4
avanzato, il primo tentativo italiano di lavorare in modo
concreto con le comunità, come egli stesso ricorda in un recente
libro di Fernando Marchiori
1
. Pochi anni più tardi, nel 1974,
appare ormai chiaro che la sperimentazione sta dando i suoi
frutti tanto che egli stesso dichiara: “fuori dal deserto in cui il
teatro sta morendo esistono spazi della società ove è possibile
reinventare il teatro, ossia reinventare la cultura” (SCABIA,G.,
1974, p. 154). Si tratta di una modalità di intervento che spinge
il teatro verso obiettivi che vanno al di là del puro fatto
spettacolare: intere comunità vedono realizzarsi
sull’improvvisato palcoscenico dei luoghi quotidiani, una realtà
poeticizzata e rivelatrice. Il teatro diventa organico al proprio
territorio, alla propria gente. Il concetto di teatro organico è
molto caro allo Scabia di quegli anni perché è un teatro “capace
di mettere in moto delle domande, delle prese di posizione
radicali” (SCABIA, G., 1974, p. 155), un teatro in cui non conta
necessariamente il prodotto, un teatro che diventa strumento di
aggregazione della comunità intorno ai suoi problemi
fondamentali. Teatro a partecipazione è quindi un’occasione per
condividere un comune sentire tra artisti e comunità reale, un
luogo in cui il teatro si inserisce nella vita e viceversa.
Sintetizzando si tratta di azioni che hanno avuto precise
caratteristiche e che noi oggi possiamo così riassumere:
- sono derivate da un progetto ben individuato spesso
commissionato da istituzioni;
- hanno comportato una elaborazione a priori almeno a livello
di schema di lavoro;
- hanno avuto applicazione pratica;
- hanno coinvolto persone legate da un’appartenenza di stato e
di territorio;
1
MARCHIORI, F., 2005, p. 152.
5
- si sono sviluppate in un certo tempo consentendo l'avvio di
un processo;
- hanno permesso che si stabilisse un legame con i
partecipanti all’evento;
- hanno messo in rapporto teatro e vita quotidiana.
6
1.2 Teatro universitario e attività teatrali in solitario
Va precisato, a questo punto, che il tema del presente lavoro sarà
dunque parziale ma ben individuato. Ciò significa che sono state
operate alcune importanti esclusioni. Non potremo infatti
includere all’interno della nostra discussone il lavoro prodotto in
ambito universitario, né fare riferimento a tutto quel teatro
itinerante che Scabia realizza, generalmente da solo, nei luoghi
più disparati della penisola. Non sarà possibile accostare il tema
della partecipazione teatrale alla teatralità prodotta in ambito
universitario almeno per due motivi. In primo luogo si tratta di
una modalità di lavoro che ha obiettivi diversi, in secondo luogo
difficilmente si può affermare che l’ambiente universitario
corrisponda a quello di una vera e propria comunità del sociale.
Nell’Università, Scabia porta le esperienze che ormai ha
consolidato. I suoi primi allievi vivono, a nostro avviso, il
momento di trasformazione di un uomo che ha sviluppato
un’originale ricerca teatrale in cui convivono felicemente aspetti
che rimandano alla filosofia, alla politica, alla sociologia,
all’estetica e ad altro ancora. Nelle aule universitarie, per la
prima volta aperte alle sollecitazioni del territorio, Scabia
analizza insieme ai suoi studenti il lavoro fin qui svolto per
andare oltre. Il terreno circoscritto e sperimentale del nascente
DAMS di Bologna si rivela un luogo quanto mai adatto. Lo scopo
che Scabia si prefigge nelle aule universitarie non è quello di
riproporre un lavoro collettivo destinato ad alimentare
un’identità, non intende sviluppare un lavoro sulla memoria
personale e collettiva. L’obiettivo è di dare ali alla conoscenza
attraverso un procedere che arriva in profondità. Se analizziamo
le modalità di strutturazione dei corsi universitari, vediamo
come egli non proceda mai a spiegare le tecniche o i risultati in
modo diretto ma proponga sempre una mediazione giocata sul
molteplice. Per capire il suono dei testi di Garcia Lorca per
7
esempio, si inizia ad ascoltare il llanto dei cantaores di inizio
secolo, il suono della terra d’Andalusia, e quel canto risuonerà
nei partecipanti fino alla fine del corso e sarà determinante per
dare la giusta chiave di lettura che permetterà una corretta
recitazione. Procedimenti analoghi si possono rilevare in tutte le
memorie scritte che si riferiscono al lavoro universitario, come
attestano i “Quaderni di drammaturgia” fino a qui pubblicati.
Lo scopo della ricerca universitaria non è quindi la
partecipazione che aveva caratterizzato il lavoro nei luoghi del
sociale. Nei primi anni tuttavia il rapporto tra università e
territorio è più diretto, le prime azioni svolte dagli studenti del
corso di Drammaturgia 2 si compiono all’esterno delle aule
universitarie, arrivando a dilatare il concetto stesso di corso
universitario. Soprattutto nella realizzazione di quello che
resterà il lavoro più rappresentativo di quegli anni: il Gorilla
Quadrumàno, la ricerca si svilupperà nel tempo e nello spazio
oltre i limiti imposti dalla didattica e dalle consuetudini
accademiche.
Apparentemente si tratta di un tipico lavoro giocato sulla
partecipazione teatrale, in realtà il Gorilla rappresenta, a nostro
avviso, un luogo a sé, luogo in cui termina un certo itinerario
artistico e inizia una nuova fase. È a questi studenti che per la
prima volta viene rivelato, attraverso l’esperienza diretta, cosa
significhi costruire un teatro partecipato. Vi sono motivazioni
didattiche che giustificano questo percorso, l’Università (tutta la
scuola) è per Giuliano Scabia “il corrispettivo d’oggi della
capanna nel bosco dove avvenivano le iniziazioni tribali”
(Scabia, G., comunicazione Mail al sottoscritto del 24.10.2008).
All’università è più interessante acquisire una competenza, una
tecnica. Se c’è vera partecipazione, essa è solo un effetto
secondario, ciò che interessa è la scoperta, la felice intuizione di
possedere dei mezzi che permetteranno di svolgere un lavoro, un
compito professionale. Per questi motivi escluderemo dalle
8
nostre analisi di dettaglio l’esperienza del Gorilla Quàdrumano
così come tutte le altre che si sono succedute. L’obiettivo di
ogni corso universitario è infatti legato all’idea di “territorio
circoscritto” (BENJAMIN, W., 1969). L’ aula scolastica (e per
esteso il laboratorio universitario) rappresenta infatti il
“territorio circoscritto” in cui far emergere la riflessione, la
conoscenza, la gioia e la fatica che deriva dal provare il fatto
teatrale sulla propria pelle. Si tratta di un territorio metaforico,
la socialità che vi si respira è ben diversa da quella che ci
interessa qui mettere in primo piano. La nostra intenzione è
infatti quella di riflettere sugli effetti che il teatro di Giuliano
Scabia ha prodotto all’interno delle comunità sociali dislocate
nei territori reali. Per questo faremo riferimento alle
classificazioni sociologiche esposte da P. Amerio (AMERIO, P.,
in ZANI B., PALMONARI A., 1996). La comunità nel senso
che ci interessa qui mettere in evidenza deve essere dunque
intesa come quell’aggregazione sociale che presenta le seguenti
caratteristiche:
- comune appartenenza a una certa area territoriale;
- interdipendenza dei sistemi relazionali tra le persone;
- presenza di una forte omogeneità di norme e valori;
- interiorizzazione di tali norme e valori condivisi.
Più che una comunità, il gruppo di studenti universitari appare
una massa eterogenea di individui diversi per età, interessi,
cultura, tradizioni, sentimenti di appartenenza. Essi si trovano
riuniti da un comune desiderio di conoscenza oppure da un
obbligo curriculare. Chi ha analizzato il lavoro di Scabia
riferisce che il rapporto tra maestro e studenti è fatto di una
speciale comunanza. Acquaviva utilizza, a questo proposito, la
definizione di “cerchio narrativo”. Questa idea di circolarità,
torna in molte analisi. Nel cerchio si stabiliscono rapporti tra
uguali: per Acquaviva, si tratta di un rapporto simile a quello
che lega un gruppo di artisti che collaborano alla stessa opera;
9
(ACQUAVIVA, F., 1997) per Gasparini, la funzione che Scabia
incarna all’interno del cerchio è quella del facilitatore, perché lì
avviene la trasmissione delle conoscenze in tempo reale, un
tempo diverso per ognuno. (GASPARINI, F.,
http://annali.unife.it/lettere/2008vol1/gasparini.pdf) Tutto ci
parla di un magico evento. Ci piace, a questo punto, pensare a
quell’aggregazione come al corrispettivo mitico di chi mette in
comune le proprie competenze in vista di un avventuroso
obiettivo. Con rifrazione letteraria pensiamo ai cavalieri della
tavola rotonda oppure ai loro coraggiosi epigoni di Nane Oca.
Ogni gruppo mitico ha un obiettivo da portare a termine e per
giungere alla meta deve imbattersi in un percorso costellato di
ostacoli, sorprese, meravigliosi e insospettati avvenimenti. Tutto
avviene però all’interno di un rapporto circolare. Il modello
della partecipazione che aveva caratterizzato la prima
sperimentazione teatrale, lascia spazio dunque, nella pratica
universitaria, al modello della cerchia. Si tratta di un modello
che evoca un rapporto di intimità più confacente al tempo
storico in cui si situa, sono lontane le ansie assembleari e il
desiderio collettivo di una democrazia diretta.
L’altra modalità teatrale che non potrà essere oggetto delle
nostre riflessioni riguarda quelle molteplici esperienze di diffusa
teatralità in cui Giuliano Scabia si fa attore-narratore: nelle
lezioni-spettacolo, nelle lunghe passeggiate poetiche o nei
furtivi incontri letterari giocati sulla sua verve di solista. Sono
tutte esperienze costituite di piccoli eventi. Si tratta di singoli
incontri che hanno durata variabile e che si esauriscono
comunque nel giro di poche ore. Sono creazioni adattate di volta
in volta all’ambiente in cui vanno a collocarsi che spesso
giocano sulla disponibilità dei presenti a farsi coinvolgere. In
questi casi, la piccola comunità locale si incontra mentre il poeta
legge e commenta, intrattiene e dibatte. È possibile parlare di
partecipazione teatrale? Solo in apparenza. La comunità è
10
presente ma il contatto è così breve da rendere impossibile un
vero e proprio processo di elaborazione del reale. Come avremo
modo di appurare, il teatro a partecipazione è uno strumento
efficace e rivelatore ma necessita di interventi reiterati. La
durata del processo e la moltiplicazione degli incontri in un
tempo stabilito è basilare per far acquisire ai partecipanti
un’esperienza concreta spesso illuminante, una specie di presa di
coscienza che va al di là del fatto puramente estetico-teatrale.
Negli eventi in cui Scabia è il solo protagonista, il tempo
limitato e la modalità di esecuzione hanno uno scopo diverso.
Ciò che si verifica è un’immediata empatia ma il rapporto
estemporaneo tra proponente e destinatari non permette di creare
una comune elaborazione. I partecipanti a questi piccoli ed
estemporanei eventi non hanno cioè la possibilità di portare il
loro contributo all’interno di un momento condiviso. La loro
elaborazione resta a noi inaccessibile. Forse lo scopo reale di
questi momenti spettacolari è quello di alimentare il senso del
meraviglioso che è in noi. Tutto il teatro di Giuliano Scabia è
infatti costituito dal moltiplicarsi delle sollecitazioni a partire dal
primo testo scritto che è anche una dichiarazione
programmatica. Il magazzino del teatro, secondo le intenzioni
della prima ora, può contenere ogni cosa, così, nell’accumulo
prende forma via via una grande immagine che tutto contiene: il
Teatro Vagante. Esso si manifesta nella meraviglia calando
“dalla soffitta, o dal cielo; [...] assomiglia a una grotta, a una
casa, a una culla, a un carro e anche a un teatro: gli attori vi
stanno incantati, guardando in su” (SCABIA, G., 1988, p. 11.).
Cosi, nella realtà poeticizzata si muove, sotto metafora, il
ricordo di tante facce stupite, sono gli spettatori rapiti, a naso
insù, durante le camminate poetiche o gli incontri occasionali ai
margini del bosco. Un pubblico che, lontano dai circuiti del
teatro ufficiale, è ancora capace di ingenue emozioni, orizzonte
di riferimento per molte sperimentazioni analoghe che hanno
11
avuto per artefici uomini dalla voce autorevole tra i quali ci
piace ricordare F. Garcia Lorca e W.B.Yeats.
12
1.3 Dilatazione del teatro
Il teatro che qui prenderemo in considerazione fa dunque parte
di quel Teatro Vagante che Scabia fa apparire nei luoghi più
disparati ma non corrisponde né al teatro universitario, né al
teatro che ha Scabia stesso per protagonista. Ciò di cui ci
occuperemo, secondo le linee proposte inizialmente, sono le
esperienze che hanno caratterizzato l’operare di Giuliano Scabia
negli anni immediatamente successivi alla sua uscita dal teatro
ufficiale. Quell’operare segna, a nostro avviso, un momento
particolarmente significativo per la concezione del teatro che
abbiamo oggi. Riteniamo infatti che, se oggi siamo in grado di
accettare il teatro come funzione educativa all’interno della
scuola oppure sappiamo vedere nel teatro un momento di
riscatto per chi si trova in situazione di disagio sociale o infine
accorriamo numerosi ad ascoltare un singolo attore che narra
vicende legate alla realtà della nostra vita, lo dobbiamo in
qualche modo alle ricerche, alle sperimentazioni, alle prese di
posizione controcorrente che hanno caratterizzato la teatralità
italiana della fine degli anni ’60 di cui Scabia è stato indiscusso
protagonista. Siamo inoltre convinti che la modalità operativa
allora attuata costituisce, a tutt’oggi, un’utile cassetta degli
attrezzi per chi voglia lavorare, da artista, in ambienti
extrateatrali. Al centro di ogni nostra discussione resta perciò
l’idea forte di partecipazione teatrale. Dovremo pertanto
delinearne meglio i confini per evitare incertezze interpretative.
Ciò che avviene è innanzitutto un incontro, nel momento in cui
un nucleo di persone, legate da un vincolo di appartenenza,
entrano in contatto con il mondo dell’arte attraverso una serie di
strategie comunicative che sanno cogliere in modo originale il
rapporto tra teatro e vita. Spesso si tratta di soggetti che
ignorano la pratica teatrale o ne hanno un’idea approssimativa, è
a questi soggetti che Scabia si rivolge come coordinatore-
13
conduttore. Quello che avviene è un’attenzione tutta particolare
verso il processo. La già anticipata reiterazione degli incontri
porta, grazie al succedersi nel tempo di fatti, riflessioni,
elaborazioni personali, al risultato finale, che può concretizzarsi
o meno in una situazione performativa da mostrare in pubblico.
Due sono gli aspetti principali che dovremo valutare in questa
situazione: l’attivazione di un processo e il suo evolversi in un
tempo dato. In questo ci pare si possa riassumere l’essenza
stessa del nostro oggetto di studio, processo e tempo sono
infatti decisivi nel contesto del teatro a partecipazione perché
portano il teatro fuori dalle secche dell’idea di prodotto e
dilatano all’infinito le possibilità per l’artista e per il pubblico.
Del resto, già De Marinis in uno studio del 1983 vedeva in
“questa nuova pratica teatrale” una “dilatazione dello strumento
teatro” al suo massimo grado:
- dilatazione del tempo: come lavoro in continuità;
- dilatazione dello spazio: dai teatri ai quartieri alle scuole ai paesi a
tutto il territorio;
- dilatazione della scrittura: dal prodotto-spettacolo all’insieme delle
attività di ricerca espressiva-comunicativa dei laboratori aperti;
- dilatazione del pubblico: dagli aficionados del vecchio teatro agli
operai, ai ragazzi, alla gente dei paesi, ai “diversi”. (DE MARINIS,
M., 1983, p. 43.)
Questa dilatazione del teatro verso la vita quotidiana chiama in
causa i rapporti del teatro con le scienze sociali. Sotto questo
aspetto appare particolarmente fruttuosa la comparazione con
alcuni studi di carattere sociologico che vedono nel rapporto di
interazione sociale l’esistenza di rituali tipici della
rappresentazione drammatica. In questo senso l’attività a
partecipazione svolta da Scabia negli anni ’70 del 1900, se da un
lato appare motivata da considerazioni di carattere ideologico,
tipico di un’epoca, pone dall’altro alcune riflessioni che
riguardano lo statuto dell’attore sociale. Attore sociale è
14
l’individuo che, consapevole di essere osservato da uno
spettatore, adegua la propria identità (il proprio self) al modello
che il contesto gli suggerisce. In questa situazione, studiata da E.
Goffmann negli anni ’60 del 1900, gli individui “nella loro
veste di attori hanno interesse a mantenere l’impressione che
essi stiano vivendo all’altezza dei molti standard secondo i quali
essi e i loro prodotti verranno giudicati.” (GOFFMAN, E., 1969,
p. 287.) L’attore sociale è allora “un affaticato fabbricante
d’impressioni” (GOFFMAN, E., 1969, p. 290.) Cogliere
l’incontro, magari incidentale, con l’individuo in quanto attore
sociale, diventa assai interessante ai nostri fini. Questo ci
permetterà di riflettere sulle abitudini rappresentative di
ciascuno di noi, ma più in particolare, ci consentirà di analizzare
e confrontare le caratteristiche di alcune pratiche spettacolari di
tipo spontaneo, con quelle attuate, in un terreno contiguo, da
Giuliano Scabia. L’operazione che Scabia mette in atto ci
sembra costituisca un esempio di rottura delle convenzioni che
permette di superare l’abituale adeguamento alle norme di
“educazione e decoro” per arrivare a qualcosa di più profondo e
di più vero. Da questa esperienza non può che uscire un uomo
nuovo, liberato, (e qui sta la reale grandezza) portatore di
un’esperienza che gli ha permesso di viaggiare in una
dimensione più umana e sconosciuta. In questo, tra l’altro ci
pare di vedere il realizzarsi di quella che Ernst Bloch definiva
“utopia concreta”.
Dal punto di vista teorico può essere interessante verificare, ora,
quale meccanismo venga ad instaurarsi tra i due poli della
relazione teatrale, che possiamo qui riassumere, attraverso l’uso
di due distinte figure concettuali. Al polo ricettivo potremmo
utilizzare, con tutte le attenzioni del caso, il concetto di attore
sociale che abbiamo appena esaminato. Al polo opposto
potremmo invece introdurre una definizione che identifichi il
soggetto proponente, le sue funzioni e le sue qualità. Ci pare