dinamica…”. (Cfr. www.ecb.int, about Ecb, la Banca centrale
europea, brochure, pag. 3, luglio 2000)
Quindi, con l’avvio della terza fase del Piano Delors,
dell’unione economica e monetaria, realizzatasi il 1° gennaio
1999, le undici banche centrali dei relativi paesi europei hanno
delegato la gestione della politica monetaria alla Banca
centrale europea, una delle più giovani al mondo.
Istituita il 1° giugno 1998, ha comunque ereditato tutta la
credibilità e la relativa competenza professionale dalle banche
centrali nazionali dei paesi partecipanti all’area dell’euro,
assieme alle quali conduce la politica monetaria unica
orientata alla stabilità. La base giuridica su cui si fondano la
Bce ed il Sistema europeo di banche centrali (Sebc) è
rappresentata dal Trattato che istituisce la Comunità europea,
secondo il quale il Sebc è costituito dalla Bce e dalle banche
centrali nazionali dei 15 Stati membri della UE. Lo statuto del
sistema europeo di banche centrali e della banca centrale
europea è allegato al trattato in forma di protocollo. Nel mese
di aprile 2000, l’organico della BCE presso la sede di
Francoforte sul Meno, contava circa 770 persone. Provenienti
dai 15 paesi aderenti alla UE, esse lavorano in stretta
collaborazione con il personale delle banche centrali nazionali
per predisporre e attuare le deliberazioni adottate dagli organi
decisionali della banca.
Prima di approfondire compiutamente il ruolo della BCE
è d’uopo rammentare tutte le vicende storiche che hanno
preceduto tale istituzione, e tutti gli altri importanti accadimenti,
monetari, politici e sociali, che hanno propiziato, assieme
all’euro e all’unione monetaria ed economica, la nascita della
banca di Francoforte sul Meno.
La via verso la Bce è stata costellata da numerosi
appuntamenti: alcuni felici, altri meno. Ma l’ostinazione, alla
fine, è stata premiata, soprattutto in quei momenti, quando,
percepire una simile istituzione, poteva apparire ai più un’idea
alquanto fantasiosa. Sebbene in alcuni documenti, che
chiariremo poi in seguito, la necessità di una banca europea
era da più parti auspicata e citata necessaria, alle sorti di una
unione monetaria unica, in altri, come nel Piano Werner, ad
esempio, l’euro e la conseguenza naturale della sua banca,
venivano relegati in secondo piano.
Ma lo scopo primario di riunioni e di congressi, negli anni
successivi alla fine della II guerra mondiale, miravano da
subito al perseguimento costante di una forte stabilità nei
propri rapporti monetari. Una stabilità che fu, già nella metà del
novecento, definita come maggiore armonia, e che nel
postulato di un sistema bimetallico, oro-argento, alcuni paesi
europei mossero i loro primi passi, abbracciando, già allora,
l’idea di una forma arcaica di unione. Una primitiva attuazione
di questa idea, il Gold Standard, si protrasse fino alla prima
guerra mondiale, poi, con le spinte nazionalistiche che
impazzarono a quel tempo, nel vecchio continente, il sistema
decadde inesorabilmente.
Con la ripresa della pace, dopo la II guerra mondiale, si
rinnovò prepotentemente, da parte dei paesi europei, il
desiderio, sempre vagheggiato, di rapporti monetari sempre
più stabili, come l’avvento dell’Unione europea dei pagamenti,
che dal 1950 al 1958, favorì la ripresa degli scambi
commerciali, gettando, tra l’altro, le basi per la convertibilità
delle monete. L’istituzione facilitò il commercio nel vecchio
continente, intrattenendo per di più rapporti valutari con gli
Stati Uniti; difatti con la convertibilità nelle transazioni
commerciali, le monete europee poterono scambiarsi
liberamente, sia tra di loro e sia con il dollaro americano, ad un
tasso di cambio prefissato; in questo modo divenne operativo il
sistema monetario internazionale che fu prospettato a Bretton
Woods, a guerra in corso, nel 1944.
Quest’ultimo si basava su tre fattori principali: i cambi
stabili, aggiornabili solo nel caso in cui ci fossero, nelle
economie dei vari paesi, profondi scompensi; la leadership
della nuova potenza americana, ed infine, il Fondo monetario
internazionale. Secondo alcuni, gli accordi di Bretton Woods
posposero la questione europea, rendendo vani, per quasi due
decenni, tutti gli sforzi verso l’adempimento di un ordine
monetario che potesse garantire un coordinamento economico
e politico adeguato.
Nella città di Messina, più tardi nel 1955, si stabilirono le
regole dove poter costruire le fondamenta della Comunità
europea, senza, però, accennare a quale organo competesse
l’adozione di metodi soggetti ad assicurare un coordinamento
sufficiente per le politiche monetarie dei paesi membri, affinché
fossero permessi la creazione e lo sviluppo di un mercato
comune.
La Comunità economica europea venne istituita nel
marzo 1957 con la firma, da parte dei sei Stati fondatori
(Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi)
del Trattato di Roma. Tale documento metteva subito in chiaro
quale fosse il cammino principale dell’unione, quali le priorità e
quali le direttive economiche: nell’articolo 3 di tale Trattato
venivano appunto chiariti alcuni concetti base, come
l’eliminazione di barriere al commercio interno, la creazione di
una tariffa esterna comune e lo sviluppo di una politica
commerciale comune, l’abolizione degli ostacoli al libero
movimento dei fattori produttivi, la creazione di una politica
agricola e di una politica dei trasporti comuni, ed il
perseguimento della necessaria armonizzazione delle
legislazioni nazionali.
Come si evince, in seguito, dall’articolo 103 e dall’articolo
108 del Trattato di Roma, gli Stati membri consideravano la
propria politica in materia di congiuntura e di tassi di cambio,
come un problema di interesse comune, mentre nell’articolo
105, il Trattato prevedeva l’istituzione di un Comitato
monetario a carattere consultivo, la cui funzione principale era
quella di promuovere il coordinamento delle politiche degli
Stati membri nel campo monetario e di svolgere il lavoro
preparatorio alle riunioni del Consiglio dei ministri economici e
finanziari (Ecofin). (Cfr. Trattato istitutivo della Comunità europea,
Roma, marzo 1957).
Quindi, le principali attenzioni della neonata Comunità
riguardavano l’eliminazione di tutte le barriere che
ostacolavano il commercio interno, l’abolizione degli ostacoli
alla libera circolazione dei fattori produttivi e l’adozione di una
tariffa esterna comune. Per cui la Comunità si impegnava ad
armonizzare le varie legislazioni dei paesi europei, realizzando
tutti gli adempimenti necessari per garantire una completa
concorrenza all’interno del mercato comune.
Il Trattato di Roma aveva lasciato ai singoli membri, in tema
di economia politica e monetaria, in primis, la liberalizzazione
dei servizi finanziari, bancari ed assicurativi e dei movimenti
dei capitali, sebbene risultassero subordinate alle numerose
condizioni procedurali e temporali. Si è parlato a riguardo
anche di cautela del Trattato, ben maggiore rispetto alla
cadenza del disegno liberalizzatore complessivamente
considerato.
Vero è che la disciplina dei movimenti dei capitali faceva
emergere, con particolare evidenza, i limiti e le difficoltà di un
sistema in cui, accanto ad una liberalizzazione
sostanzialmente completa degli scambi, dunque accanto ad un
mercato comune in senso proprio, permaneva una significativa
autonomia degli Stati membri in ordine alle rispettive politiche
economiche e soprattutto monetarie. In realtà, quanto più ci si
avvicinava alla disciplina del mercato comune, alla politica
monetaria, tanto più prudente si rivelava la spinta
liberalizzatrice e dunque meno perfetto era il regime della
libertà di circolazione. La situazione che ne risultava era a
volte e per certi aspetti contraddittoria o almeno complessa:
basti pensare alla circostanza che, da un lato, il controllo e la
disciplina del movimento interno e internazionale dei capitali
sono sostanzialmente strumenti della politica monetaria degli
Stati; dall’altro, quasi in un circolo vizioso, quest’ultima non
può che essere condizionata dal movimento internazionale
delle merci e dei fattori di produzione, ivi compreso, il
movimento dei capitali. E tutto ciò si pone, sembra pacifico,
sullo sfondo di un unico disegno liberalizzatore contenuto nel
Trattato. Del resto, ancora agli inizi degli anni ottanta, la Corte
puntualizzò che una libertà assoluta di circolazione dei capitali
avrebbe potuto compromettere la politica economica di questo
o quello Stato membro o provocare uno squilibrio della sua
bilancia dei pagamenti, pregiudicando così il buon
funzionamento del mercato comune. (Cfr. G. Tesauro, Diritto
Comunitario, Padova, Cedam 1995, pag.384).
La logica complessiva della liberalizzazione dei movimenti
di capitale si basava sulle restrizioni dei cambi. A dare impulso
alla prevista liberalizzazione furono due direttive dei primi anni
sessanta (Direttiva del Consiglio dell’11 maggio 1960, in
GUCE del 12 luglio 1960, p.921; Direttiva del Consiglio del 18
dicembre 1962, in GUCE del 22 gennaio 1963, p.62), che
definivano i movimenti di capitali corrispondenti e funzionali
all’esercizio delle libertà fondamentali (scambi in merci e
servizi, diritto di stabilimento) come completamente
liberalizzati, mentre agli Stati membri rimaneva solo la facoltà
di controllare la natura e la realtà dei trasferimenti.
Tra i movimenti di capitali liberalizzati c’erano ad esempio
gli investimenti diretti, come la costituzione di succursali o di
nuove società, l’acquisto di una partecipazione azionaria,
prestiti a lungo termine, gli investimenti collegati alla libertà di
stabilimento, gli investimenti immobiliari, i crediti a breve e
medio termine ed i movimenti connessi ad operazioni in titoli
trattati in borsa. Inoltre figuravano anche quelle operazioni
come l’emissione e collocamento di titoli su mercato estero,
operazioni in titoli non trattati in borsa, crediti a medio e lungo
anche a fronte di scambi in merci e servizi.
In definitiva, la disciplina comunitaria in tema di capitali
tendeva a liberalizzare i trasferimenti di valuta che fossero il
corrispettivo di scambi in merci, servizi o capitali (art.106 del
Trattato di Roma); e per altro verso, con le direttive di
attuazione dell’art. 67, aveva definito specificatamente e
tassativamente i trasferimenti di capitale in senso proprio
oggetto di liberalizzazione, trasferimenti sempre
complementari all’esercizio delle altre libertà. Rimanevano
oggetto di restrizioni consentite i movimenti di capitali che non
avevano alcun riscontro in scambi di merci o servizi, come la
pura e semplice esportazione materiale di mezzi di
pagamento, senza corrispondenza alcuna (c.d. hot money)
(Cfr. G. Tesauro, Diritto Comunitario, Padova, Cedam 1995, pag.
384-5-6-7).
In via definitiva, le attenzioni maggiori della Comunità
europea si incentravano, di fatto, su tre punti fondamentali:
l’eliminazione di tutte le barriere che ostacolavano il
commercio interno, l’abolizione degli ostacoli alla libera
circolazione dei fattori produttivi e l’adozione di una tariffa
esterna comune.
Oltre alla creazione di un mercato unico, il Trattato
prevedeva nell’art.3, formazioni di politiche comuni verso quei
settori come l’agricoltura e trasporti, e creazioni di istituzioni
tese a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, oltre che
una garanzia di sviluppo verso quelle aree maggiormente
depresse dell’Unione.
Agli esordi della Comunità, il Consiglio fu
sorprendentemente rapido nel provvedere: esso adottò una
prima direttiva nel 1960 e una seconda nel 1962, graduando la
libertà di circolazione dei capitali in base alla diversa natura dei
flussi. La dottrina che ispirò questi primi passi sulla via della
liberalizzazione è chiara. La sua illustrazione più completa può
essere letta nel ben noto rapporto sulla formazione di un
mercato europeo dei capitali, redatto nel 1966 da un gruppo di
esperti presieduto dal Professor Claudio Segré. Questo studio,
che è meritatamente diventato un classico della letteratura
comunitaria, sosteneva che un mercato dei capitali di portata
europea sarebbe divenuto sempre più necessario non solo per
assicurare un miglior funzionamento dello sviluppo, ma anche
per promuovere l’attuazione delle politiche comunitarie in altre
aree. In particolare, un mercato europeo dei capitali era
considerato un presupposto necessario per un’unione
economica monetaria nella Comunità, in quanto avrebbe
contribuito al buon funzionamento di un sistema monetario
internazionale basato sui tassi di cambio fissi e su una totale
libertà delle transazioni valutarie. Queste idee, speranze e
realizzazioni iniziali, erano implicitamente fondate
sull’esistenza di un regime di cambio fissi. Tale regime,
previsto dagli accordi di Bretton Woods, dopo la fine della
seconda guerra mondiale, era a tal punto considerato una
componente naturale del mercato comune che nessuno si
preoccupò di farne esplicita menzione nel Trattato. Ciò è
importante, in quanto l’assunto di cambi fissi è stato una causa
potenziale delle originarie incongruenze nella concezione
globale delle politiche di stabilizzazione della Cee. (Cfr. Padoa-
Schioppa T – L’Europa verso l’unione monetaria - dallo Sme al
Trattato di Maastricht – Einaudi – 1992 – Cap III, pag. 35)
La Politica agricola comune (PAC) risultava essere uno dei
pilastri fondamentali della nascente Comunità e necessitava di
una condizione essenziale per il suo corretto funzionamento e
per la sua gestione, cioè un regime di cambi fissi, e richiedeva
inoltre che il prezzo dei singoli prodotti agricoli, espresso in
termini di valuta comune, fosse identico all’interno dei sei Stati
membri, in contrasto, perciò, con un regime di tassi di cambio
flessibili.
Il Comitato monetario venne creato nel 1958, sulla base
dell’articolo 105 del Trattato Cee, al fine di promuovere il
coordinamento delle politiche degli Stati membri, nella misura
necessaria per il funzionamento del mercato interno.
L’articolo 109c del Trattato elenca una serie di aree in cui al
Comitato monetario veniva demandato il compito di contribuire
alla preparazione dell’attività di Consiglio UE. All’inizio della
terza fase della UEM il Comitato monetario è stato sciolto ed è
stato costituito il Comitato economico e finanziario.
Il Comitato monetario è stato un organo consultivo della
Comunità, composto da due rappresentanti di ciascuno Stato
membro che partecipavano a titolo personale (normalmente,
un rappresentante del governo ed uno della banca centrale) e
da due rappresentanti della Commissione europea.
IL COMITATO DEI GOVERNATORI
L’istituzione del Comitato dei Governatori fu creata nel
1964, con lo scopo prioritario di coordinamento di politiche
comuni, dove fin dalla nascita, rappresentò il luogo ideale dove
i responsabili delle banche centrali si scambiavano le
informazioni necessarie per la risoluzione di problemi di
coordinamento. Il suo ruolo operativo cominciò, in realtà, solo
agli inizi degli anni ’70, per poi far posto, il 1° gennaio 1994,
all’inizio della seconda fase, all’Istituto monetario europeo
(IME), che avrebbe poi preceduto la Bce. Molti anni dopo, e
più precisamente, il 30 maggio del 2000, Willem Duisenberg, il
Presidente della Bce, in occasione del bicentenario della
Banca di Francia, così commentava a proposito della meritoria
opera svolta nel tempo da parte di tale istituzione: Il Comitato
dei Governatori fu centrale alla preparazione dello Statuto del
SEBC e al Trattato di Maastricht e, dopo la firma del Trattato,
svolse i lavori preparatori per tradursi poi nell’Unione
Monetaria (Cfr. From the Emi to Ecb – speech delivered by Dr. W.
Duinsenberg, President of the Ecb, at the Banque de France’s
Bicentennial Syposium, Paris, 30 May 2000 – www.ecb.int)
La situazione economica europea - come abbiamo già
detto - di quasi tutti gli anni sessanta si presentò abbastanza
stabile: gli Stati membri assistettero ad una crescita sostenuta
del prodotto interno, grazie anche al rapido aumento dei
commerci interni dell’area comunitaria, il livello dei prezzi
rimasero contenuti, così come il tasso di disoccupazione.
Nel frattempo, lo scenario continentale, alla fine degli anni
sessanta, con la svalutazione unilaterale del Franco francese e
la rivalutazione del Marco tedesco, rispettivamente nell’agosto
e nell’ottobre del 1969, mutò improvvisamente: le politiche
iniziarono a divergere in maniera sostanziale, nonostante il
processo di formazione dell’unione doganale si fosse
completato ed i primi accenni di una maggiore integrazione
monetaria ed economica si facevano più consistenti. La
volontà politica, tranne alcuni incidenti di percorso, si stava
dirigendo verso quell’unità di intenti da tanti auspicata.
IL PIANO WERNER e LO SNAKE
Il Consiglio europeo, nel dicembre 1969, diede mandato ad
un comitato d’esperti, presieduto allora dal Primo Ministro e
Ministro delle Finanze del Lussemburgo Pierre Werner, per
elaborare uno studio finalizzato all’unione economica e
monetaria, visti anche i presupposti di una rinnovata e positiva
volontà degli Stati membri. Lo studio fu completato nel
dicembre del 1970 e prese il nome di Piano Werner.
Esso contemplava tre diverse tappe che nel corso di dieci
anni, entro la fine degli anni ’80, avrebbe dovuto perseguire il
suo scopo finale, cioè la formazione di un’unione economica e
monetaria dei paesi membri della Comunità. Tre erano le
condizioni fondamentali per l’espletamento di tale piano: la
realizzazione di una definitiva convertibilità fra le monete
nazionali, l’adozione di tassi di cambio irrevocabilmente fissi e
la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale.
Soddisfatti tali parametri, il piano poteva attuarsi, a detta dello
studio di Werner, anche senza l’introduzione di una moneta
unica.
Poca attenzione, invece, fu dedicata dal Piano Werner a
quelle istituzioni che dovevano gestire le tre tappe e la
successiva fase. Difatti il progetto non chiariva in modo
confacente le funzioni degli organismi che avrebbero dovuto
sovrintendere la conduzione della politica monetaria e della
politica del cambio comuni. Tra le varie iniziative fu proposto,
in maniera vaga, la creazione di un Fondo europeo per la
cooperazione monetaria senza specificarne dettagliatamente
la natura, le funzioni e le prerogative rispetto alle autorità
nazionali. Mentre maggiore attenzione veniva dedicata al
processo di completamento del mercato unico, e soprattutto,
ad un efficace coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio
degli Stati membri, avvalendosi tra l’altro, di un Centro
decisionale per la politica economica, un avamposto strategico
che disponeva di competenze specifiche in materia monetaria
e fiscale, che era direttamente responsabile dinanzi al
Parlamento europeo.
Il Piano Werner fu discusso e approvato dal Consiglio
europeo nel marzo del 1971, che affidò l’incarico all’Ecofin ed
al Comitato dei Governatori, per quanto concerneva l’avvio
della prima fase del processo. Sempre nell’ambito del
programma, i Governatori delle banche centrali dei sei paesi
fondatori si accordarono per una banda di oscillazione dei
cambi, abbastanza ristretta, pur mantenendo invariati i margini
con il dollaro, che era la valuta di riferimento degli accordi di
Bretton Woods. Pochi mesi dopo crollò il sistema di cambio di
Bretton Woods, nell’agosto del 1971, accertando così
l’inconvertibilità fra dollaro e oro da parte delle autorità
americane, pregiudicando in tal senso il processo di
integrazione monetaria della Comunità
Per questi motivi si rendeva necessaria una figura che
potesse garantire il mantenimento di un’adeguata stabilità nei
rapporti di cambio fra le valute della Comunità. Si pervenne
così, nell’aprile del 1972, agli Accordi di Basilea, che con la
sottoscrizione dei sei Stati membri, più i tre paesi candidati
all’ingresso, quali Danimarca, Irlanda e Regno Unito, a cui
s’aggiunse un mese dopo la Norvegia, arrivarono ad un
accordo dove si impegnarono a fissare delle parità bilaterali e
a mantenere i cambi all’interno di una banda di oscillazione del
5% attorno a tali parità. L’accordo prese il nome di Serpente
monetario europeo, più familiarmente the snake, che, come
previsto nel Piano Werner, prevedeva un Fondo europeo di
cooperazione monetaria a difesa di prerogative quali
restringimento dei margini di fluttuazione e gestione delle linee
di credito bilaterali a disposizione delle singole banche centrali
nazionali. Lo snake obbligava le monete dei paesi aderenti a
muoversi conformemente al dollaro, ma quando lo shock
petrolifero, a metà degli anni ’70, esplose in tutta la sua
interezza, le divergenze di natura politica, in seno all’Unione
europea, si fecero tangibili. Difatti il Regno Unito prese la
decisione, nel 1972, di uscire dal Serpente monetario europeo,
seguita nel 1973 dall’Italia e un anno più tardi dalla Francia,
obbligando così la Comunità a riconoscere l’impossibilità
dell’attuazione completa del Piano Werner.
LO SME e L’ECU
La Germania ed altri paesi minori, che durante l’era dello
snake seguirono zelanti le direttive dell’organismo, riallineando
continuamente le proprie valute anche a costo di sacrifici
notevoli, conoscevano manifestazioni inflazionistiche
contenute; mentre in Francia, Regno Unito ed Italia, le cui
valute erano in un regime di libera fluttuazione, conoscevano
tassi di inflazioni molto elevati. Ora, la Comunità, sotto l’egida
della Germania e della Francia, decise di sostituire lo snake
con un altro strumento che avesse avuto caratteristiche di
durevolezza ed efficacia maggiori. Nel marzo 1979, per
garantire ulteriormente la stabilità monetaria all’interno della
Comunità, si optò per la creazione del Sistema monetario
europeo (Sme), che aveva le peculiarità di avere un margine di
fluttuazione fra le valute che non si sarebbero più basate su
una griglia di parità bilaterali, bensì sul tasso di cambio con
una valuta-paniere: l’Ecu (European Unit Currency), che
raggruppava tutte le monete dei singoli Stati membro. L’Ecu
era indicativo dell’andamento medio delle diverse economie
nazionali e divenne un termine di raffronto indispensabile,
togliendo, allo stesso tempo, quella centralità e potenza che il
Marco tedesco allora godeva: insomma, un sistema più
simmetrico.
La filosofia dello schema di funzionamento dello Sme è
derivato dal convincimento che lo stato di coesione ed
integrazione delle economie non permetteva di rinunziare allo
strumento di aggiustamento a lungo termine dell’equilibrio
esterno costituito dal tasso di cambio. Si è avuto peraltro
presente, da un lato, che in economie aperte, integrate e
indicizzate, la manovra del cambio non poteva di per sé
rappresentare uno strumento adeguato di aggiustamento e,
dall’altro, che un tasso di inflazione elevato e variabile non
avrebbe consentito un processo sostenibile di sviluppo reale.
In queste condizioni si è quindi convenuto che tempestivi e
discreti adeguamenti dei tassi di cambio centrali, sia pure
effettuati tramite accordo reciproco secondo una procedura
comune in cui intervenivano tutti i paesi partecipanti al
meccanismo di cambio e la Commissione, sarebbero stati una
caratteristica fondamentale del sistema.
Nel periodo, marzo 1979 – marzo 1987, i mercati furono
caratterizzati da ampie variazioni dei tassi di cambio fra le
valute dei principali paesi industriali, come il discontinuo ma
marcato apprezzamento del dollaro e dello yen, creando non
poche difficoltà al sistema. (Cfr. Rainer - Masera – L’unificazione
monetaria e lo SME – L’esperienza dei primi otto anni – Bologna -
Società Editrice Il Mulino – 1987 Cap. I e IV, pag. 31 e pag. 134)
Quindi lo Sme possedeva un doppia natura: era una
realizzazione, ed allo steso tempo, una promessa. La
realizzazione era lo Sme in quanto tale, come esisteva allora,
dove l’Ecu definiva le parità delle monete, determinava la
divergenza di ogni moneta dal gruppo delle altre, identificando,
così, la moneta deviante, e fungeva da mezzo di pagamento
tra le banche centrali. Promessa perché lo Sme si sviluppasse,
che divenisse definitivo, insomma istituzionale: che crescesse
e si rafforzasse.
All’interno dello Sme, l’Ecu svolgeva, tra l’altro, la funzione
di attività di riserva ufficiale e mezzo di finanziamento e di
regolamento a brevissimo termine: ruolo in parte limitato,
soprattutto a causa della prevalenza degli interventi in dollari
(due terzi degli interventi totali).
L’Ecu era una moneta-paniere molto particolare, e le
monete che lo componevano erano legate tra di loro da un
meccanismo di cambio; era espressione monetaria di un’area
economica integrata, con un diritto comunitario, un Parlamento
eletto, alcune politiche comuni e un bilancio; ed infine esso
aveva una vasta gamma di applicazioni, anche se
quantitativamente limitata: era usato nello Sme e nel bilancio
comunitario, seppur di modesta entità, denominato appunto in
Ecu; nelle politica agricola comune ed infine veniva anche
utilizzato al di fuori della Comunità, e più precisamente, presso
i paesi aderenti alla Convenzione di Lomé.
Comunque, a quel tempo, non si attribuiva all’Ecu un ruolo
preminente e centrale, esso rappresentava sì, un utile
strumento per la costruzione di una dimensione monetaria
europea, ma dall’altra parte, si considerava l’obiettivo di una
graduale unificazione monetaria anche senza di esso. Anzi,
era considerato da alcuni, un perfetto alibi per non affrontare di
petto i fondamentali squilibri economici nazionali, che
avrebbero poi inficiato gravemente sulla configurazione di una
futura moneta unica.
Nell’ambito del Sistema monetario europeo, è importante
rammentare il ruolo del Fecom (Fondo europeo di
cooperazione monetaria), che ha svolto, in piccolissima parte,
mansioni antesignane a quelle della futura Bce, tra l’altro con
scarso successo.
Le bilateralità che erano caratterizzanti dello snake, si
riproposero anche nello SME, che fu oggetto di frequenti
riallineamenti e progressivi mutamenti; il sistema ebbe vita, tra
alti e bassi, sino al 1992.