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Seconda Parte – L’Ospitalità Diffusa
Le origini del fenomeno
L’ospitalità diffusa reca un marchio tutto “made in Italy”. Gli albori del fenomeno vengono,
infatti, ricondotti da alcuni autori ad un progetto pilota denominato CADISPA (Conservazione
e Sviluppo in Aree Scarsamente Popolate), realizzato su iniziativa del W.W.F. e dell’Unione
Europea nel territorio dell’Aspromonte, in Calabria, intorno alla metà degli anni ’90. Con tale
programma si voleva riproporre e valorizzare un antico percorso itinerante dell’Ottocento,
denominato “sentiero dell’inglese”, percorso nell’estate del 1847 dal
viaggiatore/paesaggista inglese Edward Lear, e poi dallo stesso raccontato e illustrato sui
suoi “Diari di un viaggio a piedi in Calabria e nel Regno di Napoli”. Il legame originario con
il fenomeno deriva proprio dal fatto che lungo il percorso non vi era la comodità di poter
fruire di soluzioni ricettive, allora quasi del tutto assenti, e l’escursionista dell’epoca doveva
dunque affidarsi di volta in volta all’ospitalità delle famiglie del luogo.
Altri autori invece fanno risalire il fenomeno in tempi antecedenti, quando sul finire degli anni
’70 nella regione friulana della Carnia si pensò di sfruttare a fini turistici le case vuote
ristrutturate con i fondi del terremoto del Friuli del 1976, con l’idea di trasformare così i borghi
ormai disabitati in villaggi turistici al fine di rivitalizzare l’economia locale (Cresta e Greco,
2011; Lanzi et al., 2019; Rapporto sul turismo italiano XIX edizione). Si iniziò quindi a parlare
di ospitalità diffusa e ad utilizzare l’espressione “Albergo Diffuso” proprio con il progetto
pilota del 1982 che vedeva la valorizzazione del borgo di Comeglians.
Questa prima esperienza è tuttavia da considerarsi embrionale rispetto al concept di
ospitalità diffusa, e più in particolare della formula dell’albergo diffuso, che si svilupperà
successivamente, in quanto deficitaria di alcuni caratteri qualificanti, “non essendo previsti
né una gestione alberghiera degli immobili, né i normali servizi per gli ospiti” (Corvo 2007,
p. 79). Inoltre, dal punto di vista della logica di marketing l’approccio iniziale degli anni ’80
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era di tipo “product oriented”, poiché si focalizzava principalmente sulle prospettive di
sviluppo del territorio e le aspettative dei proprietari degli immobili, trascurando le esigenze
della domanda (Dall’Ara, 2015). Un tipo di approccio, questo, che non poteva che essere
autolimitante dal momento che non andava ad elaborare una strategia ad hoc per il target
di ospiti al quale si rivolgeva, un target che probabilmente non era ancora stato indentificato
in maniera consapevole, tratteggiandone i caratteri, le motivazioni di fondo, i desideri, i
bisogni e le aspettative. Un altro aspetto deficitario era costituito dal fatto che il contesto nel
quale si voleva sviluppare il progetto era un borgo ormai completamente disabitato, e
dunque, mancando l’elemento fondamentale della comunità abitante il borgo, di fatto si
sarebbe assistito alla creazione di un tradizionale villaggio turistico, piuttosto che a una vera
forma di ospitalità diffusa, in cui il visitatore ha la possibilità di stare a stretto contatto con gli
abitanti del luogo.
Solo verso la fine degli anni ’80, con lo sviluppo turistico del borgo di San Leo, nel
Montefeltro, e nei primi anni ’90 con il progetto di albergo diffuso a Bosa, in Sardegna,
“attorno al termine fu formalizzato un modello di ospitalità distinto ed originale” (Rapporto
sul turismo italiano XIX edizione, p. 182). Nel 1989 l’amministrazione comunale di San Leo
aveva messo appunto un progetto, denominato “Turismo”, il cui scopo era quello di
potenziare l’offerta turistica, altrimenti caratterizzata dal fenomeno del solo escursionismo,
promuovendo soggiorni brevi e al contempo valorizzando edifici di pregio ed inutilizzati,
evitando così la costruzione di nuove strutture alberghiere dal pesante impatto ambientale
(Corvo, 2007). Nel progetto era contenuta una delle prime definizioni di albergo diffuso,
assieme ad una relativa valutazione di fattibilità (Battaglia, 2007). La conformazione
urbanistica del paese consentiva infatti la nascita di un albergo diffuso attorno alla piazza
principale, dove erano presenti bar e servizi che insieme avrebbero costituito gli elementi
base della nuova proposta ospitale (Corvo, 2007). Il progetto, tuttavia, non andò in porto a
causa della mancanza di un numero sufficiente di proprietari di immobili interessati a aderirvi
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(Battaglia, 2007). L’idea fu ripresa successivamente in Sardegna, nel 1995 nell’ambito del
Piano di Sviluppo del Marghine-Planargia, e in particolare nella cittadina di Bosa,
caratterizzata da un centro storico dominato da un castello medievale. Questo progetto,
conclusosi nel 2003, fu la prima esperienza in cui venne chiaramente definito il modello di
albergo diffuso, di fatto dimostrandone la sua fattibilità, tanto da essere posto alla base della
prima normativa italiana in cui ne viene riconosciuta formalmente l’unicità distintiva rispetto
alle altre forme di ospitalità esistenti (Dall’Ara, 2015; Corvo, 2007). La svolta decisiva deriva
dal fatto che con tale esperienza muta anche la prospettiva che fino ad allora aveva
caratterizzato i primi progetti di ospitalità diffusa: non ci si focalizza più esclusivamente o
quanto meno prevalentemente sul lato dell’offerta (ossia da un lato sul bisogno dei
proprietari immobiliari di recuperare le case abbandonate e di metterle a reddito e dall’altro
sul bisogno delle amministrazioni locali di evitare lo spopolamento dei borghi), ma si inizia
a considerare in maniera esplicita anche il lato della domanda
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, elaborando, veicolando e
proponendo un’offerta in linea con le motivazioni di viaggio di quest’ultima, ovvero
soggiornare in un luogo avendo a disposizione tutti i comfort e i servizi tipici della ricettività
alberghiera e al contempo avere la possibilità di vivere il territorio a 360 gradi,
completamente immersa nella vita, nella cultura e nelle tradizioni del luogo visitato (Dall’Ara,
2015). A partire dal successo dell’esperienza sarda, il modello dell’ospitalità diffusa, e
soprattutto la formula dell’albergo diffuso, ha avuto un importante sviluppo, vedendo la
realizzazione di progetti in quasi tutte le regioni del nostro Paese, che poco alla volta hanno
anche riconosciuto formalmente il fenomeno nella legislazione regionale. È stata inoltre
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La domanda di ospitalità diffusa nasce con il passaggio dal turismo di massa al turismo di nicchia. Sul finire degli anni
’80 e l’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso una nuova generazione di turisti inizia ad affermarsi e a contrapporsi alle
precedenti, caratterizzata da una diversa maturità, sviluppata grazie alle esperienze pregresse accumulate e alla
crescente possibilità di scegliere e confrontare il prodotto, in seguito amplificata a dismisura dalla rivoluzione digitale. A
cambiare sono anche le motivazioni più intime e le aspettative: la nuova generazione di turisti desidera una vacanza fatta
di elementi personalizzati, esperienze autentiche, contatto con la cultura locale e instaurazione di legami con i luoghi e
relazioni con la comunità locale. La diffusione delle tematiche sulla sostenibilità avvenuta a partire da quegli anni fa sì
che il turista di ultima generazione maturi consapevolezza e sia sensibilizzato verso tali tematiche, andando quindi a
ricercare forme di turismo sostenibili e responsabili, di cui l’ospitalità diffusa rappresenta espressione.
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costituita un’Associazione Nazionale degli Alberghi Diffusi – ADI, su iniziativa del Prof.
Giancarlo Dall’Ara, il più importante studioso, ideatore e propugnatore del modello
dell’Albergo Diffuso, e dei gestori degli alberghi diffusi intervenuti nel “Primo Raduno
Nazionale dei Gestori dell’Albergo Diffuso” di Rimini del 2006. L’associazione è nata “per
ovviare alle discordanti leggi regionali e per tutelare i principi su cui si basa il vero Albergo
Diffuso” (Rapporto sul turismo italiano XIX edizione, p. 181) e rappresenta il principale
network del settore (Gori et al., 2016).
Questa originale e innovativa filosofia dell’ospitalità ha attirato l’attenzione di studiosi
accademici e media nazionali e internazionali, che hanno dedicato nel corso degli anni
innumerevoli studi, articoli e reportage, riconoscendo il rilievo e il forte potenziale del
modello, nonché la sua originalità, tanto che anche all’estero si utilizza la locuzione “albergo
diffuso”, senza tradurla dall’italiano, come un vero e proprio marchio di fabbrica. Il modello
dell’Albergo Diffuso, in particolare, ha valicato i confini nazionali ed è stato esportato in vari
paesi, come Spagna, Svizzera, Croazia e persino Giappone.
L’ospitalità diffusa: definizione e varianti
Dall’Ara (2012) definisce l’Ospitalità Diffusa, ospitalità di “carattere” e “sostenibile”. Essa
consiste nel distribuire in senso orizzontale camere, punti di ristoro, servizi. La diffusione
orizzontale dell’ospitalità può avvenire in uno spazio di vicinato all’interno di un contesto
urbano o di un centro minore, come i tipici borghi che caratterizzano il nostro Paese, con
una ubicazione elettiva nei centri storici, ma può essere realizzata anche in contesti rurali
campestri e nelle zone marittime. Ciò che rileva è il pregio, a livello storico, architettonico,
culturale, naturalistico dell’area nella quale sono dislocati gli asset della ospitalità diffusa, il
fatto che si tratta di elementi recuperati, valorizzati e riqualificati ad uso turistico, nonché la
vitalità del contesto nel quale sono inseriti. Non si tratta di una semplice sommatoria di case
adibite all’accomodation dei turisti, ma di una vera e propria rete di imprese, che in un