
connotazione negativa di tutto questo repertorio musicale come strumento,
da parte dell’industria culturale, di convalida dell’ordine esistente), per il
periodo immediatamente seguente (come quello dei Cantacronache prima, e
del folk revival poi) si vorranno evidenziare le proposte alternative ad un
repertorio definito “commerciale”, di mercato, o attraverso la riscoperta di
una determinata tradizione musicale folklorica o tramite gli influssi di
correnti artistiche provenienti dall’estero (è in questo periodo che comincia
a diffondersi il genere e la terminologia di “musica d’autore”, contrapposta a
repertori considerati artisticamente inferiori).
La nascita, e l’affermazione poi, dei popular music studies servirà a valutare
come questa disciplina emergente abbia affrontato (anche se non
direttamente) il carattere di “commerciale”, per esempio attraverso l’analisi
di ambiti socio-culturali come quello del rock (e il conseguente antagonismo
verso una musica mainstream) oppure con l’indagine su brani, repertori o
artisti “in odore di commerciale” (il lavoro di Fabbri sulla definizione di
genere musicale o le analisi di tipo semiologiche di Tagg).
Non vanno dimenticati, infine, i contributi offerti dalla sociologia della
musica in Italia, applicata al mondo della popular music: affermatasi
tardivamente, rispetto al contesto internazionale, tale disciplina ha offerto
negli ultimi anni contributi decisivi nell’analisi del rapporto tra musiche di
consumo e determinati ambiti sociali o generazionali (come quello delle
sottoculture oppure della generazione adolescenziale), arrivando spesso a
contraddire convinzioni/affermazioni sclerotizzate e analisi aventi
metodologie inefficaci.
Attraverso tale scansione cronologica del panorama culturale italiano si
tenterà, alla fine di questo lavoro, di proporre una più aggiornata
concettualizzazione sul tema del “commerciale” nella popular music: si
proverà, in pratica, ad offrire una definizione del termine “commerciale”
scevra della connotazione negativa generalmente utilizzata.
17
Parte prima
ADORNO E LA POPULAR MUSIC
L’interesse dello studioso tedesco per questo repertorio si delinea fin dalla
metà degli anni Trenta quando, con l’avvento del regime nazista in
Germania, è costretto ad emigrare prima in Francia, poi in Inghilterra e alla
fine negli Stati Uniti: qui ritroverà l’amico e collega Max Horkheimer, con il
quale aveva già collaborato in patria nell’Istituto per la Ricerca Sociale,
gruppo di ricerca che continuerà tale lavoro, soprattutto per quanto
riguarda un programma di ricerca sulla comunicazione radiofonica
(Princeton Radio Research Project), a New York prima e Los Angeles poi, tra
la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta. «Nell’ambito di questo
nuovo lavoro, accettato con qualche esitazione, avviene l’incontro di Adorno
con l’industria della cultura, […] In particolare, entra in contatto con un
certo tipo di musica di consumo, non ancora radicato in Europa, con la
tecnologia della riproduzione musicale, con un’industria della musica capace
di preformare il suo pubblico» [Serravezza, 1976: 13-14].
Il primo studio sulla popular music si intitola Il carattere di feticcio in musica
e il regresso dell’ascolto (1938), al quale faranno seguito diversi altri saggi
(Sulla popular music, Musica leggera, Moda senza tempo. Sul jazz), che
sostanzialmente riprendono gli stessi argomenti, chiarendo alcuni aspetti o
caratteristiche del genere, senza apportare però contributi concettualmente
innovativi.
Adorno si trova, quindi, in una situazione del tutto particolare: è esiliato
dalla sua patria per motivi politici, è spettatore dello scenario internazionale
che vede l’affermarsi dei regimi totalitari (dalla Germania alla Russia,
dall’Italia alla Spagna), collabora a programmi di ricerca basati su una
metodologia di tipo quantitativo (com’è quella sulla ricerca radiofonica) e
diventa l’osservatore di una realtà culturale di massa quale è quella
presente negli Stati Uniti degli anni Trenta, eterogenea certamente, ma
comunque dominata da una programmazione di tipo industriale,
riscontrabile in ambiti come quello cinematografico (il genere del musical e
18
la canzone di Tin Pan Alley) o musicale (in quest’ultimo, per il pensiero di
Adorno, peseranno molto mode musicali come la swing era, cioè il periodo
d’oro del jazz ballabile). «Il linguaggio dettato da stereotipi e dal mercato di
massa, già comparso intorno al 1880 nell’ambito della canzone da music
hall inglese […], si evidenzia in modo particolare negli Stati Uniti sullo
sfondo dei nuovi metodi industriali del fordismo» [Middleton, 2007: 34].
La sua produzione musicologica (definibile come sociologia della musica) è
divisibile in due ambiti, che rappresentano sia opposti modelli di ricerca, sia
diversi ambiti musicali: da un lato la sociologia dell’oggetto musicale,
dall’altro la sociologia della funzione musicale.
7
La musica assume un doppio
carattere, in quanto può presentarsi come compiuta oggettività o come
elemento culturale destinato al rapporto con situazioni esterne: inoltre, le
funzioni esterne (sociali ed economiche) si intrecciano strettamente con
quelle compositive, in quanto i fattori esterni, penetrando nell’opera,
divengono di tipo interno, amalgamati in modo da non compromettere le
specificità estetiche. Ogni musica, nella storia, è sottoposta ad una serie di
pressioni funzionali rispetto alle situazioni della comunità, pressioni che
hanno l’effetto di occultare il significato autentico: il conferimento di
funzione ha l’effetto di produrre una deformazione del significato, fenomeno
che può interessare qualsiasi tipo di musica (in questa branca della
sociologia adorniana rientra anche l’analisi della Missa Solemnis di
Beethoven, con il significativo titolo di Straniamento di un capolavoro, o il
genere del melodramma, inizialmente simbolo di una borghesia espressione
di una lotta progressista e di emancipazione, e successivamente divenuto
oggetto di consumo culturale).
In pratica, l’oggetto musicale ha un suo significato originario (che precede
ogni atto fruitivo), e tuttavia il significato interno della musica non è
assicurato in permanenza, perché se essa viene inserita in un circuito che la
rende “funzionale”, assumerà un’identità altra, con nuovo significato e
nuove caratteristiche. L’approccio sociologico di Adorno si orienta sia verso
la “cosa stessa”, cioè l’opera con il suo deposito interno di senso sociale, sia
verso il rapporto esterno delle opere con la società, cosa che non vale solo
per la musica ma per tutti i prodotti artistici: di qui il doppio orientamento
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Per un maggior approfondimento della sociologia della musica in Adorno (quella dell’oggetto musicale e
quella della funzione musicale) si rimanda al saggio di Serravezza.
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che assume la sociologia della musica di Adorno. Oltre al rapporto musica-
società, un ulteriore perno di questa metodologia analitica è il problema
della valutazione estetica, che non può essere demandato ad altre
discipline: critica sociale e critica estetica rappresentano le due facce di un
identico modo di comprendere i fenomeni musicali.
Se la sociologia dell’oggetto musicale tende ad indagare la struttura interna
della musica con i suoi sedimenti sociali, cercando di cogliere il significato
originario e la capacità di critica verso la realtà sociale (è la parte saggistica
destinata prevalentemente alla musica “seria”, con autori come Beethoven,
Wagner, Schonberg e altri), la sociologia della funzione musicale studia il
rapporto che la musica intrattiene con le strutture esterne, cioè quando
entra in un circuito funzionale che la rende estranea dalla funzione originale,
facendola diventare un semplice oggetto di fruizione culturale e quindi
degradandola. La “sociologia dell’oggetto” è il procedimento di analisi
dell’autentico, la “sociologia della funzione” è invece il procedimento della
demistificazione dell’inautentico.
Questo è il caso appunto della popular music, repertorio musicale che
secondo Adorno si presta in modo perfetto all’opera di controllo culturale
che l’industria discografica attua attraverso di essa. Mentre la musica
beethoveniana riesce a “illustrare”, nella sua struttura interna, le
contraddizioni della società, a porsi quindi come strumento critico e
conoscitivo della realtà sociale, quella che viene chiamata popular music è
in realtà uno strumento di convalida dell’esistente, perché attraverso una
ripetizione dell’identico (cioè del sempre identico materiale musicale), in
musica come nella realtà, non si fa che propinare all’ascoltatore un mezzo di
controllo sociale presentato nelle forme e nelle modalità di fruizione di un
oggetto estetico.
Per far si che l’ascoltatore sia attratto da questa musica, l’industria
discografica escogita dei procedimenti volti a promuovere il repertorio e
fidelizzare la fruizione:
standardizzazione: vengono proposte delle forme musicali
stereotipate, utilizzate come semplici contenitori sonori, tramite i
quali proporre un repertorio sostanzialmente sempre identico; le
strutture perdono il loro carattere dialettico con il materiale musicale