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INTRODUZIONE
Il presente studio intende ricostruire il percorso, storico e tematico, che ha condotto
l’artista, poeta e cantastorie, Fabrizio De Andrè alla composizione di uno dei prodotti più
belli e significativi del cantautorato italiano, La Buona Novella. L’analisi affronta innanzitutto
il contesto storico e musicale in cui s’innesta l’esordio e lo sviluppo dell’opera deandreiana, e
volutamente parte dalla nascita del cantautorato italiano, tra la fine degli anni ‘50 e i primi
anni ‘60, a partire da Domenico Modugno e dai grandi movimenti dei Cantacronache a
Torino e della Scuola di Genova, come a voler sigillare definitivamente la passata canzonetta
che lascia il posto a uno spirito diverso, che viaggia tra la poesia, le note e l’interpretazione
con un’esigenza nuova, critica, nei confronti della realtà in tutte le sue forme.
Dopo questa contestualizzazione storico-musicale – nonché tematica, dal momento che sarà
eseguita anche una veloce carrellata dei temi e dei contenuti propri della canzone d’autore
genovese –, ci si soffermerà su una delle voci più interessanti e problematiche di quella
comunità di poeti e musicisti, Fabrizio de Andrè. Del cantautore verranno analizzati, in prima
battuta, i momenti salienti della sua infanzia, della sua giovinezza e del suo incontro col
mondo della musica e della poesia, per poi passare agli aspetti di una religiosità particolare
che emerge già nei suoi primi lavori, fino al 1970, quando pubblica La Buona Novella.
Attraverso l’analisi dei brani, di pari passo con quella della sua vita, delle sue ispirazioni e
delle sue idee, si scopre un quadro molto complesso della sua concezione di vita e si
comprende tutta l’importanza e la ‘responsabilità’ che egli affida alle sue canzoni, intese
come prodotti del suo agire nelle cose della vita. E si vedrà come opere della portata de La
Buona Novella gli nascono dopo constatazioni ampie, e altamente critiche, relative al
contesto storico di riferimento – i movimenti rivoluzionari del Sessantotto – e ad una propria
ideologia, quella anarchico-libertaria, che, a ben guardare, porta con sé i semi
dell’uguaglianza e della libertà e del sostanziale amore per l’uomo in quanto uomo, tutti
ideali predicati e propugnati da Gesù di Nazareth, la figura storica e di difficile
interpretazione che ha ispirato De Andrè per la composizione del suo concept album.
Dopo una generale disamina dei Vangeli Apocrifi, che hanno contribuito in gran parte ad
intessere la trama che sostiene l’intera opera, l’album La Buona Novella verrà analizzato in
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ogni sua componente poetica, tematica e semantica, fino a far emergere le reali istanze che
De Andrè propone e di cui si rende coscienzioso e critico portavoce.
Brevi cenni saranno forniti anche per quanto riguarda particolari scelte musicali, sonore e
armoniche adoperate da De Andrè e dai suoi collaboratori per specificare ed evidenziare
precisi messaggi e atmosfere, ma la tesi, nel suo complesso, non ha alcuna pretesa
musicologica, proponendo piuttosto un’analisi storica e tematica degli argomenti
sopraccitati.
Seguirà un compendio, rapido e volutamente poco articolato, del suo lavoro dopo il 1970, a
conferma che all’interno di tutta la sua attività di cantautore, ricercatore, traduttore,
cantastorie e poeta, ci sono certi motivi e certi stimoli che agiscono da veri e propri fili
conduttori invisibili e tuttavia onnipresenti in tutte le sue canzoni.
Si noteranno, nel corso dell’esposizione dei temi, numerosi richiami, più o meno evidenti, coi
temi, i modi, le atmosfere e le sonorità di altre culture; tra i vari esempi e parallelismi
proposti nel corso della trattazione, particolare spazio viene dato alla cultura napoletana, sia
quella musicale sia, soprattutto, quella poetica e teatrale. La maggior parte di essi non
costituisce necessariamente parte dei motivi ispiratori delle composizioni di De Andrè, ma
emerge come un enorme bacino di similitudini e naturali corrispondenze tra i vari tipi di
culture, che comunicano intense riflessioni. Si ritroveranno Salvatore Di Giacomo, Eduardo
de Filippo, i vicoli e i quartieri di Napoli, la canzone classica, la tradizionale tarantella
napoletana, la religiosità e i culti popolari, ed altri riferimenti ancora che in generale, e a
vario titolo, si allargano alla cultura popolare di molte zone del mondo.
A proposito delle affinità con la cultura napoletana, anche se non verrà approfondito nella
tesi, è ravvisabile una generale macro-analogia tra Fabrizio de Andrè e quelli che furono i
poeti partenopei della strada, dei vicoli di Napoli e dei suoi abitanti; un esempio per tutti,
l’immenso Raffaele Viviani (1888-1950), il poeta delle prostitute, dei ladri e della malavita,
quello che scende nei vicoli tra la plebe, i mendicanti, i venditori ambulanti, gli scugnizzi.
Viviani era il De Andrè del Sud, un Brassens partenopeo. Nelle sue poesie e pièce teatrali,
egli dipingeva quadri assai simili a quelli deandreiani, incentrati sulla vita dei vicoli di Napoli,
le sue voci, i suoi malconci abitanti, ‘o sapunariello, ‘o scupatore, l’acquaiolo e ‘o maruzzaro,
‘o mariunciello, ‘o guappo, ‘a capera e ‘a Bammenella ‘e coppe ‘e quartiere, ‘e fravecature, ‘e
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piscature, ‘o zuoppo e ‘o ferraro, ‘o pezzente, ‘e gerarchie e quella Legge che “te dice ‘e nun
lassà ‘a speranza, ma tu saje ca si’ t’astregne ‘a mano, già tene pronta l’arma ca te spanza”
1
.
Raccontato così, sembra essere lui la vera Musa ispiratrice di De Andrè, ma non fu così. È
vero che De Andrè amava Napoli, ‘i suoi Murolo’, ‘i suoi Di Giacomo’, ma non è il suo legame
con Napoli ciò che conta. Ciò che è veramente importante è che, attraverso questa tesi e
queste analogie, si comprende come lo sguardo umano, quello di un poeta, di un musicista o
di uno scrittore, indipendentemente dalle proprie origini e dal luogo in cui vive, sia capace di
rintracciare il bene e il male, e scoprire quanto questi due ‘mondi’ abbiano, come diceva de
Andrè, ‘un confine incerto’. Si sceglie di analizzare La Buona Novella più nello specifico
proprio perché attraverso essa è possibile accendere un piccolo e luminoso riflettore sulle
incertezze e le crepe di questo confine.
Nell’articolo De Andrè, l’ «evangelista» anarchico degli ultimi, Paolo Ghezzi scrisse:
I fiori nascono se si sa guardare con gli occhi del cuore, ed è la strada la parola cruciale, la
metafora dello sguardo puro. Se volete, è una strada idealizzata, ma è il luogo letterario da dove
De Andrè comincia a esplorare il mondo
2
.
Decisi di scrivere una tesi su Fabrizio De Andrè mentre si discuteva, tra “quattro amici al
bar”, della religione corrotta, della nonna che ripete a memoria un rosario davanti al camino
di casa, di un nuovo marchio visto in una vetrina, di quanto è triste il calcio, della fede
dimenticata, delle cene organizzate, del nuovo iphone. Mi chiesi se non ci fosse un problema
di fondo che fa da letto deforme a tutte queste bizzarre connessioni mentali, e che permette
alle persone di girovagare tra itinerari verbali e contenutistici predefiniti e confezionati,
troppo spesso ripieni di nullità. Capii allora che il problema era nella fede delle persone,
considerata in senso lato, come rapporto tra l’uomo e il suo pensiero, le sue leggi morali, le
sue convinzioni, e nel fatto che non tutti sono coscienti della provenienza e del vero
significato di questa parola, dal momento che così facilmente si accosta una cosa futile ad un
argomento serio, in una enorme bolla di prevedibilità e di convenzionalità sconcertante e
deprimente. Ecco perché scelsi De Andrè, ed ecco perché scelsi quel De Andrè: innanzitutto
perché è un artista e in quanto tale cerca di recuperare sempre e ad ogni costo il senso
1
VIVIANI, RAFFAELE – Poesie, Napoli, Guida Editori, 1974, pag. 201 – Le tipologie dei personaggi di Viviani
elencate corrispondono anche ai titoli di alcune delle poesie dello stesso autore.
2
GHEZZI, PAOLO – De Andrè, l’ «evangelista» anarchico degli ultimi, Trento, 20 Dicembre 2005, in
VALDINI,ELENA (a cura di) – Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, Milano, Rizzoli, 2007, pag. 375.
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perduto delle cose, quello di cui invece avremo bisogno, e poi perché quella era un’opera
imprevedibile, nata in un contesto storico in cui appariva anacronistica, e che proprio per
questo induce a riflettere, con le sue componenti di genialità e di ‘incompiutezza’. In fondo,
un’opera d’arte si distingue da un qualsiasi altro prodotto proprio per il suo particolare
carattere di “incompiutezza”; essa infatti non può dirsi mai del tutto finita finchè il fruitore
non vi entra in contatto, perché è quel particolare valore attribuito dal beneficiario del bene
che la eleva al rango di ‘opera d’arte’, rispetto ad un prodotto normale, il cui valore è invece
stabilito da un prezzo, da una particolare funzione, da una certa affezione. L’opera d’arte
permette dunque di essere completata dal fruitore, con le sue riflessioni ed emozioni,
proprio come le pagine bianche che stanno alla fine dei libri, che ti danno l’idea di un
racconto che continua o che può completare il lettore, scrivendoci la propria esperienza.
Questo è il tipo di ‘incompiutezza’ che caratterizza anche La Buona Novella, in cui si sente il
bisogno di ascoltarne ancora, di viverla di più, come se non fosse mai abbastanza, come se
tutta quella poesia stesse aspettando una risposta dall’ascoltatore per poter trovare il
coraggio di uscire fuori per intero. E questa sensazione la si avverte fortemente quando si
tenta un’analisi e uno studio approfondito sull’opera, poiché quella ‘incompiutezza’ ricade
sulla trattazione stessa, a tal punto che si sente di non aver scritto abbastanza. Anche il
lettore percepisce la stessa sensazione, ma è questa la vera importanza di un’opera d’arte e
di uno studio su di essa: non è dato tutto, e quella forte componente di incompletezza è
indispensabile per lo sviluppo del pensiero, perché dà lo stimolo alla riflessione che porta
sempre con sé tanti interrogativi, che iniziano a vagabondare nella coscienza di ognuno di
noi.
Forse nella Buona Novella di De Andrè avrei trovato qualche risposta a molti di questi
interrogativi sulla fede e sulle sue distorsioni. Provai. Fu lì che decisi che quella tesi doveva
vertere sui temi di quell’album del 1970. Il mio professore di Musicologia e Storia della
Musica mi disse: “E facciamola!”.
E così è stato.