Questa ricerca tratta di un argomento di grande impatto storico,
politico, culturale, perché coinvolge tutti i cittadini dell’Unione
Europea: l’allargamento dell’Ue ad Est e le politiche Euro-
mediterranee. Si tratta dell’ampliamento dell’Europa dei Quindici
all’Europa dei Venticinque (a partire dal 1° gennaio 2004), poi a
Ventisette e, in prospettiva, di un numero ancora più elevato di
componenti.
In questo lavoro, in primis, si mette in evidenza che esistono una serie
di problematiche che fanno sorgere il dubbio che l’Ue, ideata per Sei
membri, vada ripensata in profondità. “Le ragioni profonde
dell’attuale crisi comunitaria vanno individuate nella incapacità (o
mancanza di volontà) di affrontare i tre grandi deficit strutturali
dell’UE, e cioè il deficit democratico, il deficit sociale e il deficit
internazionale, prima di procedere ad un allargamento destinato,
anche per le ulteriori prospettive che apre, a rappresentare una svolta
decisiva per il processo di integrazione”
1
. Molta attenzione merita la
questione del c.d. deficit democratico; tale nozione viene invocata
principalmente per sostenere che l'Unione europea e le sue istanze
soffrono di una mancanza di legittimità democratica e che sembrano
inaccessibili al cittadino a causa della complessità del loro
funzionamento. Il deficit democratico rispecchia la percezione
secondo cui il sistema istituzionale comunitario sarebbe dominato da
un'istituzione che cumula poteri legislativi e di governo, il Consiglio
dell'Unione europea, e da un'istituzione burocratica e tecnocratica che
non ha un'effettiva legittimità democratica, la Commissione europea.
1
Amirante C., Il futuro dell’Unione Europea dopo i referendum:tra
espertocrazia e democrazia , Ventotene, 9-10 luglio 2005.
6
La conseguenza è che i cittadini restano ben lontani dall’esercizio
(seppur indiretto) della sovranità comunitaria.
La sola rappresentanza partitica- elettorale non è più sufficiente,
né per rappresentare, né per governare la complessità sociale; è
necessario pertanto pensare a nuove forme di partecipazione che
coinvolgano anche le forze civili, “ridefinire modalità di
coinvolgimento collettivo che tendano a includere, nel contempo,
movimenti e forze di diversa natura presenti nella società”. Pur a
seguito dei molteplici interventi sulla struttura e sul funzionamento del
Consiglio dei ministri, della Commissione, del Parlamento europeo,
della Corte di giustizia (e del sistema giurisdizionale in genere)
susseguitisi dalla nascita della Comunità, da più parti si leva la voce
dell’esigenza di alcuni mutamenti incisivi nelle istituzioni
comunitarie.
Per quanto riguarda, in particolare, il deficit internazionale – cioè
l’assenza di una politica internazionale autonoma fondata sulla pace e
sulla cooperazione tra i popoli a partire da un’autentica promozione
dei diritti umani, e soprattutto un atteggiamento comune e condiviso
sulla gestione delle crisi internazionali – non è ancora chiaro,
soprattutto oggi, quali scelte il Consiglio Europeo intenderà fare
soprattutto in seguito ai recenti allargamenti
2
. Le vicende attuali,
mostrano, secondo gli osservatori più attenti, rischiosissime tendenze
all’unilateralismo di carattere politico-militare (conseguente alla
dottrina Bush della guerra preventiva e di un intervento su scala
globale in funzione anti-terrorismo), destinate ad accantonare non solo
2
Amirante C, Cosituzionalismo e Costituzione nel nuovo contesto europeo,
Torino, Giappichelli Editore, 2003, cit. pag. 23.
7
il sistema normativo e istituzionale economico, ma anche i principi del
diritto internazionale generale
3
.
L'integrazione dell'Europa dell'ovest si deve senza dubbio alla tragica
esperienza delle due guerre mondiali nonché allo scarso peso delle
potenze europee nello scontro Stati Uniti-Urss. Fenomeno nuovo nella
storia planetaria, questa integrazione ha funzionato perché poggiava su
stati nazionali relativamente sviluppati. Ma l'Europa del sud-est si
distingue appunto per il fatto che gli stati nazionali che la
costituiscono e, in parte le stesse nazioni, hanno appena cominciato a
costruirsi.
Oggi 27 Stati europei convivono all’interno della stessa casa comune,
pur conservando ciascuno la propria diversità culturale e linguistica, e
condividono (o almeno dovrebbero condividere) gli stessi valori di
libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani, stato di diritto e
uguaglianza, come sancito dal Trattato di adesione all’UE. Il Trattato
che disciplina i processi d'allargamento prevede che ogni Paese
europeo possa aderire all'UE solo se rispetta i valori comunitari e
soddisfa i criteri d’adesione enunciati dal Consiglio Europeo di
Copenaghen del 1993. Tra questi ultimi spiccano la presenza di
istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto ed
il rispetto dei diritti umani.
I Paesi candidati devono inoltre avere un’economia di libero mercato,
sottoscrivere i diritti e i doveri connessi agli altri Stati membri, e
condividere gli obiettivi politici, economici e monetari dell’Unione.
Ma l’adesione all’UE è soprattutto subordinata al recepimento
dell’acquis comunitario, ovvero l’intero corpus giuridico europeo
finora accumulato e alla sua messa in atto con adeguate strutture
3
Ivi, pp. 24.
8
amministrative e giudiziarie. Nei Partenariati per l’adesione, adottati
nel 1998 e riveduti nel 1999 e nel 2002, sono stati definiti i criteri
prioritari per il Paese candidato e il sostegno specifico necessario a
ciascuno di essi. L’insieme di questi strumenti ha permesso di
effettuare uno “screening” (valutazione settore per settore) che
permette di stabilire per ciascun candidato un “vademecum
orientativo” sugli atti legislativi da adottare o modificare per rispettare
l’acquis comunitario. Come è noto, i Paesi candidati sono stati prima
riconosciuti come Stati europei (art. 49 del Trattato UE), e poi hanno
dovuto conformarsi ai principi, sopra citati, contemplati nell’art. 6 del
Trattato UE ed, infine, hanno dovuto altresì soddisfare i criteri
economici e politici noti come “criteri di Copenaghen”.
Nel ripercorrere tappe tanto significative E’ opportuno evidenziare la
responsabilità avvertita dall’Unione Europea nell’interazione con le
nascenti democrazie dell’Europa Centrale e Orientale. Essa ha avuto
concreta manifestazione, in primis, con il Phare, Programma di aiuti
alla Ricostruzione economica, originariamente destinato alla Polonia e
all’Ungheria, successivamente esteso a tutti gli altri Paesi dell’Europa
centro-orientale e non solo ad essi.
I principali obiettivi di questa iniziativa sono quelli di consolidare il
processo di riforma delle cosiddette economie di transizione e di
promuovere una più stretta integrazione tra i paesi PECO e l’Unione.
Nel 1999 è stato adottato un programma speciale di pre-adesione per
l’agricoltura, chiamato SAPARD (Special Pre-accession Assistance
for Agriculture and Rural Developement ) mentre nel 2000 è entrato
in vigore l’ISPA (Instument for Structural Policies for Pre-
accession). Gli accordi di commercio, cooperazione commerciale e
economica si rilevarono poco dopo insufficienti e inadeguati per
9
facilitare la transizione verso economie di mercato e democrazie
stabili, e, in ultima istanza, per far fronte all’obiettivo di incorporare i
paesi dell’Est europeo coinvolti al processo di integrazione europea.
L’ulteriore evoluzione sono stati gli Accordi di Associazione e di
Stabilizzazione, che hanno istituzionalizzato il dialogo politico come
mezzo per consolidare l’avvicinamento dell’Ue ai Paesi associati e per
costituire vincoli di solidarietà e cooperazione nuovi. Molto
importante è stato il contributo del Patto di Stabilità per l’Europa Sud-
orientale, varato a Colonia nel 1999. Esso è in primo luogo e
sostanzialmente un impegno politico a “sostenere i paesi dell’Europa
sudorientale nei loro sforzi per sviluppare la pace, la democrazia, il
rispetto dei diritti umani e il benessere economico, con l’obiettivo di
raggiungere la stabilità nell’intera regione”. Ciò implica offrire in
prospettiva ai paesi dell’area la possibilità di integrarsi nell’Ue (oltre
che genericamente nelle “istituzioni euro-atlantiche”): questo è un
incentivo non indifferente per i paesi balcanici, ma anche un impegno
a costruire un’Europa certamente ben più ampia di quanto potessero
immaginare i padri fondatori della Comunità.
Negli ultimi anni l’area del Mediterraneo è diventata oggetto di un
intenso dibattito politico internazionale, e rappresenta oggi una delle
aree privilegiate in cui si esplica l’attività di cooperazione dell’Unione
Europea; in particolare l’impatto politico dell’allargamento
dell’Unione europea ad Est ha reso necessario un riequilibrio verso
Sud, e dunque una maggiore attenzione verso i paesi mediterranei.
Nella storia delle relazioni tra i Paesi dell’Unione Europea e i Paesi
del Bacino Mediterraneo occidentale e orientale, spicca per originalità
e attualità il cosiddetto “Processo di Barcellona”, inaugurato con la
Conferenza Ministeriale svoltosi nella capitale catalana il 27-28
10
novembre 1995; in quella data, i Ministri degli Esteri degli allora 15
Stati membri dell’UE e di 12 Stati non-europei a Sud e ad Est del
bacino del Mediterraneo si sono riuniti per discutere la creazione di un
vero e proprio “Partenariato Euro-Mediterraneo”, le cui
caratteristiche sono enunciate nel documento finale della Conferenza,
la c.d. “Dichiarazione di Barcellona”. Quest’ultima contiene tre
capitoli principali: 1) il capitolo sul “Partenariato Politico e di
Sicurezza”; 2) Il capitolo sul “Partenariato Economico e
Finanziario”; 3) il capitolo sul “Partenariato Sociale, culturale e
Umanitario”. Ad oggi, quali risultati sono stati raggiunti?
La modernizzazione economica dei paesi mediterranei della sponda
nord e sud del Mediterraneo non si è verificata manifestandosi al
contrario situazioni di aggravamento degli equilibri sociali e politici.
L’esplosione dei movimenti migratori ne rappresenta l’indicatore più
evidente aggiungendo il fallimento di politiche coordinate di
prevenzione e sostegno a questo fenomeno. Il miglioramento dei
rapporti generali e quindi della sicurezza nei e tra paesi è solo
misurabile con gli indici del suo peggioramento, al punto che alla
Seconda conferenza di Lisbona del 2006 gli stati europei si sono
trovati a discutere tra loro, nell’assenza rumorosa dei paesi del sud
membri del partenariato, dei temi della (loro) sicurezza e del
(loro) “terrorismo”. L’obiettivo della costruzione di un’area di pace si
è trasformato nel suo contrario, con la crescente intrusione
statunitense in quest’area sia in termini economici sia militari e con la
partecipazione attiva o da spettatori passivi dei paesi europei. La
divisione culturale tra nord e sud si è accresciuta a livelli che non
consentono più di parlare di “rischio” dello scontro di civiltà, ma di
11
uno scontro in atto e nelle forme più violente. a scissione tra governi e
società civile, sia nei paesi europei sia nei paesi mediterranei del sud,
si è ingigantita a livelli mai registrati. Nei paesi europei i movimenti
della società civile esprimono oggi le forme più vivaci di pensiero
critico e alternativo ai processi di globalizzazione capitalistica e del
pensiero unico neoliberale, mentre nei paesi del sud raggiungono un
potenziale di consensi indiscutibile dappertutto e che li porta a mettere
fuori gioco l’egemonia di forze politiche tradizionali e consolidate
così come è avvenuto di recente in Palestina con Hamas e in Libano
con Hezbollah. Appare paradossale che questi eventi, che insieme alla
crescente influenza dei Fratelli mussulmani in Egitto e con movimenti
analoghi altrove esprimono il rafforzarsi irresistibile della società
civile nei paesi arabi, vengano letti in chiave negativa dall’Unione
Europea rispetto ai propri obiettivi di “democratizzazione”. Appare
strabico un atteggiamento che ripetutamente enfatizza il valore e ruolo
della “società civile” nei vari paesi, ma poi non è in grado di
riconoscerli al momento del loro manifestarsi. Nella Politica
Mediterranea l’UE auspica il rafforzamento della società civile nei
paesi del sud, ma poi ne limita l’inclusione a quelle organizzazioni
riconosciute come tali dai governi nazionali. Limite culturale questo
dell’Europa che si riflette anche nei movimenti della società civile del
nord che continuano a privilegiare rapporti con movimenti di
opposizione del sud che rappresentano al massimo una testimonianza
storica di epoche passate (nazionalismo o movimenti socialisti e
comunisti), oppure espressioni di un laicismo arabo spesso clone o
riproduzione sbiadita di un laicismo illuministico fallimentare e
frustrato (oltre che frustrante) dei e nei paesi europei.
12
A distanza di anni, non solo i risultati del Partenariato rimangono
nell’ombra, ma le prospettive appaiono ancora più nere a seguito
dell’aggravarsi della situazione geopolitica all’interno dell’area. L’UE
non ha mai riconosciuto il fallimento delle proprie politiche e del
processo di Barcellona, ma di fatto è andata oltre con l’introduzione
unilaterale dal 2003 delle Politiche di Vicinato. Si tratta di una nuova
cornice della politica estera dell’UE che supera il precedente
approccio strategico di rapporti e sostegno alla costruzione di aree
integrate intorno all’UE basate su accordi multilaterali e torna alla
politica dei rapporti bilaterali, stabiliti in base a scelte unilaterali
dell’UE. La dimensione strategica del rapporto EU Mediterraneo è
abbandonata e anche in quest’area i rapporti vengono riportati a
convenienze strategiche, caso per caso dell’UE verso singoli paesi.
Con la “nuova politica di vicinato” l’Unione Europea ha scelto quindi
la via del bilateralismo e dell’aiuto economico condizionato al rispetto
delle norme e degli standard europei. Sulla PEV pesano, dunque, non
poche incognite: fino a che punto servirà all’obiettivo di promuovere i
diritti umani e la democrazia e di stimolare la riforma politica nei
paesi verso i quali è diretta; e quale sarà il suo valore aggiunto rispetto
alle politiche precedenti?
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Capitolo I
L’Unione Europea e la rinuncia alla sovranità degli Stati
SOMMARIO: 1. Processo irreversibile: progressiva riduzione
delle aree di competenza nazionale. – 2. La tecnocrazia come
caratteristica principale della governance europea. - 2.1. Segue:
Contrapposizione tra espertocrazia e democrazia. 2.2. Segue: Le
ragioni dell’attuale crisi comunitaria. - 3. Istituzioni europee e
impatto sui sistemi costituzionali statali. – 3.1 L’ordinamento
giuridico da un dato a una scelta: la concorrenza tra ordinamenti
– 3.2. Segue: le norme di armonizzazione ed il principio del
mutuo riconoscimento.
1. Processo irreversibile: progressiva riduzione delle aree di
competenza nazionale
Gli ordinamenti statali si sono affermati tra il XV e il XIX secolo
espropriando i precedenti detentori di poteri (città, principati,
Parlamenti provinciali) e assumendo direttamente compiti, che, poi,
quanto all’esercizio, sono stati in parte delegati, conferiti, devoluti ad
altri soggetti, i cui poteri, dunque discendevano sempre dallo Stato.
In tal modo gli ordinamenti generali si sono dotati del monopolio
dell’impiego legittimo della forza fisica e hanno concentrato in un
unico vertice tutti i mezzi politici. Da quel vertice, denominato
14
governo, discende un’organizzazione piramidale esecutiva a struttura
compatta. A questa espropriazione dei titolari di poteri e a questa
concentrazione dei poteri in un vertice esecutivo si aggiunge la
sottomissione dei soggetti, ai quali si chiedono lealtà e fedeltà e,
principalmente, un’appartenenza esclusiva.
Le caratteristiche degli ordinamenti generali sono completate dalla
produzione di un unico diritto, assunto come esclusivo e applicato
uniformante, in modo da impedire l’applicazione di altri diritti,
consentita quando, accanto agli iura propria, vi era uno ius comune e
quando i giudici potevano applicare la lex alius loci.
Lo stato ha cominciato alla metà del secolo scorso a declinare. La crisi
ha riguardato sia il potere interno che quello esterno.
All’interno, gli Stati si sono frammentati in regioni e organizzazioni
nazionali che fanno da corona al governo e talora si sovrappongono a
questo.
All’esterno, gli Stati cedono la loro sovranità a organizzazioni
internazionali generali e specializzate, a istituti di cooperazione e a
organismi sopranazionali
4
.
4
Si conoscono sei diverse specie di integrazioni regionali. La prima è quella di
associazioni di Stati come forum di cooperazione. Queste assicurano la
cooperazione nelle politiche economiche e commerciali, negli investimenti, nelle
politiche della concorrenza. Sono forme di regionalismo aperto. Non sono fondate
su accordi commerciali. Esempi sono l’OCSE, che comprende anche i paesi
europei, l’APEC, per i paesi asiatici del pacifico e l’ASEM per l’unione europea e
i paesi asiatici. La seconda forma di integrazione regionale è quella costituita dagli
accordi di preferenza non reciproca, che consistono in concessioni unilaterali di
vantaggi a taluni paesi esportatori, senza che i paesi importatori abbiano vantaggi
equivalenti. Tale trattamento è fatto dall’Unione Europea ai paesi del
Mediterraneo e dell’Europea centrale.
La terza forma di integrazione regionale è costituita dalle zone di libero scambio.
Un esempio è l’ASEAN per i paesi del Sud-est asiatico. La quarta forma è quella
delle unioni doganali, zone di libero scambio che includono alcuni aspetti della
politica commerciale, hanno una tariffa esterna comune per le importazioni e
ripartiscono le entrate doganali secondo criteri prestabiliti. Ad esempio il gruppo
15
Alcuni di questi organismi sono ordinamenti completi, dotati di
plurisoggettività, organizzazione e normazione; altri sono ordinamenti
incompleti. Ma tutti rappresentano un segno di debolezza degli Stati e
della loro perdita di sovranità
5
.
“Il ruolo dello Stato è in crisi” come conseguenza dell’evoluzione dei
suoi elementi costitutivi, e cioè il popolo (sempre meno vincolato alle
rigide componenti religiose, linguistiche ed etniche che in passato
erano le fondamenta della nazione), il territorio (sempre più soggetto
alle interferenze e poteri di centri decisionali sopranazionali e
multinazionali), e l’ordinamento giuridico (sempre meno espressione
di un potere sovrano ed indivisibile)
6
.
Questo processo comprime, da una parte poteri e funzioni dello Stato
relative ad istituti democratici e conquiste politiche e sociali che sono
costate lotte secolari, e dall’altra comporta la crisi delle istituzioni
della rappresentanza politica e la sostituzione di un governo
andino (Bolivia, Colombia, Ecuador, Perù e Venezuela). La quinta forma è quella
del mercato comune, unione doganale che comprende, oltre alle merci, anche i
fattori della produzione (capitale, lavoro). L’ultima è quella dell’Unione, che
comporta, come nel caso dell’UE, anche un’integrazione delle politiche
economica e monetaria. Queste forme di cooperazione regionale si sono andate
moltiplicando e approfondendo. Tutte comportano un minimo di organizzazione.
Ma solo alcune danno luogo a organizzazioni composte. È tale il NAFTA, che
unisce Strati Uniti, Canada e Messico. L’accordo istitutivo, firmato nel 1992, è
entrato in vigore nel 1994. esso prevede l’eliminazione delle barriere agli scambi;
detta norme comuni su servizi, investimenti, ambiente, problemi sociali. È tale
anche il Mercosur, che unisce Argentina, Brasile e Uruguay. Ma l’organizzazione
composita più sviluppata è l’Unione Europea, composta da 27 Stati, istituita nel
1957, fondata sulla circolazione di beni, servizi, lavoro e capitali, su norme
comunitarie sulla concorrenza e politiche comuni che includono anche la difesa,
gli affari esterni, la giustizia e l’ordine pubblico. Cfr. Cassese S., L’unione
europea come organizzazione pubblica composita, in La crisi dello Stato, Roma-
Bari, Edizioni Laterza, 2002, pp 69 ss.
5
Cassese S., L’unione Europea come organizzazione pubblica composita, in
Rivista di diritto pubblico comunitario, 2000, n. 5, pp. 987.
6
Amirante C., Unioni sopranazionali e riorganizzazione costituzionale dello
Stato, G. Giappichelli Editore-Torino, 2001 pag. VIII.
16