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INTRODUZIONE
Psicoanalisi e Teatro
Materie e spirito, pensiero ed azione, mondo interno e mondo
esterno, realtà tridimensionale ed immaginazione sono le grandi
dicotomie nelle quali il pensiero filosofico ha tradizionalmente
organizzato l’esperienza del mondo.
La civiltà umana. Sotto tutti i cieli, del presente e del passato, ha
fondato una straordinaria istituzione, quale, il teatro.
Il teatro fonda una realtà della rappresentazione e incuneandosi tra
realtà storico – fattuale e mondo interno costituisce una straordinaria
occasione di crescita e di sanità mentale.
Il teatro può farsi attuale solo oltre la coscienza di crescita, almeno
parzialmente può dirsi comune all’arte scenica e alla scienza della
psiche, la convinzione che la “vera” ricchezza si manifesta lungo la
soglia su cui disposizioni “umane” e “volontà” d’espressione giungono
a coniugarsi.
Deve esser vista tale soglia per poter contrastare l’entropia
nascosta nelle forme dell’agire quotidiano e per spiazzare la brutalità
pulsionale nelle spinte accecate della massa popolare.
Analisi, elaborazione ed identificazione: tre strumenti
fondamentali del teatro.
Ci sono scuole di pensiero che su questi argomenti continuano a
scavare nell’animo umano e scuole di teatro che indicano, attraverso
metodi precisi, come nel mestiere dell’attore sia importante
“identificarsi” con il personaggio.
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Il mestiere dell’attore ha bisogno di umiltà, buona salute, coraggio,
capacità di analisi, desiderio di donarsi.
In tutto questo la “vocazione” al teatro ha un grande peso.
Ai nostri giorni l’attore non è più di estrazione sociale modesta, da
un punto di vista culturale è quasi sempre diplomato, ma può anche non
esserlo, basta che la sua cultura sia più ricca e che possa portarlo a
riflettere, a usare il cervello per coltivare e formare quella cosa
impalpabile e misteriosa che si chiama talento.
Anche il pubblico ha subito un’evoluzione culturale ed è quindi
giusto che il teatro lo impegni e che, sedendosi sulla sua poltrona,
“lavori” insieme agli attori per potersi portare a casa qualcosa che nasce
dalla reciprocità di intenti in quello avvenimento straordinario che è il
teatro.
Coloro che scelgono di uscire di casa per “partecipare” a uno
spettacolo porterà con sé qualcosa di suo, diverso, simile o anche
uguale a quello che porterà a casa il suo vicino di poltrona, in base alla
propria sensibilità, ad un’emozione intellettuale, sentimentale, di rifiuto,
di commozione, di sdegno.
L’attore è drammaturgia e spesso, i casi clinici, descrizioni
d’azioni, manovre, strategie, etc.., sia pure di tipo terapeutico ma non
esclusivamente, si presentano come impliciti copioni.
E come copioni importanti contengono per gli attori aperture
contenutistiche ma soprattutto indicazioni di metodo.
Nel suo lavoro pratico il regista dovrebbe essere sempre interessato
ai meccanismi di apprendimento dell’attore, al suo condizionamento
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fisico e psichico, alla formazione della sua conoscenza mnemonica di
recitante.
All’attore che si sia coinvolto si impone anche il grande tema
dell’isteria, tanto facilmente accostabile alla recitazione, alla malafede,
alla menzogna.
Il linguaggio dell’isteria che appare caratterizzata da una
comunicazione gestuale elementare o protolinguaggio , che si colloca al
di fuori di una dimensione discorsiva, e in cui prevale la funzione
autoprotettiva e allusiva.
E ancora: quanto attiene agli utili primari e secondari, la
comunicazione indiretta, i rapporti oggettuali, visti all’interno di una
dinamica comportamentale soggetta a regole, ovvero gioco.
A quanto pare nel gioco recitativo siamo autorizzati a presumere
una certa contrapposizione tra “soggetto” e “corpo estraneo”, possiamo
interrompere la inesitabile ma ormai imperdonabile ricerca dell’attore
di una coerenza troppo stretta e cogente, invitarlo a considerare quanti
inganni e trappole possa costruirsi da solo senza nessun intervento
estraneo.
Tanto più che poco dopo si aggiunge che i sintomi possono
“partecipare al discorso”, entrando cioè come “corpi estranei” nella
coscienza ma soprattutto nell’attività del soggetto.
L’attore è tale sia aderendo alla maschera sia distanziandosi da
essa; ed è allora la contemporaneità della regia a farsi chiarificatrice.
Non a caso, Stanislavskij fondò un metodo, così differenziandosi
dall’ondeggiare degli attori, abituati a orientarsi con tecniche segrete,
più o meno ereditarie e individualizzate, loro necessarie, ma al singolo
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insufficiente per distinguere il tempo della propria arte da quello della
propria vita.
Stanislavskij si trovò anche a investigare sul preconscio
rappresentativo per l’impossibilità di giungere altrimenti a realizzazioni
profonde, anche se non conosceva la psicoanalisi.
Infatti che sarebbe stato decisivo per l’attore sollecitare l’ambito
relazionale oscuro, ma pulsante di energia, disposto a trasmettere vita
analogica alle azioni.
Grotowski usò elementi non riferiti al teatro: la provocazione della
vita, l’attrazione illegittima per la periferia dell’esistenza, la condizione
costretta, l’esercizio della superiorità, il sentire inverso all’espressione,
ma che erano poi resi sostanzialmente teatrali dall’uso.
In particolare Grotowski, è giunto a rivelare nuovi stati
d’interazione psichica, l’energia sottile e l’esattezza delle sue “motions”
hanno istituito una via a sé: che prospetta dinamiche unitarie della
scienza umana.
Se, in termini di sapere psicoanalitico, sono potuti crescere
direttamente gli stadi d’incontro con la letteratura, la musica, il cinema,
e le arti visive, si direbbe che il teatro si sia fondato su cultura e terapia
e che diano il senso di una particolare estensione già varie parole
chiave: attore, autocoscienza, azione, Corpo, Coscienza, Dolore,
Handicap, Inconscio, Malattia, Manicomio, Memorie, Mente,
Movimento, Psiche, Nevrosi…
Nell’antico edificio teatrale l’orrore stesso dell’ordine misterico
era ricordato dall’effige del dio tutelare delle condanne mentali. Ciò
sembra riportarci naturalmente alla nostra rigenerazione del tragico, tra
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Otto e Novecento, e più che a Pirandello, al Maeterlinck maestro del
simbolismo teatrale e perciò amato dai surrealisti, Artaud compreso.
Egli iniziò a scrivere indagando sui suoi ascendenti psicologici, o
oggi che l’articolata materia di queste sue riflessioni è stata finalmente
raccolta in un volume, essenziali richiami al nostro crocevia ne
emergono, specie in vista della nozione di “tragico quotidiano”.
Le tragedie, in un certo senso, profetizzavano necessaria la
psicoanalisi, con i loro catartici e sempre diversificati ritorni alle fonti
della sofferenza.
Se nel Novecento teatrale si sono imposti attori di personalità
duttile, invertendo l’opzione ottocentesca per l’interprete dominatore,
portenti fisiologici o sperimentalmente conoscitivi tanto hanno potuto
impennarsi lungo il suo corso che, infine, attori soliti, come Dario
Manfredini, sono giunti a ideare teatro all’inverso, da interazioni
terapeutiche, giocando con ragazzi psichiatrizzati.
Ciò richiama un nesso con il profondo, innescato dallo
piazzamento dell’Io, che accomuna la scena alla poesia; e c’è da
pensare che per la psicoanalisi stessa l’attitudine lirica a dire, oltre la
persona che scrive, sia stata fondante.
Non a caso, essa continua a dialogare con Shekespeare, l’attore
poeta per eccellenza che rivelò infinita l’articolazione mentale del
personaggio.
Pippo Delbono pensa ad un teatro popolare, ma non un teatro
facile, anzi proprio l’opposto: si tratta di andare con sincerità dentro le
cose che sono complesse, perché la vita è complessa.
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La crescita, il mondo, la vita, la morte, la sofferenza sono
complessi, quindi uno spettacolo non può essere che complesso. Però
nella sua complessità deve arrivare alla gente.
L’arte può rivelarsi un tramite con la natura più illuminata della
nostra vita, e quindi è bello che possa essere trasmessa a tante persone.
Questo non vuol dire che negli spettacoli non debba esserci
durezza, violenza, a volte anche orrore, che è l’orrore stesso che si
riscontra nella vita.
Per Delbono anche essere pietra di scandalo è importante. Lo
scandalo obbliga ad un altro sguardo. E’ legato anche all’essere sul filo,
sul bilico, qualcosa che può cadere, crea una situazione di imbarazzo, di
insicurezza, di disorientamento, di crisi.
Ed è anche una forma di democratizzazione, giacché in qualche
modo si parte tutti dallo stesso punto, dallo stesso livello, con la stessa
sensazione di disorientamento.
Per far sì che le persone accettino di entrare in questa dimensione
di squilibrio, deve essere Pippo stesso per primo e gli attori a mettersi
sulla scena nel modo più indifeso possibile, per accompagnare così tutto
il pubblico attraverso un viaggio che è anche doloroso e duro, ma che
una volta compiuto può portare a una situazione finale di apertura, di
cambiamento.
Il tratto caratterizzante dell’arte di Delbono sarà la sua capacità
estrema di rappresentare la marginalità, la malattia, la sofferenza e le
“diversità della vita sul palcoscenico”, coinvolgendo lo spettatore che si
scopre a giocare, danzare e a vivere nella guida e nelle forme “altre” dei
corpi in scena.
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Un circo di persone che scendono dal mondo della “anormalità”,
dell’handicap, della follia e delle realtà marginali e che riservano nella
rappresentazione e nella comunicazione teatrale la tragedia del loro
esistere.
Danza e teatro di strada, letteratura, poesia, morte. Gli spettacoli si
susseguono e si aprono a esperienze politiche e civili, sono dominati da
tensione poetica, testimoniano la radicalità del vissuto dei protagonisti.