situazione familiare acquisite dalla collega che mi ha preceduto
nell’intervento educativo a casa.
I genitori dei bambini - Vincenzo e Tino1 - si sono da poco separati. Dopo la separazione, i
bambini sono stati affidati alla madre. E' la madre, in primo luogo, ad aver fatto questa
scelta, perché si sentiva colpevolizzata dal marito, che le rimproverava la mancanza di polso
nell'educazione dei figli.
La madre… è una donna molto forte e volitiva, ma, in certi momenti, è evidente che
nasconde una grande fragilità: ad esempio, è difficile correggere i bambini in sua presenza,
perché fare questo è come metterla in discussione, una sorta di minaccia alla sua autorità
genitoriale.
Dal punto di vista educativo emerge, anche ad una prima osservazione, che V. , il
primogenito, è privilegiato nelle cure e nelle attenzioni materne: T. viene sempre dopo o,
addirittura, è dimenticato. Inoltre, è evidente la mancanza di regole e di regolarità nelle
cose: alla madre risulta difficile porre dei limiti ai comportamenti disordinati dei figli, e
accetta, più o meno allo stesso modo, tutto ciò che i bambini fanno sia che si tratti di
comportamenti adeguati o inadeguati, rinunciando così ad una qualsiasi forma di educazione.
Il padre… frequenta i bambini tre volte alla settimana. E' un uomo piuttosto emotivo, ma
molto attaccato ai bambini, specialmente a T., il più piccolo. In generale, si può dire che ha
uno stile educativo più correttivo e meno condiscendente di quello della madre.
I due si sono sposati per via della prima gravidanza e la loro vita matrimoniale è sempre stata
burrascosa, a causa dei problemi legati ai figli.
V., il primogenito, ha 9 anni e soffre di una psicosi "simbiotica"2. Ad un primo sguardo V.
risulta essere un bimbo carino, agile, ma, ad uno sguardo più attento, manifesta, sia nella
fisionomia che nel comportamento, dei tratti patologici: tiene la bocca quasi sempre aperta e
ha una lingua molto lunga (simile a quella dei bambini affetti da sindrome di Down), sputa,
mette in bocca qualsiasi cosa, si toglie sempre le scarpe, salta e si muove continuamente,
non parla ma ricerca l'attenzione dell'altro, urla e smania, prende le mani dell'altro per farsi
toccare, si guarda allo specchio e fa delle smorfie.
V. fa sempre ciò che vuole: si aggrappa alla madre, tira le cose o le lancia fuori dalla finestra,
afferra tutto e generalmente lo porta alla bocca. Mangia in modo scombinato: gelati (anche
d'inverno), patatine, salatini, dolci, caramelle. Quando è ora di mangiare il bambino sta nudo
sul tavolo e prende le cose con le mani. Insomma, sembra che per lui e il resto della famiglia
non esistano né regole né confini.
T., il secondogenito, ha 5 anni, è molto bello, ipercinetico. E’ un bambino autistico, con
arresto totale del linguaggio e un gergo tutto suo (sembra di sentire i vocalizzi di un bimbo di
sei mesi). Ha bisogno di essere accudito, seguito, anche perché i suoi bisogni vengono spesso
trascurati rispetto a quelli di V.
T. non si fa toccare facilmente, evita il contatto visivo, dà l'idea del bambino inafferrabile.
Queste caratteristiche comportamentali sono più evidenti in rapporto alle figure femminili;
sembra più fiducioso, infatti, nell'entrare in contatto con figure maschili.
1 Questi nomi, come quelli degli altri bambini, sono per ovvie ragioni di riservatezza
inventati.
2 La diagnosi dell’equipe dell’Ospedale Maggiore di Bologna sarà diversa: autismo severo
2
T. generalmente tende ad imitare il fratello: agita le braccia come lui, si morde il dorso della
mano come V.; però, sembra agitarsi di più, ride forte, corre, si butta per terra come se si
tuffasse e si lancia dal tavolo al divano, da un letto all'altro…
Una situazione di questo tipo, che la mia osservazione diretta ha
sostanzialmente confermato, pone alcuni interrogativi:
l’osservazione clinica, per quanto accurata, può dar conto di
situazioni familiari come quella descritta? In altri termini, il
comportamento in un contesto come quello dell’osservazione
clinica quanto può essere rappresentativo del comportamento
di un bambino in altre situazioni?
è possibile integrare l’osservazione clinica con l’osservazione
negli ambienti di vita?
Altre domande sono emerse dal rapporto con la madre dei
bambini. Per introdurle, utilizzo un altro passaggio della relazione.
L'intervento vive, buona parte del suo tempo, in un contesto di relazioni in cui la presenza
materna è forte e direttiva. La percezione dell'ingresso all'interno di un sistema è stata,
quindi, molto più chiara rispetto ad altri tipi d’intervento, che si svolgono prevalentemente
fuori dal contesto familiare.
Una serie di concause (l'età dei bambini, la simbiosi con V., le scarse relazioni esterne della
madre, la sua mancanza di una occupazione e la sua struttura di personalità) hanno
determinato un rapporto madre-figli, in particolare madre-V., così stretto che è difficile,
nella pratica, ipotizzare un intervento a prescindere da questa relazione primaria.
Nella fase iniziale dell'intervento, così, ho deciso di raccogliere l'interpretazione materna
circa le cause delle patologie dei figli e la sua idea di percorso terapeutico, cercando anche
di capire quale significato attribuisse all’intervento educativo. Così, facendo sono emerse
delle convinzioni abbastanza precise, che si possono così sintetizzare: 1) le patologie hanno
una causa profonda di natura psicologica; 2) l'unico percorso possibile è quello
psicoterapeutico; 3) non si può agire sui sintomi del disturbo e, quindi, lavorare sui
comportamenti; 4) l'educatore deve utilizzare e fare proprie le indicazioni del terapeuta; 5)
l'obiettivo dell'intervento educativo, comunque, può limitarsi ad un generico benessere,
basato su una buona relazione.
Queste premesse rappresentavano senza dubbio un forte ostacolo a qualsiasi progetto
educativo: l'obiettivo "benessere", infatti, si configurava come risposta affettiva e di
accudimento a esigenze immediate, colte nel loro manifestarsi durante l'intervento. Questo
restringere l'orizzonte temporale unicamente alla dimensione presente, in altri termini,
costituiva la negazione più radicale di qualsiasi possibilità di progetto educativo, che è, per
sua natura, proiettato nel futuro…
Una direzione di lavoro, a mio giudizio, consiste proprio nella valorizzazione degli interessi
che la madre ha e non riesce a coltivare, immersa com'è nell'occupazione e preoccupazione
3
per i propri figli. La relazione simbiotica madre-V., in particolare, rende indispensabile
avviare un parallelo e simultaneo processo di evoluzione per madre e figli.
Posso ora formulare qualche altro interrogativo:
Quando la lettura e le interpretazioni relative alla situazione
divergono radicalmente e, allo stesso tempo, manca la
condivisione degli obiettivi e un accordo sulle metodologie di
lavoro è possibile fare un progetto e, quindi, procedere con
l’intervento educativo ?
Il tecnico impone la propria progettualità o cerca di “mediare”
e di costruire insieme?
Come promuovere, in una situazione di questo tipo, un
processo evolutivo che coinvolga tutti i membri del sistema
familiare?
Infine, ritornando al tema dell’osservazione, centrale per il
nostro lavoro di tesi, il caso in questione suscita altri interrogativi
che introduco, utilizzando, ancora una volta, un passaggio della
relazione.
Data la problematicità del caso della famiglia L. ho chiesto, fin dal principio, una supervisione
specifica con il tecnico della cooperativa: il racconto su se stessi permette, infatti, di creare
una certa distanza rispetto al proprio agire e alle proprie premesse, distanza particolarmente
utile quando, come in questo caso, c'è una forte probabilità di "invischiamento" nel rapporto
con la famiglia dell'utente (per "invischiamento" qui è da intendersi la perdita di distanza
critica rispetto a se stessi e alla situazione). Nel caso specifico, il clima informale, la poca
differenza di età tra me e la madre, una certa affinità d'interessi, insieme all'indubbia
problematicità della situazione, costituiscono condizioni sufficienti per smarrirsi all'interno di
un rapporto di aiuto che rinuncia al cambiamento consapevolmente orientato. Si finisce, cioè,
all'interno di una modalità di relazione in cui si oscilla tra condiscendenza e scontro di idee.
Uscire dall' invischiamento, in questo caso, significava, non tanto il recupero di una
collocazione esterna e frontale rispetto all'utente e al suo contesto, quanto il riuscire a porsi
all'interno del rapporto con una distanza critica tale da evitare sia l'imposizione delle proprie
idee sia l'adesione incondizionata a quelle altrui.
Dai contenuti di questa parte della relazione emergono nuove domande:
Con quale atteggiamento è opportuno, per l’educatore,
mettersi in rapporto con l’educando e la sua famiglia?
4
E’ possibile osservare gli utenti senza osservare se stessi?
Il percorso di questo lavoro di tesi partirà, nel primo capitolo, da temi
apparentemente distanti, come la scientificità della pedagogia, che
permetteranno, però, di avvicinare meglio le questioni epistemologiche
sollevate dalle domande relative all’osservazione. Vedremo, poi, come nel
lavoro educativo siano sempre implicate delle premesse di carattere
epistemologico, che influiscono sull’atteggiamento nella relazione con
l’educando e nel come si progetta l’intervento, e come sia necessario farle
uscire dall’implicito per poter fare delle scelte consapevoli.
Nel secondo capitolo discuteremo della dimensione progettuale
dell’intervento educativo, vedendo come si possano individuare diversi
approcci alla progettazione.
Affronteremo, poi, il rapporto autismo-intervento educativo, per vedere
come nel programma T.E.A.C.C.H., coerentemente con le più recenti teorie
relative all’eziologia dell’autismo, l’educazione sia considerata il
trattamento d’elezione.
Nel quarto capitolo passeremo in rassegna le metodologie e le tecniche
di osservazione praticabili all’interno dell’intervento educativo, cercando di
rispondere alla domanda relativa alla possibilità di integrazione delle
informazioni ricavate dall’osservazione dei bambini nel loro ambiente di
vita con quelle derivanti dall’osservazione clinica.
Infine, cercherò di dare risposta all’interrogativo circa la possibilità di
progettare e valutare l’intervento educativo in maniera partecipata.
Gli interrogativi nati in relazione ad una situazione specifica credo,
quindi, abbiano sollecitato una riflessione di ampia portata. Non è mia
intenzione offrire, in questo lavoro di tesi, risposte definitive, che forse non
esistono, ma solo approfondire una ricerca che rimbalza dal livello teorico
a quello della pratica quotidiana di lavoro ed è, almeno in parte, ancora in
corso.
5
6
CAPITOLO 1
PEDAGOGIA: PARADIGMI
E QUESTIONI EPISTEMOLOGICHE
1.1. Pedagogia, scienza o scienze dell’educazione?
È nell’ambito culturale del positivismo che viene posto il
problema di rendere scientifico lo studio dell’educazione,
liberandolo dal tradizionale condizionamento della filosofia.
L’idea forte del positivismo si può riconoscere nella fiducia assoluta accordata alla scienza
come paradigma conoscitivo. Ogni problema, quindi anche quelli educativi, potevano e anzi
dovevano divenire oggetto di conoscenza scientifica. Si comprende bene il tentativo di
sottrarre la conoscenza dei fenomeni umani ai limiti della riflessione metafisica, teologica,
filosofica per ricondurla all’interno della trattazione scientifica. La novità consiste non solo
nell’individuare l’oggetto di studio ma anche nel metodo utilizzato, che è quello del
confronto di ipotesi con i fatti. Lo scienziato sociale procede insomma proprio come un fisico
e un chimico in laboratorio. Si valorizzano dunque le ricerche sperimentali come i più
importanti contributi alla conoscenza. C’è un ottimismo di fondo: poter conoscere “
scientificamente ” ogni tipo di problema concernente l’uomo. L’idea di scienza pervade ogni
campo del sapere. (Gherardi 1995, 30)
Vedremo, però, come esista anche la proposta di fondare,
partendo dalla critica fenomenologica delle scienze “oggettiviste”,
la pedagogia come scienza eidetica, empirica e pratica.
7
1.1.1. Il progetto di Durkheim per una scienza
dell’educazione
Durkheim (1911, tr. it. 1973) ha espresso con forza la
necessità di costituire una scienza dell’educazione, ritenendo
fossero soddisfatte le tre condizioni necessarie per la nascita di
questa disciplina: 1) il riferimento a fatti osservabili, 2) la
possibilità di classificare questi fatti, data la loro omogeneità,
all’interno di una stessa categoria, 3) uno studio disinteressato di
questi fatti1.
I fatti dell’educazione, per Durkheim, sono soggetti a leggi
paragonabili alle leggi della natura: è la società in una certa fase
della sua evoluzione, infatti, a determinare dall’esterno le
pratiche educative, che sono “ cose distinte da noi ”. L’educazione
è definita, quindi, come l’azione di una generazione sull’altra per
consentire l’adattamento sociale. I fatti che caratterizzano
quest’azione sono oggetto della scienza dell’educazione, che
dovrebbe scoprire le leggi che dominano l’evoluzione dei sistemi
educativi.
Durkheim, sempre nell’opera citata, traccia una netta linea
di distinzione tra una scienza dell’educazione così intesa e la
pedagogia: mentre una scienza dell’educazione vuole descrivere
o spiegare quello che è o quello che è stato, la pedagogia vuole
determinare “ quello che dovrebbe essere ”. Le scienze
pedagogiche, in altri termini, non rispecchiano fedelmente la
realtà, ma prescrivono regole di condotta; non dicono “ ecco
quello che esiste ed eccone il motivo ”, ma “ ecco quello che si
deve fare ”.
Inoltre, Durkheim distingue l’educazione come esperienza
concreta, una pratica senza teoria per cui è possibile parlare di “
arte ”, dalla pedagogia che definisce “ teoria pratica ”, una
1 Secondo Durkheim il vero scienziato non giudica, ma si limita a conoscere la realtà nella sua
“oggettività”.
8
disciplina che non studia scientificamente l’educazione, ma vi
riflette per offrire all’educatore delle idee che ne dirigano
l’attività. Per poter svolgere la sua funzione la pedagogia dovrebbe
però poggiarsi su una scienza dell’educazione, cosi come la
chimica applicata è una teoria pratica che mette in opera la
chimica pura. Durkheim conclude, indicando nella sociologia e
nella psicologia le discipline scientifiche in grado di orientare la
pedagogia, dato che la scienza dell’educazione esisteva, allora,
solo come progetto.
1.1.2. Le scienze dell’educazione
Con G. Mialaret (1967, tr. it. 1984) si arriva a parlare di
scienze dell’educazione. Mialaret riprende le definizioni di
Durkheim di “educazione come arte” e di “pedagogia come
riflessione filosofica che indica gli scopi dell’educazione ”. Egli
condivide, inoltre, il pensiero di Durkheim circa la possibilità
dell’educazione di divenire oggetto di conoscenza scientifica, non
di una sola scienza, però, ma di più scienze: oltre alla sociologia e
alla psicologia, Mialaret, indica come scienze dell’educazione
anche le scienze demografiche, economiche, biologiche, storiche e
tutte quelle che hanno rapporti con i fenomeni educativi.
La pedagogia e l’educazione, che hanno un rapporto analogo
a quello che lega pensiero e azione, non sono, per Mialaret,
pratiche sospese nel vuoto ma si riferiscono a realtà concrete. È
proprio la ricerca delle condizioni più idonee ed efficaci
dell’azione e della riflessione ad aver dato origine a tutta una serie
di discipline generali e particolari che, nel loro insieme,
costituiscono le scienze dell’educazione.
Il passaggio dalla sfera dei valori e della riflessione filosofica
a quello dell’azione fa emergere la complessità della situazione in
cui si collocano i fatti educativi, situazione e fatti da studiare, per
9
Mialaret, con metodi scientifici. Dallo studio dell’ambiente sociale
e familiare (sociopedagogia) allo studio degli strumenti utili per gli
educatori (metodologia pratica generale e speciale), dagli studi
sulle fasi di sviluppo dei bambini (psicologia genetica) allo studio
sul comportamento scolastico dei bambini (psicopedagogia
generale) sono molteplici le discipline che Mialaret riconosce e
indica come scienze dell’educazione.
In un altro suo scritto Mialaret (1976, tr. it. 1978) classifica
le scienze dell’educazione in tre categorie:
Scienze che studiano le condizioni generali e locali della
istituzione scolastica (storia dell’educazione, sociologia
scolastica, demografia scolastica, economia dell’educazione,
educazione comparata)
Scienze che studiano il rapporto pedagogico e lo specifico atto
educativo (psicologia dell’educazione, scienze della
comunicazione, scienze della didattica, scienze della
valutazione)
Scienze della riflessione e dell’evoluzione (filosofia
dell’educazione, pianificazione dell’educazione e teoria dei
modelli).
Queste discipline condividono un comune oggetto di studio: le
condizioni di esistenza, di funzionamento e di evoluzione delle
situazioni e dei fatti educativi. È proprio questo oggetto comune a
permettere il raggruppamento delle diverse discipline nella
famiglia delle scienze dell’educazione.
Visalberghi (1978, 2a ed.1981) fin dal titolo del suo saggio
Pedagogia e scienze dell’educazione, scritto con la collaborazione
di R. Maragliano e B.Vertecchi, ha proposto un accostamento tra
pedagogia e scienze dell’educazione, che sottolinea il ruolo della
pedagogia come luogo della riflessione sui fatti educativi.
Si tratta, del resto, di un tipo di sviluppo molto simile a quello del rapporto, più generale, fra
filosofia e scienze. La filosofia copriva ai suoi albori tutto il campo delle scienze, matematica
inclusa. Progressivamente nel corso di millenni , il territorio della filosofia andò riducendosi:
10
matematica astronomia fisica, chimica, biologia, divennero scienze autonome, e andarono
altresì articolandosi nel loro interno…Tuttavia non si parla seriamente di << morte della
filosofia >> , anche se è chiaro a tutti che la situazione è mutata, e che la filosofia da scienza
o pseudo scienza onnicomprensiva e esaustiva si è trasformata in riflessione critica sulla
natura stessa della scienza, sui rapporti delle scienze tra loro, e soprattutto sul significato
che esse hanno nella nostra esistenza…Qualcosa di simile è accaduto o sta accadendo alla
pedagogia. (15-16)
Ma in che senso scienze dell’educazione e filosofia si possono
differenziare? Visalberghi, nello stesso saggio, propone di
riconoscere il carattere di scientificità delle diverse discipline a
partire da due elementi caratterizzanti:
Il primo elemento è metodologico: la scienza si basa su esperienze replicabili… che
autorizzano a fare sensate generalizzazioni e perciò previsioni. Il secondo elemento è logico-
strutturale: una scienza è costituita da un insieme ordinato e coerente di concetti ben
definiti, connessi in proposizioni… fondamentali da cui altre sono deducibili secondo regole
anch’esse ben definite. La prima caratteristica mette in luce soprattutto la natura empirico-
sperimentale della conoscenza scientifica, la seconda dà rilievo preminente alla struttura di
sistema ipotetico-deduttivo, che è specialmente evidente nelle scienze più mature...Il
carattere di
<< scientificità >> che riconosciamo a certi corpi di conoscenze non è qualcosa di casuale o
capriccioso: esso si rapporta ad almeno uno, se non a tutti e due, gli elementi che abbiamo
chiamato rispettivamente metodologico e logico-strutturale. (ibidem, 16-17)
Visalberghi arriva, quindi, a proporre una rappresentazione
circolare delle diverse scienze dell’educazione, divise tra quattro
settori principali: settore psicologico, settore sociologico, settore
metodologico didattico e settore dei contenuti.
… il nostro schema presenta dei vantaggi, per così dire strutturali. Esso rappresenta bene la
circolarità delle conoscenze pedagogiche, mostra la loro struttura enciclopedica nel senso
originario ed etimologico del termine (en-kyklo-paidéia = cultura in circolo, a tutto tondo).
Non solo, infatti, le scienze contigue di uno stesso settore presentano fra loro sostanziali
affinità, ma lo stesso vale in misura altrettanto elevata fra scienze contigue appartenenti a
settori diversi (cioè fra psicologia sociale e sociologia dei piccoli gruppi, …). Si tratta insomma
di un insieme abbastanza coerente, dotato di una notevole forza di aggregazione: il termine
enciclopedico può essergli applicato, ma non certo nel senso dell’erudizione dispersiva…La
filosofia dell’educazione e/o la pedagogia generale non entrano nel quadro perché non
possono occuparvi una posizione particolare e determinata, giacché rappresentano un
momento di riflessione critica sull’insieme e sulle sue interrelazioni interne ed esterne…
(ibidem, 21-22)
11