5
ti», « pagano-cattolico») si conciliano essenze apparentemente irriducibili e comunque sempre si
fondono le diversità (« geranio-edera», « orto-giardino», « demoni-folletti», « testimone-cronista»,
« soffitto-pavimento», « bluviolaverde»).
◊ Osservava Contini a proposito della preferenza accordata da Petrarca alle endiadi e alle antite-
si: « è l’universo che gli appare scomposto»
4
. Così nella poesia di Bertolucci possiamo forse ravvi-
sare nell’uso copioso di una particolare tipologia dell’antitesi, che enfatizza la coesistenza, la so-
vrapposizione o transustanziazione delle essenze più che la loro irriducibilità, l’espressione più vi-
vida e immediata di una forma mentis, di una persona (il termine vuole alludere anche alla forte ca-
rica teatrale che i critici hanno riconosciuto alla poesia del parmigiano). Il reale appare scisso a
Bertolucci, ma nello stesso tempo pervaso (o lo è la mente dell’autore-attore
5
, il che è lo stesso) da
una contrapposta tendenza alla riunificazione; la mente contemplante riconosce in sé una volontà
(contrastata) di adesione ad esso e alle sue contraddizioni; il senso della precarietà e
dell’irreversibilità del tempo bilanciato da un istinto di abbandono alla montaliana « eternità
d’istante» o, per dirla con Bertolucci, alla « presenza immemoriale».
È come se l’ossimoro rientrasse nel novero dei principi a priori o categorie (nel senso kantiano)
che insieme filtrano e fondano l’esperienza di questo intelletto (e di questo cuore).
E, intesa, come ho già detto, quale compenetrazione di opposti, compresenza di un essenza e del-
la sua negazione, nella ‘direttrice ossimorica’ mi sembra ravvisabile una chiave d’accesso privile-
giata, offerta al lettore della CL, una firma d’autore in grado di aprirlo ad una più chiara compren-
sione dei fili molteplici che legano Bertolucci al tempo: tempo cronologico, oggettivamente misu-
rabile della vita reale, tempo interno del ricordo, tempo ‘creato’ (musicale, secondo Thomas Mann)
del ‘romanzo’, tempo ritmico del verso. Dei fili che legano, infine, questi volti (o maschere) del
tempo tra di loro.
◊ Sono proprio queste relazioni che la presente esposizione vorrebbe mettere in luce proponendosi
come un primo approccio, da una prospettiva liberamente strutturale, metrica e stilistica, un periplo
dell’opera (non disdegnante anabasi ed esplorazioni più circospette, analisi di dettaglio) intesa co-
me organismo ossimorico, caratterizzato dalla composizione, dalla convivenza o dal contatto di
tendenze opposte e idiosincratiche.
Così, anticipo sfiorandoli appena con qualche disordine alcuni punti essenziali, l’istanza roman-
zesca o comunque narrativa (narrazione della ricerca - volontaria - di un tempo perduto) convive ed
è insieme negata dal carattere intermittente delle epifanie lirico-narrative che fanno la CL una di-
scontinua « elegia luminosa» (Longhi di Morandi): la tecnica poundiana « dello staccato e della giu-
stapposizione significativa dei momenti senza transizioni o nessi logici»
6
sembra essersi trasfigurata
e adeguata al collage di unità superiori caratterizzate da un’originale connubio di oralità e icasticità
e da un peculiare impiego dei tempi verbali (e qui, per noi, si fondono grammatica e stilistica
testuali). Se « gli eventi [in senso narrativo] sono azioni o avvenimenti, ed entrambi sono
cambiamenti di stato»
7
, nella CL si danno, forzando un poco i termini, solo stati successivi, il
cambiamento essendo piuttosto l’effetto (mentale e in certo senso ottico) del loro addipanarsi: è qui
che si può ravvisare un’allusione o comunque un rapporto di somiglianza con l’arte cinematografica
piuttosto che nella scomposizione dell’opera in primi piani, campi lunghi, zoomate ecc., operazione
in sé non illegittima ma che rischia di far apparire come esclusive di un testo delle qualità
connaturate all’espressione linguistica tout court.
4
G. CONTINI, Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Firenze, Sansoni, 1943, p. 34.
5
Cfr. risvolto di copertina del primo volume della CL, Milano, Garzanti, 1984 e Foglio di un diario delle vacanze, in
VI, Milano, Garzanti, 1984
2
.
6
S. PEROSA, Ezra Pound: per una visione d’assieme (maschere, epica della storia e dell’io), in AA.VV., Ezra Pound a
Venezia, a cura di Rosella Mamoli Zorzi, Firenze, Olschki, 1985, p. 19.
7
S. CHATMAN, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche Editrice, 1981, p. 21.
6
Sotto il segno dell’ambiguità e dell’indeterminatezza è lo stesso statuto del narratore, i cui line-
amenti sono, ma non ci si può scommettere, quelli di A. personaggio, mentre altra spia della dialet-
tica ossimorica tra impulso lirico e impulso narrativo (e teatrale) è l’alternanza tra l’uso della terza
persona, l’allocuzione in seconda ai personaggi (con gli stilemi vocativi e interiettivi connessi) e il
progressivo subentrare della prima. Se la direzionalità della storia è contraddetta da sospensioni e
da escrescenze e sviluppi divaganti, su un altro piano, ma analogamente, semantica e intonazione
frasali devono venire a patti col controcanto dell’intonazione versale (espressione di una cadenza
intima, sollecitata da inarcature e inneschi ritmici) a loro volta inglobando motivi guida ritmico-
tematici che esprimono l’uguaglianza nella diversità e dunque emergenze dell’arithmos nel ritmo,
ritmo dei versi e ritmo del tempo. Come il ritmo dell’associazione (proprio della lirica) rimpiazza
quello della ricorrenza o quello della continuità (tipici, rispettivamente, dell’epos e della prosa
8
) co-
sì ricorrenti emblemi formali di ripetizione e circolarità (cui corrispondono quelli tematico-
figurativi della nicchia, della stanza, del capanno, dell’immobilità, della vacanza) tradiscono un
rapporto conflittuale col tempo, tra l’adesione e l’addomesticamento, e la sotterranea costante ten-
denza a fuggirlo.
Tutti questi ed altri caratteri non costituiscono, almeno nelle parti più riuscite, altrettante polariz-
zazioni dell’opera al proprio interno, tanto meno giustapposizioni conflittuali e irriducibili. Non an-
titesi insomma, ma ossimori, cioè, come ho più volte ripetuto, compenetrazioni di essenze, concilia-
zione e superamento di opposti. Che danno vita ad una cosa diversa, ad una realtà altra, seppure so-
spesa in un equilibrio precario, impossibile, miracoloso. Liricità e narratività, « contenuto principa-
le» e divagazione, uguaglianza e diversità... non sono che approssimativi puntelli terminologici
funzionali solo in coppia per alludere ad un tertium che li sussume e li trascende. Distillazione di
una mente che sa naufragare, perdersi entro i confini della propria attenzione.
E sia pure che per molti il suo punto più alto Bertolucci lo abbia toccato con VI, e riconosca
qualcuno, con il sottoscritto, un debole per il fascinoso diatonismo del poemetto, purché non si
traggano da quelle prove mirabili criteri di giudizio da applicare impropriamente all’opera maggio-
re. Ogni terra ha le sue leggi. Non resta che abbandonarsi all’atonalismo mesmerico dei ritmi della
Camera, riconoscendo che il cuore stavolta batte in modo diverso: più disteso, ma con accelerazioni
subitanee e irrefrenabili e sospensioni che sembrano mozzare il fiato: così doveva battere a chi
l’andava componendo.
8
O meglio, della narrazione in prosa. Terminologia e concetti in N. FRYE, Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei
simboli, dei miti e dei generi letterari, Torino, Einaudi, 1969, pp. 329 sgg.
7
PARTE PRIMA
8
Capitolo primo
WHO IS WHO?
LE VOCI DELLA NARRAZIONE
◊ È un’opera a più voci, polifonica, la CL: c’è la voce « di chi scrive, quella di A., che parla quando
è più grande, e poi c’è una voce che non so di chi sia, quella che dice “tu...”»
9
. La terza voce è quel-
la dominante e appartiene a chi si definisce « annalista» (cap. V), « umile estensore di annali», « co-
pista di giornate» (cap. XVII) e anche « cronista» (cap. XLVI): passa con disinvoltura dalla terza al-
la seconda persona accordando epica (del quotidiano) e lirica
10
.
Succede, soprattutto e in crescendo nel libro II, che ad A., che dal capitolo VIII s’avvia a rivestire il
ruolo di primo attore in questa sceneggiatura, sia data facoltà di parola e succede in apposite nicchie
testuali (corrispondenti alla misura di una lassa) segnalate dalla presenza delle virgolette. Con effet-
ti anche paradossali perché A. non racconta una storia dentro la storia, come nei racconti a cornice,
ma si pone in concorrenza con il narratore ufficiale, la sua materia di narrazione, o meglio, di cro-
naca, non distinguendosi da quella di quest’ultimo. E se in genere gli interventi di A. sono logica-
mente ammissibili almeno per questo, che sono compatibili con l’età del protagonista (ovviamente
variabile col procedere della narrazione) essendo già diciassettenne nel capitolo XXII, dove incon-
triamo la seconda lassa virgolettata del libro, il suo primo intervento (nel cap. V) è un palese ana-
cronismo, una dichiarata, duplice prolessi
11
, resa possibile dalla libertà organizzatrice dell’annalista
rispetto alla propria materia. Non si tratta solo di eventi che vengono proposti con anticipo sul tem-
po della storia, ma la strategia registica dell’annalista - in ciò sta la sua peculiarità - si avvale a que-
sto scopo della collaborazione di un personaggio, per giunta non ancora entrato in scena: A. si ri-
volge alla sorella maggiore, che non ha mai potuto conoscere perché morta bambina, quando ancora
deve nascere; ci illustra episodi chissà come conosciuti, certo riscaldati dall’immaginazione di « chi,
/ nato dopo di lei», non può ricordare « il biondo / dei suoi capelli e il nero dei suoi occhi»: così la
prolessi ingloba in sé il suo contrario ed è insieme un’analessi: così l’arte svela i suoi meccanismi e
i suoi artifici.
Inoltre in questi interventi in cui A. realmente parla, anzi, recita, chiarisce o commenta la propria
situazione, se pure vi sono altri personaggi intorno a lui, non riceve risposte, come se nessuno di
questi lo udisse. Insomma, la risorsa drammaturgica del soliloquio è innestata in una narrazione alla
9
BERTOLUCCI ET ALII, Divagazioni su La Camera da Letto. Conversando con Attilio Bertolucci, ne « Gli immediati din-
torni», dicembre 1989, 2, p. 26. A queste si può aggiungere un’altra voce, seppur isolata, le cui parole sono trascritte in
corsivo nella parte finale di XXIII.
10
Osserva Mengaldo che « all’impersonalità pseudo-obiettiva e al noi sociativo-familiare» della CI sottentra sempre più
spesso in VI « l’io dell’autore» (Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1990, p. 570). La CL rappresenta per-
tanto un ulteriore progresso, ma sempre in termini di riqualificazione dell’antico. Il noi, l’io, il tu (che lo presuppone)
ritornano sotto la strategia registica della nuova « impersonalità pseudo-obiettiva» (e con progressiva conquista in auto-
nomia dell’io). Ma già VI - che allo sdoppiamento dell’io ottenuto attraverso un’espediente di tipo grammaticale (la
terza persona pronominale, appunto) di FN (Ricordo di fanciullezza, Poi nella serena luce) risponde con uno sdoppia-
mento che si avvale di strumenti materiali, uno specchio, un ritratto (si pensi a liriche quali Piccolo autoritratto (Caffè
Greco) e Ritratto di un uomo malato) - offre l’alternanza, entro lo stesso componimento e rispetto al medesimo attante,
di prima e terza persona (si rilegga la seconda parte di Verso Casarola ; o Nonna e nipote, dove ad un’allocuzione (na-
turalmente al Presente) segue una conclusione « narrativa» in terza persona (e al Perfetto)). Sui « problemi pronominali»
che contribuiscono alla complessità di questa raccolta cfr. 2.5.1., nota 58.
11
O anticipazione o flash forward. Prolessi (e analessi, che compare più sotto) è il termine adottato da Genette. Cfr.
IDEM, Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1996
7
.
9
terza persona, richiamando alla mente alcuni episodi del romanzo novecentesco, soprattutto anglo-
americano, tra As I lay dying e The waves.
Di A. peraltro conosciamo il nome (pur condensato nella forma pudica dell’iniziale
12
), i dati a-
nagrafici e quanto della sua vita ci dicono il narratore e lui stesso quando prende la parola. Ma
l’altro, che volto si nasconde sotto la maschera dell’annalista-cronista? È una domanda che sorge
spontanea al lettore perché le due voci hanno un timbro enigmaticamente affine, si alternano (specie
nel libro II) l’una all’altra apparentemente diverse, in verità allo stesso modo familiari, ambigua-
mente richiamantisi. Identico è , in effetti, il loro stile espressivo: formule di contatto (« Lascia...»,
« Tu...»), anticipazione degli eventi (uso del futuro semplice)
13
, interrogazioni (il « Ma chi è ...» di
A., in XLV, 29, ad esempio, riprende una movenza tipica del narratore), autopresentazioni (« Io so-
no il suo figlio ultimo nato», « io, umile estensore di annali»), giunture sintattiche, persino i passag-
gi, così caratteristici dell’annalista, dai tempi narrativi alla focalizzazione scenica
14
(si veda la pri-
ma lassa tra virgolette del libro nel cap. V o la prima del cap. XXXVIII), tutto ci parla di un’identità
più che probabile fra A. e il narratore principale. Anche minime tracce verbali possono caricarsi in
poesia di un particolare significato: il piccolo A. « per prolungare l’infanzia accudisce paziente / a
preparare il filo di ferro lucido che legherà / la paglia» (XXI, 85-87) e il narratore, per definire la
sua opera, ricorre allo stesso verbo e allo stesso aggettivo: « la paziente / pezzatura cui accudisco»
(XX, 2-3).
Forse non è azzardato distinguere tra un A. narrator e un A. agens - o, separando i membri del
giustapposto col quale lui stesso si qualifica una volta
15
, tra un A. cronista e un A. testimone - ed è
lo statuto del primo ad insospettire. Quando A. parla lo fa come se fosse ben consapevole di coope-
rare allo sviluppo testuale
16
esplicitando per il lettore la propria identità, pronunciando a voce alta i
propri pensieri (« Chissà perché - mi dico mentre lei si avvicina», XLII, 135), e, anche quando si ri-
volge a N., introduce nel suo discorso precisazioni ingombranti che ne inficiano la ‘naturalezza’ la-
sciando intuire il vero destinatario - tacitamente presupposto - delle sue parole (« Bernardo dorme in
un’altra camera / su un letto da una piazza e mezzo, misura un tempo / molto in uso, e a noi, se ci
pensiamo, risultante / d’un’assoluta irrazionalità», XLI, 49-52; « La tua giovinezza si screzia / come
fa il garofano che t’assomiglia / io ti cammino accanto dubitoso / nel crepuscolo oscurato di guer-
ra», XXXVIII, 94-97). Proprio come la voce dominante sembra descriverci e commentare ciò che
l’annalista vede, come se illustrasse delle diapositive proiettate sulla parete di una stanza buia, così,
si direbbe, A. narrator prende a volte la parola immedesimandosi in qualche situazione evocata dal-
12
Questo pudore nominativo non ha nulla ha che vedere, sia detto di passata a scanso di equivoci, con le sigle azzeranti
in cui si dissolve il personaggio nell’opera di un Claude Simon e di altri nouveaux romanciers o con il motivo
dell’identità inafferrabile e colposa di K. nel Processo o nel Castello di Kafka.
13
Nel cap. XLIV, ultima lassa, A. arriva perfino ad anticipare, come solo il narratore potrebbe, ciò che non può sapere
al momento dell’enunciazione (« poi / si saprà, erano mitraglie»). A soffermarsi qualche istante su questo luogo si note-
rà almeno che questo « poi / si saprà» riecheggia il « si saprà poi» che il narratore pronuncia appena due pp. prima. Che
corrisponde l’adagio illustrativo del reporter (« così io sposto gli occhi / al paese», certifica A.; e il narratore: « dovrei
io, cronista dell’anno ’51, / girando l’occhio lentamente spostarmi»). Che al narratore rimanda l’uso dell’ossimoro (il
paese è « diviso o unito a noi / da ponticelli muschiosi»), del tricolon (« annuvolato, addensato, ottenebrato»), di espres-
sioni formulari (« l’acqua che sempre va via»), di un avverbio come « unitamente», dell’aggettivo « sepatati»...
14
Bastino questo accenno fugace e, per ora, un po’ sibillino, e la promessa che l’argomento sarà ampiamente trattato
più avanti.
15
« Il racconto [...] / ripreso ormai da me testimone-cronista», CL XLIII, 43-47.
16
Qualcosa di simile avviene in un romanzo apparso a Lisbona due anni prima della pubblicazione del primo volume
della CL, Memorial do Convento (si noti il titolo, per così dire, annalistico), di José Saramago (ho sottomano l’edizione
Caminho, Lisboa, 1994
22
da cui cito), nel quale l’osmosi tra il mondo in cui si racconta e quello che si racconta (Genet-
te) è ben altrimenti audace rispetto a quanto avviene nella CL: un personaggio può presentarsi e parlare in modo « inna-
turale» a beneficio del narratario (« com esta manta me cubro, eu padre Bartolomeu Lourenço que voltei da Holanda [...]
boas noites», p. 116); può addirittura prevedere eventi futuri, come il capomastro di p. 135. Di questa singolare e rile-
vantissima opera in cui « Saramago si serve dell’oralità e della tradizione narrativa dei romanzi popolari del Portogallo
[...arrivando] ad una sintassi nuova e creativa» (Castro) tornerò ancora a parlare, proponendo un confronto tra il suo
narratore e quello della CL (cfr. 2.5.1.).
10
la proiezione luminosa. « Comincio / a parlare, persuasivo», dice in XLIV, 159-160), e pare proprio
che stia commentando per noi, suo pubblico, la parte che il suo alter ego recita sul proscenio
dell’immaginazione e della memoria
17
.
Il narratore principale poi - che sa leggere così bene nell’animo di A., e trova dei limiti semmai
nel dirci ciò che lo stesso A. fatica a ricordare (cfr. XIII, 4
a
lassa)
18
, non riesce a nascondere le trac-
ce di un rapporto peculiare con lui, ad esempio in certi ammicchi, come il seguente, al limite del di-
scorso indiretto libero: « ...Può essere / una consolazione il ricorrere, mentre il visitatore /
s’avventura nel campo della politica / ...sì, il ricorso, naturalmente, a Dostoevskij...» (XXIX, 220-
225); o in talune circostanze in cui la simpatheia nei confronti di A. lo porta ad una immedesima-
zione totale con i suoi sentimenti, come in questa, dove se non le parole il succo dei pensieri e dei
sentimenti è quello di A. a tal punto che, accortosi di essersi lasciato trasportare dall’onda dell’im-
medesimazione emotiva, di essersi « spinto troppo in là»
19
, il narratore deve scrollarsi, aggiustare il
tiro, sostituendo il frutto dell’immaginazione di A. con la realtà dei fatti:
E dove lui la ritrovò , testimone
appassita d’un gioco
privo di senso, a ripensarci, mentre
la ruota delle ore si fa più
e più veloce; ma così caro gioco,
perché già entrato nella trama
dei giorni da ricordare, da riporre
nel corredo che stanno preparando
con una felicità perversa quelli
cui è concesso di non lasciare le stanze
amate, il breve giardino ad esse
congiunto, presto nudo e stillante
lagrime che non toccheranno, non
baceranno le sue guance. No il tempo
dura al bello
20
... (XIV, 63-77)
Ma soprattutto sembrerebbe inchiodarlo un’inequivocabile impronta linguistica, che lo tradisce,
per lo più, in alcuni momenti di forte partecipazione emotiva: « si voleva finire» (XII, 142), « Si sta /
dubitosi e inquieti» (XVIII, 12-13), « ci se ne rende conto» (XXI, 49), « senza che la grandine abbia
prodotto danni a noi» (XXI, 58), « ci si limita» (XXIV, 23), « non ci faranno sapere» (XXIII, 140),
17
A., dunque, sa che il contesto è ignoto al lettore-ascoltatore e si preoccupa di inglobarlo nel messaggio. È
l’operazione caratteristica del mittente della comunicazione letteraria, il quale, con Segre, « introietta il contesto nel
messaggio».
18
È pur vero che il narratore (il cui occhio arriva ben più lontano, nel tempo e nello spazio, di quello di A.-
personaggio, ma non molto diversamente, se teniamo conto che le sue conoscenze sono il frutto di ricostruzioni
d’annalista, immaginifico, da quanto avviene nella Recherche, dove le informazioni del protagonista possono essere in-
tegrate da quelle del narratore autobiografico e, persino, dalle informazioni del « romanziere onniscente», cfr. Genette,
G., op. cit., p. 237 e segg.) anche rispetto ad A. sa attenersi, per sua imperscrutabile volontà, a una focalizzazione ester-
na: « non s’è accorto di lei, o ha finto» (XIII, 179), ma il più delle volte in questi casi essa dà l’impressione di essere so-
lo apparente e il narratore di sapere bene quale, tra le ipotesi formulate, corrisponda al vero, o se non colgano entrambe
nel segno: « troppa gioia o troppa pena serrano» (IX, 27); « quieti o sembra» (XXX, 113); « non sai / se più li tocchi la
cangiante ala della giovinezza / [...] o li striga nel petto l’angoscia e il dubbio» (XLIV, 48-53)... ed è in grado, almeno
in un caso, di confermare ciò che A. può solo ipotizzare. All’inizio di XXXVII la voce narrante, evocando le fresche
sere estive, trascorse coi grandi all’aperto, di A., dà per certa la presenza della mamma. A., che era riandato con la men-
te a quel periodo all’inizio di XXXV ci aveva detto: « Non so, non ricordo se la mamma / assistesse a queste scherma-
glie, penso, / spero di no...»
19
Cfr. Diario di lavorazione de «La camera da letto», in VSC, v 19.
20
Cfr., per la movenza, Fogli di un diario delle vacanze, VI, lassa 3ª, vv. 18 sgg.: « Una mattina come questa cadde /
[...] / [...] una neve santa / [...] / [...]. No, / che su di un altro monte, ben lontano».
11
« non ci è dato saperlo» (XXIII, 305)
21
, « un cielo che ci illuse» (XXVII, 118), « dubitosi si specula»
(XXXVI, 217), « l’inverno ci ha lasciati» (XXXVIII, 50), « si assiste impotenti» (XLII, 5). Chi pro-
nuncia queste parole si compromette includendosi nella pluralità o genericità del soggetto
22
. Come
Ricardo Reis potrebbe dire: « não sei de quem recordo meu passado».
Verso la fine del libro, tuttavia, quando in un’indicazione di regia il narratore ci anticipa che la
« salvazione d’una famiglia piccola / [...] verrà sì e no raccontata in sequenze / più e più indecise e
reticenti» (XLII, 353) sentiamo che il velame è ormai rimosso; che la sua ritrosia è quella di chi de-
ve riportare alla luce dell’attenzione una tragedia vissuta in prima persona. E lo stesso capitolo
XLII si chiude con una lassa rivelatrice:
[...]
l’aia è sempre popolata dagli uomini
in assemblea permanente cui m’onoro
d’appartenere
23
[...]
...Fra tanti
dati contraddittori uno solo ritorna
a darci tregua [...].
A tutta prima diremmo che è ancora A. che parla, come nella lassa a questa precedente (« La cosa
che li meraviglia, intriga e distrae / siamo io, N. e il bambino, più il bellissimo cane»). Ma stavolta,
e un po’ ne siamo stupiti, non ci sono i segnali di citazione a racchiudere la serie dei versi.
Così quando, nell’ultimo capitolo, il « cronista dell’anno ’51» infrange « la frontiera mobile ma
sacra fra due mondi: quello dove si racconta, quello che si racconta»
24
e sale, per così dire, sulla
scena, i due profili sembrano definitivamente adeguarsi ad uno stesso volto
25
.
Insomma, se pure Bertolucci confessa di non sapere chi veramente sia questa voce che dice
« tu...», al lettore sarà concesso di lasciar trapelare i propri dubbi e sospetti... Senza sentirsi obbliga-
to a dare una parola definitiva. Basti riconoscere l’ossimoro, il contatto ambiguo di due persone
« vicine, distanti, separate»
26
.
21
Negli ultimi due casi citati non si può del tutto escludere tuttavia che il ci includa narratore e lettori-ascoltatori e il
Futuro si riferisca a un punto ulteriore del testo (appartenga cioè al livello extradiegetico). Mentre il possessivo del sin-
tagma « nostra prigionia», in fondo alla prima lassa del cap. XXVII, ci dice solo che il narratore è italiano.
22
Fin troppo vistoso il rapporto tra narratore e A. (e forse anche per questo il « pezzo» non ha trovato posto nel ‘roman-
zo’) nel Capitolo perduto e ritrovato de «La camera da letto», incluso in LUC: « Perché voci ritornino a liberarti / dallo
smarrimento / di questo tempo inquieto, questa eternità / pomeridiana [il narratore si rivolge a se stesso], basta che N. /
avvicinandosi alle abbronzate, alle maliziose donne, / le saluti, che esse / rispondano invitandoci nella cucina assolata /
[...] / e che tu, A.».
23
Cfr., per la movenza, VI, Una lettera a Franco Giovanelli, vv.10-11.
24
GENETTE, G., op. cit., p. 283.
25
È di Tabucchi, mi pare, l’osservazione che propria del romanziere è l’attitudine ad essere molti in uno, mentre il poe-
ta è sempre se stesso. « “Jeder Dichter ist ein Narzisus” citava da un poeta tedesco Saba» ( ed io cito da P.V.
MENGALDO, Iterazione e specularità in Sereni, in ID., La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano,
Feltrinelli, 1975, p. 361). Ma ricordo anche la considerazione di Genette (op. cit., p. 294) che il romanzo contempora-
neo « non esita a stabilire fra narratore e personaggi(o) un rapporto variabile o fluttuante, vertigine pronominale accor-
data con una logica più libera, e con una idea più complessa della ‘personalità’».
26
CL, XV, ultimo verso. E non si interrompono forse questi poetici annali parmigiani anche perché, con A., diparte
l’acuto occhio dell’annalista?