Queste strutture mancano di una vera collaborazione con le unità sanitarie. A tal
proposito è interessante mettere a confronto riflessioni di professionisti del settore.
La dottoressa Maria Rosaria Bianchi (direttore dell’OPG di Aversa dal 1996 al
1998) afferma che tra i reclusi in OPG molti potrebbero essere trattati altrove, perché i
reati commessi più comunemente sono maltrattamenti in famiglia, furto, resistenza a
pubblico ufficiale, danneggiamento di cose, atti osceni in luogo pubblico compiuti da
persone che per più della metà hanno un basso livello culturale e di alfabetizzazione,
sono invece ben pochi coloro che hanno commesso reati gravi. Si dovrebbe partire a suo
avviso dall’affrontare il problema della negazione della malattia mentale con un valido
lavoro d’equipe (per una globalità di punti di vista) che punti a garantire i più alti livelli
di curabilità possibili.
Alla base del problema della pericolosità, ci ricorda, esiste un problema ancora più
grande: quello della diversità e la presunzione di una “normalità violata” avvertita dalla
società disorientata e spiazzata di fronte a tali realtà, che cerca difesa ricorrendo
all’emarginazione ed al silenzio.
2
Roy Porter
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afferma a tal proposito che il medico psichiatra nella nostra società
assume un ruolo di autorità morale con diritto di vita e di morte, con un diritto di
negazione conferitogli affinché sorvegli metodicamente sul rispetto di convenzioni,
inseparabili dalla stabilità del potere costituito.
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chiusura dei manicomi civili per tali istituzioni ha infatti rappresentato solo la privazione di una
importante valvola d’uscita che consentiva una dimissione sicura degli internati. Ha cioè fatto venir meno
un punto di riferimento normativo ed organizzativo ed ha reso impossibile un parallelo mutamento in
senso ospedaliero mantenendo la loro impostazione custodiale.
2
Questo atteggiamento nelle strutture come gli OPG si concretizza in forme varie di impedimento di
espressione sia per gli ospiti legati all’ambigua posizione di malati / delinquenti che degli operatori che
sono costretti in ruoli ed azioni spesso da improvvisare senza una formazione professionalizzante alle
spalle.
3
Porter R., 1991, Storia sociale della follia, Garzanti, pp. 35 – 36
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Nella sua argomentazione continua affermando il carattere estremamente svalutante degli interventi
psichiatrici che riducono gli internati ad un grave isolamento contribuendo alla creazione di un ritratto
sociale del malato di mente come non – uomo, privo di pensieri e razionalità.
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“… viviamo in una società in cui la malattia della psiche è considerata
vergognosa, deve essere tenuta nascosta, non divulgata e mascherata…”, risponde
Massimiliano De Somma, psicologo volontario presso l’OPG di Aversa alle domande
del giornalista Francesco Morelli. L’OPG fa paura, aumenta l’ansia generata dall’idea
che il disagio e la sofferenza possano diventare violenza e reato.
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Continua anche lui ricordando la mancanza di provvedimenti da parte della L.80
del 1978 e di successivi interventi legislativi in ambito penitenziario: l’OPG resta
ancora quello per cui era stato creato, un contenitore in cui gettare individui che la
società non sa gestire.
Una parte, seppur minima, è davvero pericolosa per sé, gli altri e la società
esterna, ma la grandissima percentuale attualmente presente in istituto potrebbe
benissimo essere seguita, curata e reinserita all’esterno, attraverso i servizi territoriali.
Con accento critico conclude dicendo che questo stato di cose è il risultato del fatto che
il sistema sanitario arranca, e non riesce ad affrontare il problema della malattia
mentale: manca una logica che cerchi di risolvere il problema alla radice con un’opera
di prevenzione che tuteli le persone prima di arrivare a trasformarsi suo malgrado in reo.
Occorre una formazione che garantisca dei professionisti in grado di studiare ed
affrontare direttamente in loco i disagi mentali per evitare la loro degenerazione. E
questo è possibile solo con il superamento del pregiudizio e dei timori che ancora
schiacciano i malati e le loro famiglie sotto il peso della vergogna che li incatena
definitivamente quando il dolore diventa reato.
5
Franco Scarpa, direttore dell’OPG di Montelupo Fiorentino parla di “persuasione socialmente accettata”
che determina anche nel malato – reo profondi sensi di colpa e di vergogna che determinano forti
sentimenti di rassegnazione, chiusura ulteriore ed accettazione passiva di uno stato di cose vissuto come
sovradeterminato da accettare perché meritato a prescindere. Mentre invece strutture come l’OPG
dovrebbero garantire percorsi di “rimessa in linea, in strada” con un’opera di recupero della
consapevolezza del problema capace di mettere in moto l’intenzione di intraprendere un percorso di cura
e modifica del sé partecipato e condiviso (che sia cioè un’alleanza, un patto terapeutico). La cura
psichiatrica tende proprio a modificare il modo di essere: se non si vuole cambiare, se non si sente di
dover cambiare l’imporre un trattamento non porterà ad alcun risultato.
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Il numero degli internati in OPG invece nel corso degli ultimi anni sembra
essersi stabilizzato: circa 1200 persone, di cui almeno un terzo potrebbe essere dimesso
se solo ci fossero i servizi territoriali esterni capaci di garantire loro una valida
continuità assistenziale. 1200 persone chiuse in un mondo a parte totalmente
dimenticato. Molti di loro potrebbero essere recuperati e tornare ad assumere un loro
spazio nella comunità, invece si vedono prorogare la loro internazione più volte ben
oltre gli anni previsti dai termini giudiziari.
Interessante è quanto afferma il dottor Adolfo Ferrario, direttore dell’OPG di
Aversa: degli OPG si parla troppo poco, perchè sono uno scheletro nell’armadio
utilizzabile proprio grazie all’ambiguità che ne è alla base.
Sono lo strumento che contiene tutti i fallimenti della psichiatria e della
giustizia, lo spauracchio che permette di scaricare i sensi di colpa collettivi: la società
deve tutelarsi e per farlo è più conveniente rinchiudere che cercare di capire e risolvere.
Ce lo spiegano le parole di Giacomo, internato in OPG per resistenza a pubblico
ufficiale: “… noi siamo cellule che hanno perso la strada di questa società ed è meglio
e conveniente che ci mettono da parte facendo finta che siamo noi solo ad aver
sbagliato, così la società è tranquilla e contenta perché si sta muovendo bene, e noi soli
ci rimetteremo il nostro posto in quel sistema… loro non vedono e non capiscono che il
sistema è minato alla base e finchè non si coglierà che è da lì che partono i messaggi di
malessere noi resteremo in oppiggì… se il sistema sociale capisse che qualcosa non
funziona e cominciasse a modificare qualche suo processo interno magari i disagi
sociali non porterebbero a certi eccessi, forse noi ci sentiremo di più parte integrante
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della società, che invece sembra muoversi indipendentemente da noi, non ascoltando i
nostri bisogni…”
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A questo stato di cose Ferrario vuole opporsi proponendo all’interno della sua
struttura molteplici iniziative: l’obiettivo è la vera tutela degli ospiti, il miglioramento
della loro qualità di vita e un percorso di rieducazione civica e morale. Per fare questo
occorre conoscere il linguaggio della malattia mentale affinché si possa dare a tanti
l’opportunità di evitare l’esperienza dell’internamento, “l’ergastolo bianco”.
L’OPG, continua il direttore, è una struttura che va inevitabilmente superata con
un lavoro attento e graduale innanzitutto di comprensione di chi realmente necessita di
una struttura simile: lavoro che ponga al centro il concetto di espressione, di
comunicazione oggettiva delle esperienze individuali ma anche e soprattutto intesa
come traduzione di pensieri e sentimenti.
Stimolare l’espressione vuol dire permettere all’altro di spiegarsi, aprirsi creando
uno scambio che si fa incontro intenzionale e pluridirezionale.
Qual può essere allora la prospettiva più valida per concretizzare tutto questo?
Il presente lavoro vuole presentare, dopo aver illustrato la storia dalla nascita dei
manicomi criminali all’attuale realtà di funzionamento degli OPG, l’intenzione di
costruire collaborazioni strette tra i vari servizio sanitari psichiatrici e il tessuto sociale
esterno attraverso protocolli d’intesa o convenzioni a livello regionale e locale mettendo
in evidenza problematiche, possibili modelli organizzativi, proposte d’intervento
uniformi che coinvolgano in uno sforzo congiunto amministrazione penitenziaria e
comunità sociale.
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Pellegrini A., 6 novembre 2003, OPG: una questione ancora aperta, www.itaca.coopsoc.it
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È il sistema psichiatrico giudiziario stesso infatti che vive attualmente una fase
evolutiva di risveglio e volontà di rinnovamento senza precedenti che muove verso il
passaggio a vero servizio di cura e riabilitazione capace di dialogare in modo strutturale
e funzionale con la società.
Sono numerose le attività trattamentali e socio – riabilitative svolte, le figure
professionali che operano con efficacia ed elevata motivazione per recuperare le
affievolite abilità psichiche del malato di mente reo nel quadro della sanitarizzazione
degli istituti psichiatrici giudiziari.
Tali energie devono fare i conti con molti nodi ancora da sciogliere, non da poco
una normativa in materia che necessita di una revisione profonda e di un valido
adeguamento: le proposte sono le più svariate segno inequivocabile di un dinamismo
generale che prepara la strada all’effettivo superamento degli ospedali psichiatrici
giudiziari.
La normativa relativa al codice Rocco del 1930 considerava il folle incurabile,
pericoloso, irresponsabile e quindi da isolare e rinchiudere, soprattutto se autore di
reato. Alla diagnosi di infermità mentale si abbinava automaticamente il concetto di
pericolosità sociale e quindi l’internamento, in genere a vita.
Oggi questo automatismo è ampiamente superato restituendo al malato
responsabilità, capacità critica e di giudizio e da ciò la possibilità di assumere un
comportamento adeguato alle circostanze.
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Si rimette in discussione l’analisi della sua
capacità d’intendere e di volere: intendere che significa comprendere il valore dei propri
atti e valutare l’efficienza causale degli stessi; volere come attitudine individuale a
decidere se realizzare o meno atti di cui sa discernere il valore, a resistere o meno agli
impulsi che lo sollecitano.
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Cannavicci M., 2006, I manicomi criminali
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Dove c’è libera determinazione, arbitrio e capacità di coscienza la persona va
aiutata, assistita, le va insegnato un diverso modo di dialogare iniziando dall’interno
delle strutture riabilitative stesse costruendo rapporti, contatti continuativi.
Ciò vuol dire impegnarsi a ricercare insieme la piena consapevolezza di sé
attraverso il ritorno all’origine della propria storia inevitabilmente condizionata da
fattori contestuali, ambientali, ecologici ricorrendo tra l’altro ad anamnesi indirette,
coinvolgendo familiari e persone vicine.
Finalmente si è ridimensionata l’idea che i malati di mente siano statisticamente
più pericolosi dei delinquenti ordinari, si è riconosciuto che sono pochissime le
patologie psichiatriche a rischio di comportamenti aggressivi ed eterolesivi: la
stragrande maggioranza degli psicotici è a rischio di condotte violente né più né meno
che qualunque altro soggetto.
La nozione di ‘folle omicida’ o ‘pazzo criminale’ è allora tutta da rivedere, e
nuove sono le tendenze delle perizie psichiatriche che fanno un uso molto meno
restrittivo del vizio di mente, cercando di coniugare la valenza di difesa sociale alla
necessità di comprendere le dinamiche dei delitti e la loro possibilità di cura: è il mondo
stesso della psichiatria che chiede una emancipazione sociale e terapeutica degli OPG.
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capitolo 1
LE ORIGINI
… il mondo, escluso, tace intorno a loro
che ne sono esclusi…
1 I PRESUPPOSTI CULTURALI
Parlare di psicopatologia e criminalità solleva questioni di carattere filosofico,
scientifico, giuridico, istituzionale. Analizzare la figura del criminale e del folle impone
una preliminare riflessione sull’evoluzione dell’antropologia e sul confronto tra
criminologia e psichiatria.
Del resto tale connubio nasce dall’esigenza empirica storicamente determinata di
verificare l’eventuale presenza di un disturbo mentale in chi trasgredisce la legge.
Confronto che si muove tra vertiginose ambiguità.
Non è possibile dare una definizione univoca di crimine o di criminale
prescindendo dal contesto sociale e dall’intenzionalità di chi agisce. Il campo d’indagine
della criminologia, volta a rendere comprensibili le motivazioni di chi trasgredisce la
legge è antropologicamente complesso, rivolto a illuminare l’essere nel mondo, l’umana
presenza, l’intenzionalità di chi nel mondo si confronta con l’altro da sé. L’esistenza
autentica è co - esistenza e implica un fondamentale rapporto di familiarità e di
rassicurante intesa con quanto circonda e sostanzia il proprio mondo.
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