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INTRODUZIONE
«E quindi uscimmo a riveder le stelle»
1
. Questa è l’esperienza di
Dante e in parte è anche la mia. Quando il 31 ottobre 2013 partii per
Assisi avevo dentro di me una notte buia, senza stelle e mi chiedevo se
il Dio in cui fin da bambina avevo creduto esistesse realmente. Lo
avevo cercato a lungo, ma non lo avevo mai incontrato. Ero stanca di
questo Dio silenzioso, lontano, indifferente. Se Dio è Amore, perché
permette il male? Se Dio è Padre, perché non si cura dei suoi figli? Un
giorno, proprio come gli israeliti in Egitto, gridai a Lui e Gli imposi
un ultimatum: «io parto per Assisi e questa è la tua ultima occasione.
Se non Ti lasci incontrare, io non crederò più in Te. Gesù ci ha detto
“cercate e troverete”. Io Ti sto cercando. Mantieni le tue promesse».
Pressappoco, questo è quanto Gli dissi. La settimana successiva partii
dunque verso la terra di Chiara e Francesco. Avevo ricevuto un
volantino con l’elenco di alcuni corsi organizzati dai frati francescani
e tra questi ve ne era uno intitolato “Corso Zero: per cominciare o
ricominciare un cammino di fede”. Non avevo idea di cosa si trattasse,
ma dentro di me “sentivo” che “dovevo” parteciparvi.
In quei quattro giorni di Corso Zero accadde effettivamente il mio
incontro con Dio, il cui volto scoprii essere quello della Bellezza. Mi
si rivelò in tre modi. A ciascuno di essi ho dedicato un capitolo della
mia tesi.
Dapprima la Bellezza mi si manifestò nelle cose sensibili. Assisi mi
apparve così bella da crederla come una piccola porta sul Paradiso.
Ogni cosa mi sembrava senza tempo, eterna. La bellezza dei dipinti, la
magnificenza delle architetture, lo splendore della natura: tutto mi
parlava di Dio.
Il primo capitolo del mio elaborato si occupa propriamente di
questo aspetto: di come sia possibile incontrare la Bellezza
trascendente attraverso la bellezza immanente delle cose sensibili. A
partire da alcune opere di Jean-Louis Chrétien – La ferita della
bellezza; L’arca della parola; L’indimenticabile e l’insperabile – mi
sono interrogata sulla Bellezza da un punto di vista filosofico.
L’epifania del Bello inizialmente sgomenta e produce nell’animo
umano una ferita, ma ciò è preludio di una gioia timorosa: la gioia
1
D. ALIGHIERI, Divina Commedia, SEI, Torino 2008, Inferno XXXIV, 139.
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dell’incontro con l’Infinito. Tuttavia, la Bellezza non si accontenta di
apparire e di essere contemplata, ma porta sempre con sé una pretesa:
quella di trasformare colui che incontra a sua immagine e somiglianza.
La Bellezza è pertanto un appello, una chiamata alla trasfigurazione di
sé e della propria esistenza. Nella lingua greca, il termine καλός –
bello – somiglia infatti al verbo καλεῖν – chiamare. Chiamandoci, la
Bellezza ci com-muove, ovvero ci tocca nel profondo e ci mette in
movimento, in cammino, «affinché non restiamo là dove siamo, e
affinché non restiamo ciò che siamo»
2
.
Successivamente, la Bellezza mi si mostrò nella figura di Gesù e
nel suo messaggio. I momenti di preghiera e le catechesi mi permisero
di vivere la stessa esperienza di Pietro, Matteo, Maddalena,
l’emorroissa, e così via. Ossia l’esperienza di un incontro che fa
tornare a credere in Dio e nella vita, un incontro che sana le ferite
antiche e le trasforma in feritoie da cui filtra luce e Bellezza.
Il secondo capitolo della mia tesi è perciò interamente dedicato a
Gesù di Nazaret e al Regno di Dio da lui annunciato. Il costante
riferimento a Gerhard Lohfink – in particolare ad una delle sue opere,
intitolata: Gesù di Nazaret. Cosa volle-Chi fu – mi ha permesso di
evidenziare non solo la bontà ma anche la bellezza del Regno dei
Cieli, che Gesù paragona infatti ad un tesoro e ad una perla preziosa, il
cui fascino permette di vendere, con gioia e senza alcun rammarico,
tutto ciò che si possiede. Questo “vendere tutto” assume però un
significato diverso per ciascuno: non tutti sono infatti chiamati a
diventare discepoli, ma tutti sono chiamati a prendere pienamente
parte al Regno di Dio. Pertanto, le forme concrete che può assumere
l’esistenza di coloro che entrano nei confini fluidi del Regno sono
molteplici e tutte quante indispensabili. L’evento cristologico non
produce dei cloni, ma abilita ogni persona a vivere la propria
singolarità: Gesù è «l’unico che genera una moltitudine di unici»
3
. Il
Regno di Dio non è affatto una realtà astratta o intimistica. Per questo,
Gesù non lo annuncia solo a parole, ma anche mediante la concretezza
di gesti, simboli e segni. Il segno per eccellenza di ciò che accade
quando la signoria di Dio è accolta senza compromessi non è l’evento
miracoloso, bensì la croce. Gesù va incontro alla passione non per
amore della sofferenza, ma in ragione dello splendore e della pienezza
traboccante del Regno dei Cieli, trasformando così la propria morte
nell’apice della dedizione e dello spossessamento di sé. La
2
J.L. CHRÉTIEN, L’arca della parola, Cittadella, Assisi 2011, p. 130.
3
C. THEOBALD, Il Cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella
postmodernità, EDB, Bologna 2009, vol. 2, p. 882.
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crocifissione era stata inizialmente creduta dai seguaci del Nazareno
come una radicale smentita della sua persona e della sua missione.
Tuttavia, nel momento in cui essi vengono raggiunti dal Risorto,
scaturisce per loro una nuova luce sull’identità di Cristo: egli non è
semplicemente un profeta morto martire, ma l’escatologico di Dio, il
compimento di ogni rivelazione. Quanto Gesù volle era senza dubbio
sconvolgente, infinitamente e profondamente bello. Ma si è forse
realizzato o è destinato a rimanere un’utopia? La buona notizia è che,
grazie a Gesù, il Regno di Dio è già qui, adesso. Laddove gli uomini
vivono la Regola d’oro e fanno proprio lo stile ospitale del Nazareno,
lì accade il Regno di Dio. È troppo poco? No. Per far crescere tutto
l’impasto, è sufficiente un pizzico di lievito.
Ad Assisi la Bellezza mi venne incontro non solo nelle cose
sensibili e nella figura di Gesù, ma anche nello stile ecclesiale. Nelle
relazioni fraterne ed ospitali che i frati vivevano tra loro e con noi
giovani, nella loro semplicità e dedizione incondizionata, nel loro
sacrificare se stessi per gli altri (al punto da rinunciare anche al
mangiare o al sonno, pur di ascoltare o aiutare chi ne aveva bisogno),
ho incontrato il vero cristianesimo, la vera chiesa. Una chiesa in cui la
realtà è superiore all’idea, in cui il tempo è superiore allo spazio; un
cristianesimo che non è primariamente una dottrina o un codice etico,
ma uno “stile”, ossia un modo di stare nella vita e nel mondo radicato
nell’incontro con Cristo.
La terza tappa della mia tesi ha dunque per oggetto lo stile
ecclesiale. Attraverso il confronto con Christoph Theobald e, in
particolare, con i suoi due volumi de Il Cristianesimo come stile, ho
innanzitutto sottolineato il primato della seduzione. La teofania si dà
infatti nella forma di una “kalofania”, ovvero di una manifestazione di
Bellezza. La fede nasce sempre dall’essere attratti verso Qualcosa,
verso Qualcuno. In seguito, mi sono soffermata sul concetto di stile,
ponendo in correlazione i contribuiti di Schleiermacher, von Balthasar
e Theobald. Diversamente dai suoi predecessori, Theobald evidenzia
come la novità dello stile di Gesù si concentri sul tipo di relazione che
egli intrattiene con coloro che incrociano il suo cammino. È infatti la
modalità relazionale del Nazareno ad aver generato la confessione
messianica dei primi cristiani e ad aver permesso loro di maturare la
percezione del carattere escatologico, ossia definitivo e ultimo, di ciò
che è avvenuto nell’incontro con lui. La santità ospitale del Nazareno
pone perciò la chiesa in una condizione di perenne apprendimento e di
radicale spossessamento. Ho inoltre analizzato la genesi del Libro
biblico – in quanto matrice dello stile cristiano – e fatto riferimento
7
alla figura di Charles de Foucauld, quale paradigma di uno stile
ecclesiale autenticamente ospitale. A partire dal concetto di analogia
regni che Theobald illustra ne Selon l'Esprit de sainteté. Genèse d'une
théologie systématique mi sono dunque interrogata sul rapporto tra la
Chiesa, la società secolare ed il Regno di Dio.
Infine, all’interno del quarto capitolo, nella direzione dell’orizzonte
indicato dall’Evangelii gaudium, ho dialogato con due recenti
pubblicazioni di Duilio Albarello: «La grazia suppone la cultura».
Fede cristiana come agire nella storia e A misura d’uomo. La
salvezza per la città, con l’intento di approfondire il nesso inscindibile
tra l’accoglienza del Regno e l’accadimento salvifico. Incontrarsi con
l’εὐ-αγγέλιον, significa non solo vivere un’esperienza di salvezza nella
storia personale, ma aprire un itinerario soteriologico nella storia
collettiva: quello della fraternità eccedente, in cui la dimensione
antropologica e la dimensione teologale s’intersecano
inestricabilmente.
Il riconoscimento della comune fragilità umana e la fede in una
promessa più grande, radicata nella trascendenza fattasi “carne” in
Cristo, conferiscono alla fraternità eccedente un potere al contempo
gentile e rivoluzionario: il potere della tenerezza. Si tratta di una
nuova modalità di incontro con il mondo, che genera pratiche di
prossimità capaci di «superare il sospetto, la sfiducia permanente, la
paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo ci
impone» (EG 88). In questo senso, la tenerezza non è soltanto uno
stato d’animo, ma una nuova estetica relazionale, una via di
umanizzazione capace di abbattere il muro dell’indifferenza e
dell’individualismo.
La sera del 2 novembre 2013, nella terra di Chiara e Francesco,
vissi un momento particolare di incontro con la Bellezza. Non saprei
descriverlo, se non dicendo che gustai la gioia che viene dal Risorto.
A volte ripenso a quel momento di grazia e, siccome sono una persona
molto razionale, mi domando se non fu una semplice suggestione
psicologica. Poi, però, mi guardo indietro, e davvero riconosco in quel
2 novembre, giorno dei morti, il passaggio dal mio venerdì al mio
sabato santo. Dunque no, non si trattò di un condizionamento emotivo,
ma di un’immersione nel mistero della morte e risurrezione di Cristo,
che mi permise di «camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).
La Bellezza, quando viene incontro all’uomo, non lo lascia mai
come lo ha trovato: trasforma la sua vita, illumina le tenebre del suo
cuore, trasfigura il suo sguardo, affinché divenga capace di scorgere in
mezzo alle brutture del mondo i segni della Bellezza stessa.
8
Il lettore mi perdoni se in questa introduzione il “cuore” ha prevalso
sulla “mente". D’altro canto: «come pensare alla bellezza, se il
ragionamento resta insensibile? Occorre mantenere una certa
freddezza, sicuramente, ma senza impedire al cuore di ardere»
4
.
4
F. HADJADJ, «Ché quivi per canti s’entra», in J.L. CHRÉTIEN, La ferita della
bellezza, Marietti, Genova 2010, p. 12.
9
CAPITOLO I
La Bellezza chiama nelle cose sensibili
1. «La bellezza: che tremenda e orribile cosa!»
5
In queste tenebrose camere, dove vivo
giorni grevi, di qua di là m’aggiro
per trovare finestre (sarà
scampo se una finestra s’apre). Ma
finestre non si trovano, o non so
trovarle. Meglio non trovarle, forse.
Forse sarà la luce altra tortura.
Chi sa che cose nuove mostrerà.
(K. KAVAFIS, Le finestre)
Una poesia può riuscire ad esprimere in pochi versi ciò che
un’argomentazione filosofica o teologica non riuscirebbe a dire se non
in molte pagine. Ci sembra perciò interessante iniziare questo
itinerario sul tema della bellezza con le parole di un grande poeta
quale Konstantinos Kavafis. Le immagini che egli utilizza nella poesia
Le finestre disegnano infatti con precisione l’oggetto del nostro
discorso. Le stanze buie rappresentano la vita, troppo spesso
imprigionata tra le mura del rancore, delle delusioni, delle paure. La
ricerca della luce esprime invece l’inquietudine, che abita le
profondità spirituali di ogni essere umano. Infine, le finestre. A nostro
avviso, le finestre potrebbero essere metafora della bellezza. Chi
incontra il bello vive esattamente questa esperienza: una finestra si
spalanca sulla camera chiusa della propria vita e la luce rischiara le
tenebre del cuore. Si respira un’aria fresca e rinnovata; un paesaggio
inedito appare; il sole risplende e fa socchiudere gli occhi abituati
all’oscurità. Tuttavia, questo sovrappiù di senso genera
inevitabilmente sgomento. È questa la ragione per cui Kavafis, pur
cercando le finestre, afferma che forse sarebbe meglio non trovarne.
Per meglio comprendere un simile paradosso, può essere utile il
riferimento ad un altro celebre poeta: Dante Alighieri. Nel
ventunesimo canto del Paradiso, Dante si rivolge a Beatrice con
queste parole:
S’io ridessi / tu ti faresti / quale fu Semelè quando di cener fessi
6
.
5
F. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1993, p. 144.
6
D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, SEI, Torino 2008, Paradiso XXI, 4-6.
10
Di fronte allo splendore di Beatrice, Dante rischia di ridursi in
cenere.
L’aspetto di Lucifero lo ha indubbiamente lasciato per un po’ «senza
morte e senza vita», ma il volto di Beatrice – se egli potesse mai vederlo
per un solo istante in tutta la sua gloria manifesta – provocherebbe la sua
disintegrazione totale. Ancora più fatale dell’orrore senza maschera è,
infatti, la bellezza senza veli.
7
L’epifania del bello travolge e sgomenta, ci scaglia nel mistero e ci
rende enigmi a noi stessi. Jean-Louis Chrétien definisce l’uomo come
«qualcuno la cui quiete è stata minacciata dalla bellezza»
8
. L’incontro
con la bellezza, infatti, non anestetizza l’inquietudine, al contrario:
genera tormento. Sopiti nel sonno dell’indifferenza, cullati
dall’autarchia e dall’apatia, veniamo destati dalla bellezza come da un
terremoto. Nel piano orizzontale della nostra esistenza, si apre una
ferita verticale, e ci troviamo posti nel bel mezzo di una tensione che
ha come poli l’altezza e la profondità, il mistero che ci trascende e il
mistero che ci abita. Apparentemente, un simile sgomento non offre
alcun guadagno. Al nostro spirito non è più concessa la rassicurante
condizione di atarassia, ma è imposto un perenne stato di vertigine. La
scoperta dell’infinito sopra di noi – l’altezza – e dell’infinito dentro di
noi – la profondità – pare infatti opprimere la nostra umanità fragile e
limitata. Comprendiamo allora perché Dante corra il rischio di
divenire cenere ed intuiamo la drammaticità della lotta interiore
vissuta da Kavafis, nel cui animo si mescolano il desiderio di trovare
finestre ed il timore che questa speranza si concretizzi.
Se di primo acchito lo sgomento pare non offrire nulla fuorché
un’angosciosa presa di coscienza di quella che è la condizione umana,
ben presto si rivela come il primo dono offerto dalla bellezza, capace
di dischiudere l’anima ad altri doni.
Visibile solo nel denudamento, la bellezza dona prima di tutto proprio
quel denudamento che consentirà di vederla. Chi perde alla fine
guadagna: guadagna ciò che soltanto la perdita di sé può rendergli
possibile ricevere. Dare sgomento equivale a ritrarsi, frapporre una
distanza, costringere ad arretrare di fronte alla bellezza.
9
7
F. HADJADJ, «Ché quivi per canti s’entra», in J.L. CHRÉTIEN, La ferita della
bellezza, Marietti, Genova 2010, p. 6s.
8
J.L. CHRÉTIEN, L’arca della parola, Cittadella, Assisi 2011, p. 129.
9
J.L. CHRÉTIEN, La ferita della bellezza, Marietti, Genova 2010, p. 103.