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CAPITOLO I
CENNI STORICI
1. La bancarotta e la storia del diritto – 2. L’evoluzione nel diritto romano – 3. Il regresso nel periodo barbarico – 4. La rinascita
commerciale – 5. Dalla legislazione napoleonica a quella attuale
1. La bancarotta e la storia del diritto
È tradizione iniziare l’analisi di un reato ripercorrendone brevemente la storia, in modo da
comprendere quali sono state le vicende che ne hanno determinato la fisionomia attuale;
tuttavia, l’utilità di quest’indagine storica varia sensibilmente a seconda del crimine preso in
esame, per cui è innanzi tutto lecito chiedersi se essa sia assolutamente necessaria
relativamente alla bancarotta.
Tutto considerato, si può affermare che la bancarotta è un reato per lo studio del quale la
ricerca storica è imprescindibile. Infatti, è ovvio che ogni illecito penale è destinato ad essere
fortemente influenzato dal contesto sociale, ma questa caratteristica risulta esaltata ai massimi
livelli nella bancarotta, poiché essa è posta a tutela del credito e, quindi, è destinata ad
evolversi in armonia con i mutamenti del diritto dell’economia e del commercio.
2. L’evoluzione nel diritto romano
Come per moltissimi istituti moderni, anche le origini della bancarotta possono essere
ricercate nel diritto romano, anche se non si deve credere di potere apprezzare quella
somiglianza, se non addirittura quella sostanziale identità, tra la figura giuridica romana e
quella attuale che in altri casi è la prassi; si può però notare lo sviluppo di alcuni importanti
principi ancora oggi fondamentali in materia.
3
Invece, non c’è la possibilità di spingere la nostra analisi al diritto di altri popoli antichi,
poiché dalle fonti giunte fino a noi non emerge un istituto anche solo lontanamente
assimilabile alla bancarotta, nonostante l’indubbia importanza rivestita dal commercio tra i
Greci, gli Egizi e le altre popolazioni del bacino mediterraneo.
Del resto, lo stesso diritto romano arcaico non si discostava dalla regola, allora comune,
per cui era la persona del debitore a rappresentare la garanzia del debito. Secondo la legge
delle XII Tavole, il creditore, che fosse stato riconosciuto tale con una legis actio dichiarativa
e che non fosse stato soddisfatto entro trenta giorni dal riconoscimento del suo credito, poteva
agire nei confronti del debitore con la legis actio per manus iniectionem, con la quale
l’insolvente diventava addictus, ovvero sottoposto ad una forma di carcerazione privata da
parte del suo creditore
1
; quest’ultimo tratteneva l’addictus presso di sé per sessanta giorni e
aveva l’obbligo di condurlo per tre volte consecutive al mercato, che allora si teneva una volta
ogni nove giorni e si diceva nundina, affinché qualcuno potesse riscattarlo. Trascorso
inutilmente questo periodo, il debitore poteva essere venduto come schiavo trans Tiberim o, a
discrezione del creditore, ucciso; anzi, qualora i creditori fossero stati più d’uno, la seconda
Tavola li legittimava non solo all’uccisione del debitore, ma anche alla macabra pratica del
suo smembramento (partes secanto), affinché ciascuno ne avesse la propria parte
2
. Va detto,
però, che secondo le fonti pervenuteci questa soluzione non venne mai stata praticata. Aldilà
di ciò, tuttavia, il diritto romano si caratterizzava in questa fase per l’estrema durezza
dell’esecuzione personale e per la totale assenza di una distinzione tra il debitore insolvente in
mala fede e quello privo di ogni colpa, se non nel caso specifico dell’incendio non doloso, per
1
Il debitore poteva evitare l’addictio grazie all’intervento in sua garanzia o difesa di un vindex, che poteva
contestare i presupposti della manus iniectio, sostenendo l’inesistenza della sentenza dichiarativa o l’avvenuta
solutio, ma che non poteva mettere in dubbio il contenuto della condanna dichiarativa. Qualora ciò fosse
avvenuto, si sarebbe istituita una nuova legis actio dichiarativa in cui il vindex soccombente sarebbe stato
condannato al pagamento del doppio del credito iniziale.
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Peraltro, molti autori ritengono il “parte secare” della II tavola solamente un’espressione enfatica (LONGHI,
Bancarotta ed altri reati in materia commerciale, p. 9 nota 2).
4
il quale il trattamento riservato all’incolpevole era più lieve rispetto a quello previsto per chi
aveva agito volontariamente
3
.
Un punto di svolta fondamentale fu rappresentato dalla Lex Poetelia Papiria del 326 a.C.
con cui si abolì il nexum per i debitori in buona fede. Il nexum era un istituto in virtù del quale
colui che otteneva in prestito una somma di denaro era da subito obbligato a vivere presso il
suo creditore e a lavorare per lui fino all’estinzione del debito. Questa pratica, comprensibile
nella società romana più arcaica, basata sull’agricoltura e non sul commercio, era con il tempo
divenuta odiosa, anche in considerazione del fatto che i nexi, il cui numero era nel frattempo
enormemente cresciuto, erano per la maggior parte plebei; perciò, nel corso delle lotte tra
questi e i patrizi, uno dei principali successi della plebe fu proprio la cancellazione di questo
vincolo per coloro che erano incolpevolmente in debito. L’aspetto più importante della Lex
Poetelia Papiria era proprio la distinzione che essa poneva tra coloro che venivano sciolti dal
nexum in quanto incolpevoli e coloro che, invece, vi rimanevano sottoposti e sottoponibili,
ovvero i debitori di mala fede. Si veniva perciò a creare un duplice regime, per cui gli
insolventi incolpevoli dovevano solo più soddisfare le pretese patrimoniali dei propri
creditori, rimanendo comunque obbligati fino alla totale estinzione del debito, mentre coloro
che erano in mala fede continuavano ad essere sottoposti all’esecuzione personale. Va detto,
al fine di non enfatizzare più del dovuto la portata innovativa della legge, che gli appartenenti
ad entrambe le categorie continuavano ad essere marchiati come infames, con tutte le
incapacità da ciò derivanti
4
.
Inoltre, la Lex Poetelia Papiria presentava anche un secondo aspetto importantissimo:
l’introduzione del principio per cui la vera garanzia dell’obbligazione doveva essere cercata
3
Si legge infatti nella tavola VIII.10: “si minus idoneus sit levius castigatus”.
4
Le incapacità legate all’infamia erano soprattutto di diritto pubblico, con la perdita dei diritti elettorali attivi,
e di diritto processuale, con la previsione di numerose limitazioni relative alla rappresentanza processuale attiva
e passiva.
5
nel patrimonio del debitore e non nella sua persona
5
. Perciò la legge inseriva nel sistema due
concetti ancora oggi operanti nel nostro ordinamento; infatti, se, da un lato, l’affermazione
della garanzia patrimoniale era un necessario presupposto per lo sviluppo di un diritto
obbligazionario idoneo ad una società basata sullo scambio commerciale e non più
sull’autosussistenza agricola, dall’altro, l’esecuzione personale non veniva eliminata, ma
bensì destinata a coloro che avevano agito in mala fede, perdendo così il suo carattere di
normalità a favore di quello dell’afflittività. In sostanza, con la Lex Poetelia Papiria si
affermava anche il principio per cui il debitore fraudolento doveva essere punito per il suo
comportamento.
Tuttavia, il grande innovatore del diritto romano era il pretore e anche per quanto
riguardava l’esecuzione nei confronti del debitore fu grazie allo ius praetorium che si ebbe
una delle evoluzioni più significative; normalmente, infatti, si accosta il nome del pretore
Rutilio
6
alla creazione dell’istituto della bonorum venditio, vero e proprio antecedente storico
della nostra procedura concorsuale. Essa cominciava quando un creditore si rivolgeva al
pretore per ottenere la missio in bona
7
, per cui il debitore, senza nemmeno poter conservare
quanto gli occorreva per sopravvivere, perdeva totalmente il controllo del proprio patrimonio,
che passava sotto la gestione del creditore al fine di evitare ulteriori pregiudizi (rei servandae
causa). In seguito allo spossessamento il pretore disponeva la proscriptio, atto con cui tutti gli
altri eventuali creditori venivano informati dell’apertura della procedura. Se entro trenta
giorni dalla proscriptio il debitore risultava ancora insolvente, egli veniva dichiarato infamis e
la procedura proseguiva; i creditori nominavano un magister bonorum, incaricato di
predisporre la vendita di tutto il patrimonio del debitore, mentre il pretore poteva nominare un
5
Come scrisse Livio in proposito: “pecuniae crediate bona debitoris, non corpus obnoxium esse”.
6
Però, secondo MARRONE (Istituzioni di diritto romano, p. 106 nota 103) è inverosimile tale attribuzione,
risalente a Gaio, in considerazione del fatto che Rutilio visse intorno al 118 a.C. L’autore citato, rifacendosi a
Livio, ritiene l’introduzione della bonorum venditio molto più risalente nel tempo e collocabile perfino intorno
alla metà del IV sec. a.C., più o meno contemporaneamente alla Lex Poetelia Papiria.
7
Detta anche missio in possessionem omnium bonorum.
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curator bonorum che gestisse temporaneamente i beni spossessati
8
. Una volta che il pretore
avesse approvato le condizioni di vendita stabilite dal magister bonorum si procedeva con la
bonorum venditio, consistente in una vera e propria asta, che veniva vinta da chi si offriva di
pagare la più alta percentuale di debiti; costui, detto bonorum emptor, subentrava al debitore,
sia sotto il profilo passivo, nei limiti dalla percentuale offerta al momento della venditio, sia
sotto il profilo attivo, come se fosse un suo successore universale. Perciò, era possibile che, in
seguito alla venditio, venisse convenuto da singoli creditori dello spossessato affinché
pagasse, sempre nella percentuale predeterminata, i debiti residui.
Il bonorum emptor non acquistava la proprietà quiritaria dei beni del debitore, ma solo
quella pretoria, per cui erano previste delle actiones pretorie basate su fictiones e delle
denegationes actionis in suo favore
9
.
La modernità della soluzione pretoria era innegabile, ma essa non era priva di aspetti
afflittivi del debitore. Infatti, egli non veniva totalmente liberato dai suoi debiti, poiché i
creditori potevano sempre convenirlo affinché pagasse la differenza tra il dovuto e la
percentuale già versata dal bonorum emptor. Inoltre, come già detto, in seguito alla missio in
bona, il debitore non aveva diritto a trattenere neanche il minino necessario per sopravvivere.
Infine, tutta la procedura non solo non evitava l’infamia, ma si svolgeva anche in modo tale
da risultare la più umiliante possibile per il debitore
10
, a riprova del fatto che il debito veniva
ancora considerato quasi come una colpa, anche se non vi era ombra di mala fede.
8
La nomina era solo eventuale in quanto il patrimonio del debitore poteva anche essere gestito fino alla
bonorum venditio dal creditore che aveva chiesto la missio in bona.
9
Infatti, il pretore non poteva attribuire al bonorum emptor la forma di proprietà quiritaria (dominium ex iure
Quiritium), che era acquisibile solo secondo determinati modi, ma poteva considerarlo come se fosse un
proprietario quiritario, garantendogli la possibilità di agire in tutela del patrimonio acquisito sia fingendo che egli
fosse il successore del debitore (actio Serviana) sia permettendo la trasposizione dei soggetti dell’azione (actio
Rutiliana). Inoltre, il pretore poteva evitare che il bonorum emptor fosse turbato nel proprio possesso negando
l’azione a chi volesse convenirlo.
10
Scriveva Tertulliano: “bonorum adhibita proscriptione, suffundere hominis sanguinem plus quam effondere”.
7
A testimonianza del fatto che per lungo tempo anche dopo la bonorum venditio il debitore
continuava ad essere perseguitabile fino alla totale solutio, va detto che solo con le leges
Popilia (di Silla) e Iulia municipalis (43 a.C.) gli venne concessa la possibilità dell’ejuratio
bonae copiae, ovvero un giuramento di insolvenza non colpevole in seguito al quale i
creditori rinunciavano definitivamente all’esecuzione personale, limitandosi a quella reale.
In ideale continuità con la tendenze ormai affermatesi, sotto Augusto venne emanata la
Lex Iulia de cessione bonorum (7 a.C.), con cui si concedeva al debitore insolvente di buona
fede di chiedere la propria cessio bonorum senza che ciò comportasse la proscriptio e
l’infamia e, naturalmente, senza possibilità per i creditori di ricorrere all’esecuzione
personale.
Inoltre, a differenza di quanto previsto nella soluzione pretoria, il debitore aveva il diritto
di trattenere quanto gli era strettamente necessario per la propria sopravvivenza; poteva, cioè,
ottenere il beneficium competentiae
11
, per cui avrebbe subito l’esecuzione entro il limite
dell’id quod facere potest.
La Lex Iulia aveva il merito di prevedere alcuni principi che ancora oggi sono a
fondamento del diritto fallimentare, tanto che alcuni autori considerano la sua emanazione
come il primo passo verso la sua moderna elaborazione
12
.
In effetti, si trovavano per la prima volta chiaramente espressi tre concetti basilari: innanzi
tutto, era delineato il diritto dei creditori di disporre di tutti i beni del debitore; in secondo
luogo, veniva affermata la par condicio creditorum, visto che l’iniziativa del singolo creditore
non era prevista in suo esclusivo favore, ma aveva solamente l’effetto di dare vita a quella che
oggi è la massa, su cui ogni creditore vantava, in proporzione al suo credito, un diritto; infine,
si operava una distinzione netta tra i debitori di buona fede e quelli che avevano agito
11
Il beneficium competentiae rappresentava un limite invalicabile a favore del debitore condannato; esso
veniva stabilito integrando la condemnatio del processo formulare con un’apposita sottoparte, detta taxatio.
12
Così LONGHI, op.cit., p. 11 e, soprattutto, PUNZO, Il delitto di bancarotta, pp. 5 – 6
8
fraudolentemente
13
. Per questi ultimi la Lex Iulia non apportava nessun miglioramento,
poiché non prevedeva la possibilità che essi potessero chiedere da sé la propria esecuzione
patrimoniale. Continuava, quindi, a prevalere quell’ottica punitiva, che richiedeva la loro
umiliazione continua, sia al momento della vendita dei beni, che veniva fatta dando all’evento
la massima pubblicità, sia in ogni altro istante della vita pubblica; basti ricordare una Lex
Roscia che, nel disciplinarne l’accesso a teatro, prevedeva per loro l’obbligo di sedere in posti
riservati, affinché potessero essere riconosciuti e additati, e che sotto Adriano fu modificata
prevedendo espressamente che essi fossero catamidiati, ovvero esposti al riso e sbeffeggiati.
Peraltro, nonostante l’estrema durezza con cui i debitori in mala fede venivano trattati, il
fenomeno non solo non si arrestò, ma continuò a dilagare, tanto che Valentiano si trovò
costretto a prevedere la pena capitale, confermata anche da Graziano. Ad essa furono
accostate nel corso del periodo imperiale numerose pene accessorie contro il debitore
fraudolento, come la condanna alla restituzione nel doppio o nel quadruplo e varie forme di
restrizione della sua capacità giuridica.
Facendo ritorno allo ius praetorium, va anche ricordato che i pretori non si limitarono a
disciplinare l’esecuzione patrimoniale, ma crearono anche dei rimedi che consentissero di
evitare i pregiudizi volontariamente provocati dal debitore al proprio patrimonio: la denegatio
actionis, l’in integrum restititutio ob fraudem e l’interdictum fraudatorium. Come già
accennato, la denegatio actionis era un rimedio tipicamente previsto in favore del bonorum
emptor, che, grazie ad esso, non poteva essere convenuto dal terzo creditore con cui
l’insolvente si fosse obbligato solo al fine di accrescere il proprio passivo. L’in integrum
restititutio ob fraudem, invece, poteva essere richiesta dal curator bonorum che avesse
riscontrato l’esistenza di atti di indebitamento fraudolento; se il pretore concedeva il rimedio,
il magister bonorum predisponeva la venditio considerando come parte dei bona anche quelli
13
Le disposizioni della Lex Iulia furono poi estese ad una serie di categorie per le quali appariva impossibile
parlare di mala fede, come i pupilli, i prodigi e i furiosi privi di tutore. In età classica, ma per finalità
evidentemente diverse, un senatoconsulto la rese applicabile anche agli appartenenti al rango senatorio.
9
oggetto degli atti fraudolenti, ma il materiale recupero di tali beni veniva condotto
dall’emptor. Infine, l’interdictum fraudatorium era direttamente esperibile dal singolo
creditore dopo la bonorum venditio; peraltro, anche se l’iniziativa era individuale, la
restituzione conseguente all’interdictum avveniva a vantaggio di tutti i creditori
14
. Tutti e tre
questi rimedi richiedevano gli stessi presupposti: l’eventus damni, il consilium fraudis e la
scientia fraudis. L’eventus damni aveva carattere oggettivo: il presupposto era realizzato
quando il comportamento del debitore aveva determinato un pregiudizio ai creditori, avendo
ridotto il patrimonio in misura insufficiente o ancor più insufficiente per la loro soddisfazione.
Invece, erano requisiti soggettivi sia il consilium sia la scientia fraudis. Il primo era relativo al
debitore ed era verificato quando si dimostrava che egli aveva agito al fine di pregiudicare i
creditori; l’analisi di questo presupposto non era condotta prestando attenzione ai meri
comportamenti esteriori, ma bensì conducendo una vera e propria indagine psicologica
15
. La
scientia fraudis era viceversa da riscontrarsi nella persona del terzo creditore con cui il
debitore compiva l’atto pregiudizievole e consisteva nella consapevolezza del consilium
fraudis. Al momento della compilazione del Digesto, i tre rimedi pretori furono riuniti in uno
solo, che venne definito actio Pauliana, dal nome del giureconsulto Paolo, e che rappresentò
l’antecedente storico dell’attuale azione revocatoria prevista dagli artt. 2901 – 2904 del codice
civile.
Giunto, quindi, al suo completo sviluppo in materia, il diritto romano aveva ormai
abbandonato la primitiva esecuzione personale per sostituirla con quella patrimoniale e aveva
operato una netta distinzione tra il debitore incolpevole, responsabile solo patrimonialmente, e
quello fraudolento, che doveva essere anche punito per il suo comportamento. Inoltre, erano
14
Su ciò non ci sono dubbi, anche se dalle fonti a noi pervenute non è dato di capire in quale modo si
procedesse; molti ipotizzano che il bene recuperato fosse venduto e che il prezzo fosse spartito tra tutti i creditori
(cfr. MARRONE, op.cit., p. 573 nota 341).
15
Così CONTI, I reati fallimentari, p. 6.
10
stati contemporaneamente sviluppati degli strumenti giuridici volti ad eliminare il pregiudizio
patrimoniale volontariamente provocato dal debitore.
3. Il regresso nel periodo barbarico
Le invasioni barbariche dell’impero romano occidentale provocarono in numerosi campi
un regresso, che fu il preludio di una nuova evoluzione in parte dovuta alla riscoperta e alla
riaffermazione delle concezioni romane e in parte alla loro rielaborazione alla luce dei nuovi
contesti sociali.
Così accadde anche per quanto era relativo ai rapporti tra creditori e debitori.
L’arretratezza economica e la povertà che contraddistinguevano le originarie condizioni di
vita degli invasori avevano mantenuto in vita un sistema basato sull’esecuzione personale,
ovvero sulla riduzione in schiavitù o sull’uccisione dell’insolvente, senza nessuna indagine
sui motivi della sua inadempienza.
Peraltro, presso alcune popolazioni era in realtà prevista anche l’esecuzione patrimoniale,
che doveva precedere quella personale e che poteva anche evitarla in caso di totale
soddisfazione del creditore. Così, ad esempio, la legge Salica prevedeva, innanzi tutto, che
l’inadempimento comportasse un accrescimento della prestazione dovuta e, inoltre,
consentiva al debitore di obbligare in sua vece i parenti per mezzo di una procedura detta
crene cruda
16
, per alcuni versi assimilabile all’intervento del vindex per evitare l’addictio.
Tuttavia, se non vi era l’estinzione del debito, l’insolvente poteva poi essere catturato e
perfino ucciso.
16
La procedura prevedeva un solenne giuramento da parte del debitore, che affermava di non possedere più
nessun bene che non fosse già stato consegnato ai creditori, e nel trasferimento dell’obbligazione sui prossimo
congiunti, su cui veniva simbolicamente gettato un pugno di terra raccolta ai quattro angoli della casa del
debitore. Naturalmente, in seguito a questo rituale, i parenti erano soggetti anche all’esecuzione personale.
11
Presso i Longobardi l’insolvenza e l’occultamento di beni venivano puniti con una pena
pecuniaria, ma spesso anche con la riduzione in schiavitù fino all’estinzione dell’obbligazione
con il lavoro sia del debitore sia dei suoi familiari
17
. È interessante ricordare che la sottrazione
di cose dovute era considerata dal diritto longobardo come un furto e come tale era punita.
4. La rinascita commerciale
Dopo l’anno mille, i liberi Comuni dell’Italia divennero i protagonisti della ripresa dei
commerci, cui si accompagnò anche la necessità di una loro disciplina giuridica assai più
complessa di quella che si era rivelata sufficiente nel periodo barbarico, caratterizzato da
un’economia stagnante e di sussistenza. Fu pertanto a partire da questo momento che si
riscoprì e si ricominciò a far evolvere quanto era venuto ad affermarsi nel periodo romano.
Gli statuti comunali, infatti, pur con inevitabili differenze tra l’uno e l’altro, si occuparono
di disciplinare dettagliatamente le procedure fallimentari, inibendo la possibilità
dell’esecuzione personale
18
, istituendo apposite magistrature, regolamentando l’accertamento
dei crediti e prevedendo la nomina di curatori e rappresentanti dei creditori. In continuità con
il passato, le sanzioni per gli insolventi rimasero estremamente severe e di solito consistenti
nell’indegnità, da cui derivavano numerose forme di capitis deminutio, nel bando e nella
privazione dei diritti politici.
Inoltre, se è pur vero che venne finalmente riproposta la distinzione tra l’insolvente
incolpevole e quello di mala fede, tuttavia, ciò comportò un ulteriore inasprimento delle
sanzioni per quest’ultimo e non una mitigazione per il debitore di buona fede. Proprio la
severità della reazione all’insolvenza portò poi alla necessità di prevedere degli istituti in
17
Secondo il diritto di numerose popolazioni barbare la schiavitù era immediatamente conseguente al prestito,
come nel nexum.
18
E proprio l’insistenza con cui a lungo si ribadì questo concetto testimonia quanto la pratica dovesse
nonostante tutto essere frequente.
12
grado di consentire al debitore una minima libertà di movimento, indispensabile affinché
potesse soddisfare i suoi creditori; vennero perciò previsti salvacondotti, moratorie,
soppressorie, dilatorie e concordati.
Questo complesso regime, volto a disciplinare l’insolvenza e a punire il debitore, era
talvolta applicabile ai soli commercianti e talvolta esteso a tutti i cittadini del Comune
19
; ciò
dipendeva da quanta parte della popolazione comunale fosse effettivamente coinvolta nelle
vicende mercantili. Laddove, essendo il commercio l’attività principale della maggioranza
degli abitanti, il fallimento era previsto per tutti, spesso si introdussero degli inasprimenti nei
confronti del ceto commerciale. Gli appartenenti a quest’ultimo, erano tra l’altro tenuti alla
compilazione e alla conservazione di libri contabili, la cui assenza o irregolarità facevano
presupporre la frode; analoga presunzione derivava dalla fuga.
In questo periodo il termine “bancarotta” non stava ancora ad indicare il reato commesso
dal fallito, bensì l’insolvenza stessa. Nei confronti del debitore si era affermato un
atteggiamento duro e basato su presunzioni, spesso incontestabili, di fraudolenza. Sintetizzava
appieno lo spirito delle legislazioni comunali l’opinione di Baldo degli Ubaldi, che intorno
alla metà del XIV secolo affermava “est decoctor, ergo fraudator” e anche “falliti dicuntur
fraudatores”
20
.
Tuttavia, con il trascorrere del tempo, iniziarono ad affermarsi nuove concezioni e nel
XVI secolo Benvenuto Stracca operò una fondamentale tripartizione tra gli insolventi, che
suddivise in fortuiti, dolosi e colposi
21
. Inoltre, egli sostituì alle presunzioni inconfutabili
tipiche del precedente periodo una serie di ipotesi in cui il comportamento del fallito si
presumeva fraudolento, ma solo fino a prova contraria. I comportamenti sospetti erano
19
Ad esempio, sia a Milano sia a Firenze potevano fallire solo i mercanti, mentre a Venezia e a Genova la
procedura concorsuale risultava applicabile universalmente.
20
Consilia, V, 399 e 482
21
Ovvero “qui fortunae vitio decoquunt”, “qui suo vitio conturbant fortunas et rationes” e “qui partim suo vitio
partim fortunae decoxerunt” (Decisiones et tractatus varii de mercatura, 1553, III, 2).
13
riconducili a quattro categorie: la mancanza o la distruzione delle scritture contabili, la
sottrazione e la dissimulazione delle mercanzie, il compimento di atti lesivi della garanzia
patrimoniale in periodo sospetto e gli artefici e i comportamenti dilatori del fallimento
imminente. Si trattava, come si vede, di condotte che ancora oggi possono costituire ipotesi di
bancarotta. Il sistema tratteggiato da Stracca era estremamente moderno, specie se confrontato
con la precedente impostazione, riassunta da Baldo, ma per lungo tempo, nonostante
l’inestimabile contributo di queste teorizzazioni per l’evoluzione della materia, le legislazioni
positive continuarono ad ispirarsi ai principi ormai consolidatisi
22
.
Tra i molti testi normativi che nel corso dei secoli si sono occupati della materia,
particolare rilievo merita l’Ordinanza del 1673 di Luigi XIV, poiché essa rappresenta il punto
d’origine della separazione tra il fallimento e l’insolvenza civile
23
. Disciplinavano la
bancarotta fraudolenta gli articoli 10 e 11
24
. Il primo puniva la distrazione dei beni, la
presentazione di creditori fittizi e l’esposizione di passività superiori alle reali da chiunque
effettuate; il secondo ammetteva la possibilità della condanna per bancarotta fraudolenta dei
mercanti, dei negozianti e dei banchieri che non avessero presentato scritture contabili
regolarmente tenute. Va messa in giusta luce la differenza tra le due norme. L’articolo 10
conteneva una presunzione invincibile, per cui chiunque avesse tenuto le condotte da esso
descritte era senza ombra di dubbio un bancarottiere fraudolento; perciò, secondo
quest’impostazione, la bancarotta non era più da identificarsi con il fallimento dolosamente
22
In Italia una delle poche eccezioni fu rappresentata dalla legislazione veneziana, mentre rimase
eccezionalmente severa, tra le altre, quella sabauda, come si può vedere, ad esempio, nelle costituzioni di
Vittorio Amedeo II (1720), dove per la prima volta compare in una normativa peninsulare la dizione “bancarotta
fraudolenta”.
23
Gli studiosi sono concordi nel sottolineare questo fatto, ma anche nel concludere che i contemporanei di
Luigi XIV, tra cui probabilmente gli stessi compilatori, non furono invece in grado di rendersene conto.
24
Art. 10. Declarons banqueroutiers fraudoleux ceux qui auront diverti leurs éffets, supposé des créanciers,
ou declaré plus qu’il n’estoit deu aux véritables créanciers.
Art. 11. Les negociants et merchands tan en gros qu’en détail, et les banquiers, qui lors de leur fallite ne
representerons pas leurs régistres et journaux signéz et paraphéz comme nous avons ordonné ci dessus,
pourront estre reputéz banqueroutiers fraudduleux.
14
causato, ma bensì consisteva in un illecito commesso dal fallito e distinto dal fallimento.
Invece, l’articolo successivo conteneva ancora una presunzione iuris tantum: chi non avesse
presentato scritture contabili regolari poteva essere un bancarottiere fraudolento, ma poteva
anche non esserlo. Perciò , tra le due, solo la seconda norma si era mantenuta realmente fedele
alle teorizzazioni dello Stracca e continuava ad identificare la bancarotta con il fallimento
dolosamente causato; invece, l’articolo 10, probabilmente senza che neppure i suoi estensori
ne avessero piena coscienza, rappresentava il superamento delle concezioni fin lì maturate e
apriva la strada ad un’ulteriore evoluzione della bancarotta.
5. Dalla legislazione napoleonica a quella attuale
La prima normativa moderna che si occupò della bancarotta fu il codice di commercio
napoleonico del 1807. Esso introdusse la distinzione tra la bancarotta fraudolenta e quella
semplice. La prima venne a comprendere un maggior numero di condotte rispetto alla
normativa seicentesca, ma continuò a mantenere la bipartizione introdotta dall’Ordinanza del
1673 tra ipotesi in cui il reato inevitabilmente sussisteva e altre in cui era possibile ma non
necessario parlare di bancarotta. La seconda prese in considerazione una serie di condotte
meno gravi, ma ritenute comunque punibili.
Nel 1838 la legge del 28 maggio novellò il codice napoleonico, lasciando immutata la
bancarotta semplice, ma eliminando le ultime presunzioni iuris tantum relative a quella
fraudolenta. Così, essa assunse integralmente la fisionomia odierna, cioè quella di un reato
commesso dal fallito e distinto dal fallimento stesso.
L’Italia subì appieno l’influenza francese; sia il codice albertino del 1842 che quelli
unitari del 1865 e del 1882 non fecero altro che riproporre la legislazione transalpina e
nell’ultima codificazione citata anche la bancarotta semplice cessò di essere concepita come
un fallimento colposo e divenne un illecito penale commesso dal fallito a titolo di colpa.
15
In seguito alla codificazione di Napoleone, si crearono sul punto tre grandi famiglie
giuridiche. La prima, ispirata dalla normativa francese, è caratterizzata dall’ammissibilità dei
soli commercianti al fallimento e dell’impiego del sistema casistico nel definire le condotte
bancarottiere. Ad essa appartengono le legislazioni dei principali paesi dell’Europa
occidentale e dell’America latina
25
; in tale tradizione si colloca appieno anche l’attuale testo
italiano in materia di bancarotte, ovvero il Regio Decreto 267 del 1942, noto come “Legge
fallimentare”.
La seconda famiglia, che ha come capostipite la disciplina tedesca, comprende paesi in cui
il fallimento può interessare chiunque e la formulazione del reato è stata elaborata cercando di
astrarre un nucleo essenziale dalle singole condotte
26
.
Infine, nei sistemi della terza famiglia, che possiamo dire inglese o anglosassone,
chiunque può fallire, come nei sistemi tedeschi, ma le condotte penalmente rilevanti sono
individuate con una casistica, che tuttavia è ben distinta da quella tipica del modello
francese
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Ultimamente, a livello continentale, si auspica da più parti un’uniformazione, almeno
all’interno dell’Unione Europea, che per il momento appare però improbabile sia per ragioni
tecniche sia per convinzioni politiche.
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Vengono ritenute appartenenti alla famiglia francese le legislazioni di Francia, Italia, Spagna, Portogallo,
Olanda, Belgio, Lussemburgo, della Romania e dei paesi dell’America meridionale. Secondo il CONTI, però, la
Spagna, insieme ad alcuni paesi latino-americani (Brasile, Argentina, Cile, Uruguay e Perù) costituirebbe una
famiglia a sé, caratterizzata dall’estensione dell’incriminazione a tutti, ma anche dalla maggior gravità delle pene
previste per i commercianti.
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Sono riconducibili alla famiglia tedesca: Germania, Austria, Russia, Ungheria Norvegia e Danimarca.
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Appartengono a questa famiglia il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada e i paesi del Commonwealth. Va
ricordato che il termine giuridico inglese “bankruptcy” non va indica la nostra bancarotta, ma bensì il fallimento.