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PARTE PRIMA - LA CRISI D’IMPRESA
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Capitolo Primo - Fenomeni di crisi e risanamento
Il ciclo di vita di un’impresa è un continuo rincorrersi di fasi positive e negative che si
alternano e accompagnano la sua evoluzione nel tempo. Questa dinamica comporta una
generale condizione di instabilità sia all’interno dell’azienda che nel rapporto tra
l’azienda e l’ambiente competitivo.
Le imprese, proprio per un fatto intrinseco, sono soggette a fluttuazioni e a ritmi di
cambiamento molto sostenuti, che rende la loro stessa vita molto variabile e “precaria”.
Situazioni apparentemente forti e destinate a perdurare in equilibrio, ad intervalli
irregolari di tempo e con varia velocità, possono degenerare anche in modo
incontrollabile, modificando continuamente le condizioni di contorno.
Ne consegue che in una impresa di qualsiasi dimensione, l’efficienza interna, la
posizione concorrenziale, la redditività, la capacità di produrre flussi finanziari e di
generare nuovo valore, anche quando paiono saldamente raggiunte, sono continuamente
da difendere.
La crisi rappresenta una possibilità concreta nella gestione di una qualsiasi realtà
aziendale: non a caso, in moltissimi testi di economia aziendale e management, si
rinviene facilmente la presenza di un capitolo dedicato a tale fenomeno proprio perché,
così come si tratta della nascita e dello sviluppo di un’impresa, è d’obbligo disquisire
anche sui rischi e quindi sulla possibilità della morte dell’impresa.
“La crisi d’impresa si ha quando si crea uno squilibrio economico-finanziario, destinato
a perdurare e a portare all’insolvenza e al dissesto in assenza di opportuni interventi di
risanamento”
1
.
“Un’azienda è in crisi quando non è più in condizione di soddisfare il suo equilibrio
economico, ovvero quando non è più capace di soddisfare le attese dei partecipanti alla
1 da S.Slatter
7
vita aziendale e quando non è in grado di garantire tale soddisfacimento per un
intervallo non breve di tempo
2
”.
Nella letteratura esistono diversi filoni che definiscono il concetto di crisi aziendale, ma
il più interessante riguarda l’approccio “manageriale-strategico” che fa riferimento alla
teoria del valore
3
. Questa teoria, com’è noto, vede nell’accrescimento del valore di
mercato dell’impresa l’obiettivo primario da conseguire.
In questa ottica l’indice di performance dell’impresa è l’accrescimento del valore
aziendale, misurato come ∆W, cioè la variazione del capitale economico misurata come:
(∆R)
∆W= ▬▬▬▬
i
( con R = reddito annuo normale, i = tasso di capitalizzazione )
Se questo indicatore non cresce in modo sufficiente significa che l’impresa non
persegue i suoi obiettivi, mettendo a rischio la sua sopravvivenza di medio-lungo
termine.
Da ciò deriva una prima classificazione della crisi, in rapporto all’intensità della stessa.
E’ necessario distinguere tra “declino” e “crisi” vera e propria. Il declino è collegato ad
una performance negativa di breve periodo in termini di ∆W, corrispondente ad una
distruzione di valore. Secondo questa definizione un’impresa è in declino quando perde
valore nel tempo, nel senso che il suo valore cresce di un tasso inferiore al tasso di
crescita normale. Il declino, attraverso questa definizione, dipende non solo dal reddito
derivante dai flussi finanziari, ma anche dal tasso di ricapitalizzazione, che, a sua volta,
dipende dal rischio connesso.
La misura dei flussi di cassa, oltre ad essere legato ai flussi di capitale passati è anche
legato a un fattore non meno importante: i flussi reddituali futuri, cioè ai redditi attesi. Il
cash flow storico va depurato di tutte quelle situazioni straordinarie o stagionali che
modificano il reddito, in modo da prendere in considerazione solo flussi “normali”.
2 S.Sciarelli “La crisi d’impresa” (Napoli, 1995)
3 A.Rappaport “La strategia del valore” (Milano, 1989)
8
La crisi è uno stadio successivo del declino, o la diretta conseguenza di esso, nel caso in
cui l’impresa non modifichi la sua strategia.
Figura 1.1: Classificazione delle crisi
Fonte: Guatri “Turnaround” (1995)
La crisi si concretizza in seguito alle gravi perdite passate (in termini di redditività e di
valore), alle gravi perdite finanziarie, e alle perdite di credito e di fiducia
4
. La crisi è
dunque la fase acuta, conclamata ed apparente del declino. E’ un fenomeno quasi
sempre irreversibile senza consistenti interventi esterni.
Le crisi si verificano quindi, in prima battuta a causa dell’intensificarsi delle condizioni
di declino che aggravano la situazione, ma anche (e soprattutto) perché il management
non riesce a cogliere i segnali d’allarme, non è quindi in grado di limitare gli effetti
4 L.Guatri “Turnaround” (Milano, 1995)
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dannosi e soprattutto di mantenere un monitoraggio delle minacce per prevenirle. In
linea con questa prospettiva gli studi sul Crisis Management suggeriscono di far
crescere all’interno dell’organizzazione una cultura del cambiamento volta ad affrontare
la crisi non come un’eventualità futura o un fatto straordinario ma come elemento
strutturale della pianificazione strategica.
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1.1 Gli stati di crisi
Lo stato di salute di un’impresa, come quella di un organismo, non è sempre la stessa.
Ci sono diversi stadi di “malattia”, soprattutto in relazione ai rapporti con il mercato.
L’individuazione dello stadio giusto permette di valutare la crisi e quindi di pianificarne
e gestirne il cambiamento. Essi di norma si manifestano con la seguente sequenza:
o stato fisiologico:
il sistema-impresa presenta normali condizioni di funzionamento. Le normali
oscillazioni dei fattori critici sono in un range di valori definito dal management;
o stato di tensione:
presenza di alcune oscillazioni anomale che si avvicinano alla soglia critica di
tolleranza (definita dal management). Per gestire la situazione si utilizzano le risorse
“cuscinetto”, cioè le risorse in eccedenza che costituiscono una valida resistenza al
decadimento. Il sistema si caratterizza per un mantenimento forzato delle condizioni
di normalità;
o stato alterato:
si ha una progressiva diminuzione delle risorse in eccesso e si supera la soglia critica.
o stato di crisi:
esso si distingue da quello precedente per l’aggravarsi delle condizioni che provocano
tensione. L’impresa è dunque in crisi quando, a causa del processo degenerativo
avviato, non riesce più a perseguire gli scopi in ragione dei quali essa è stata costituita
ed ha operato nel passato.
Un’interessante analisi riguarda anche la classificazione delle crisi in base, da un lato,
alla velocità di propagazione del processo degenerativo, dall’altro dalla capacità di
reazione dell’impresa, di fronte allo stato di crisi, a suo volta derivante dalla volontà
interna di cambiamento (Figura 1.2).
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Figura 1.2: Un’altra classificazione delle crisi
Fonte: Guatri “Turnaround” (1995)
La tabella sovrastante illustra come da situazioni di crisi embrionali, caratterizzate da
una bassa velocità del processo e da una modesta incapacità dell’impresa di continuare a
perseguire la propria ragion d’essere, è facile passare a stadi di crisi più gravi,
progressive, attenuate o acute, caratterizzate da un innalzamento o della velocità del
processo degenerativo o dell’ incapacità di perseguire gli scopi o da una combinazione
di questi due fattori
5
.
5 A.Arcari “Prevenire la crisi e gestire il turnaround nelle PMI attraverso le analisi economiche” (Varese,
2004)
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Fig. 1.3: Natura della irreversibilità
Fonte: Guatri “Turnaround” (1995)
La Figura 1.3 classifica invece le crisi in funzione della loro irreversibilità: sull’asse
delle ascisse c’è il grado di collaborazione degli stakeholder, sull’asse delle ordinate la
gravità della crisi.
La situazione meno grave è, ovviamente quella in cui la crisi è nel suo stadio
embrionale e gli stakeholder hanno l’interesse di risolvere la situazione, classificata
come condizione di reversibilità. Viceversa la situazione più grave è quella in cui la
crisi è nella sua fase più avanzata (crisi progressiva) e gli stakeholder non intendono
collaborare, chiamata irreversibilità assoluta, che porta al fallimento certo.
Nel combinazione di queste due opposte possibilità stanno tutte le situazioni di mezzo,
tra cui l’irreversibilità oggettiva (crisi progressiva con alta collaborazione) e
irreversibilità soggettiva (crisi attenuata e bassa collaborazione).
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1.2 Fattori scatenanti
Nei dibattiti sulle cause dello stato di crisi di solito si alternano due tesi contrapposte: la
prima attribuisce il declino alla cattiva gestione, agli errori strategici, all’incapacità e
all’incompetenza dell’imprenditore o più in generale del management; la seconda è
quella che, invece, ribalta la responsabilità sui fattori esterni, come lo stato del settore,
l’alto costo del lavoro, il sistema fiscale.
In realtà, né le variabili manageriali né quelle ambientali, possono da sole e in via
esclusiva motivare una crisi
6
. In realtà è possibile affermare che il processo
degenerativo è causato inizialmente dai cambiamenti dell’ambiente competitivo e
aggravato dall’inadeguatezza delle capacità manageriali. Inoltre, l’impatto dei fattori
esterni all’impresa è molto diverso da impresa a impresa, a seconda di come si
configura lo stato iniziale delle cose; a seconda che si tratti di imprese piccole, che
poggiamo il loro successo su deboli basi, destinate prima o poi a crollare, o, al contrario,
di imprese dotate di una struttura imprenditoriale solida, i fattori esterni possono
provocare crisi di diverso tipo.
Si configurano così stati di declino o crisi da inefficienza, da sovracapacità o rigidità
strutturale, da decadimento dei prodotti, da carenze ed errori di marketing, da incapacità
di programmare, da errori di strategia, da carenza di innovazione
7
. Se da un lato il
rischio del declino o della crisi è un fattore ineliminabile per le imprese, dall’altro non è
eliminabile il bisogno di attuazione di sistematici processi di controllo, risanamento e
rilancio se si intende evitare il fallimento.
Gli anglosassoni usano il termine turnaround , che sta a significare il “giro di boa” che
le aziende devono realizzare per approdare a nuovi equilibri.
6 A.Arcari “Prevenire la crisi e gestire il turnaround nelle PMI attraverso le analisi economiche”
7 L.Guatri “Turnaround” (Milano, 1995)
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Fattori esterni
Nelle cause esterne, secondo l’analisi di Guatri
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, possiamo distinguere:
- Carenza del sistema paese;
- Debolezza dei mercati finanziari;
- Mutamenti sfavorevoli della legislazione di settore;
- Movimenti culturali;
- Variazioni spaziali del costo del lavoro;
- Variazioni nell’approvvigionamento;
- Variazioni del sistema dei cambi
- Accelerazione dell’evoluzione tecnica;
- Inflazione non programmata, con conseguente incremento degli oneri finanziari;
- Eventi catastrofici: guerra, attacchi terroristici, disastri ecologici;
- Dinamiche settoriali: Aumento dell’intensità della concorrenza, calo della domanda,
overcapacity, spostamento della competizione sul prezzo, affievolimento delle
barriere all’entrata ecc. ecc.
La nostra analisi si soffermerà quasi esclusivamente sui fattori interni. La motivazione
sta nel fatto che il declino imputabile a fattori esterni deriva da fatti e da situazioni che
vanno al di là delle variabili controllabili dalle singole imprese.
Fattori interni
Da un primo punto di vista la crisi di un’impresa può nascere soltanto da errori di
gestione. Al centro della crisi, secondo questa logica, sta la scelta, quindi il criterio
decisionale. Il “management”, in quanto decisore primario, risulta quindi il primo
imputato rispetto all’origine del problema e spesso si agisce credendo che la strada per
risolvere il problema risieda nella sostituzione di esso. La realtà è che la colpa spesso è
condivisa tra i vari stakeholder d’impresa. Il management sbaglia per cause “dirette”,
8 Guatri L., “All’origine delle crisi aziendali: cause reali e cause apparenti”, in Finanza, marketing e
Produzione, n°1, 1985
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quindi errori di valutazione, oppure per cause indirette, quindi per l’inesattezze dei dati
con cui deve prende decisioni.
Vediamo ora nello specifico le possibili cause “umane” della crisi.
1. Direzione affidata a un solo uomo.
Nelle piccole imprese, quelle in cui l’imprenditore è anche Amministratore
Unico, è un fatto necessario. Questa peculiarità limita fortemente il feed-back di
gestione, in quanto la direzione in questi casi non accetta critiche né confronti,
esponendo quindi l’impresa ad una direzione inefficace e pericolosa.
2. Debolezza del Management.
Situazione spesso vicina alla precedente, di gestione monocratica, in cui il
manager unico non accetta vicino a sé persone autorevoli e continua, anche in
situazioni di emergenza, a non ammettere mettersi in gioco per la soluzione della
crisi.
3. Cambio di Management.
E’ un percorso accidentato e rischioso, attraverso il quale spesso si cambiano
procedure e meccanismi di gestione, si crea confusione e si finisce per non
ottenere risultati accettabili, rischiando per di più di creare conflitti tra funzioni
aziendali.
4. Eccesso di burocrazia.
Caso in cui la struttura manageriale è rigida e non può adattarsi ai cambiamenti
che l’impresa richiede. L’impresa si chiude rispetto al mercato, senza farsi
trainare da esso, limitando il raggio d’azione dei propri prodotti e utilizzando
spesso metodi di gestione obsoleti.
5. Scarso potere degli Organi di controllo.
L’identificazione tra manager e amministratore toglie questo meccanismo
importante di controllo, che allinea la direzione dell’impresa alla sua strategia.
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Se più della metà degli errori “umani” possono essere attribuiti ai manager, risulta
molto importante anche avere lavoratori motivati e competenti. L’enfasi riservata a
questo aspetto non viene mai messa in risalto. E’ pur vero che è il management stesso a
scegliere le persone, a controllarle, a creare meccanismi di incentivazione verso il
lavoro, a creare interesse verso il lavoro, ma le persone devono comunque essere
motivate a priori.
Questo metodo iniziale di valutazione non riesce a spiegare completamente le situazioni
di crisi, perché gli errori vanno valutati nel loro.
A questo punto entrano in gioco forze diverse, alcune interne all’impresa, altre esterne,
che sfuggono al dominio degli uomini d’impresa e che quindi rendono necessaria una
visione più allargata della situazione.
In tale ottica, sulla base di dati sperimentali, è possibile raggruppare i motivi e le cause
di crisi in alcune grandi categorie, in funzione della causa che le provoca. Queste cause
non sono disgiunte tra di loro, ma sono collegate da una fitta rete di interconnessioni e
relazioni di causa-effetto, che permettono di definire una sorta di “cascata degli eventi”.
Soffermiamoci, per ora, sulla principale causa di fallimento per un’azienda, cioè la crisi
finanziaria. In questo senso è interessante notare, come già peraltro detto, che la crisi
può dirsi tale soltanto quando sono i risultati economici ad essere insufficienti, e le
perdite bloccano le attività produttive in modo importante.