Politiche di sviluppo sostenibile e Green Economy in Cina
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Introduzione
Luglio 2010
Intervenuto all'Eco-Forum di Guyang, in Cina, Tony Blair tenne un
discorso dai toni entusiastici: «Le città e i villaggi cinesi sono i
leader mondiali nella lotta al cambiamento climatico.[...] Le città ci-
nesi ci stanno mostrando il cammino. Ed in tutto il mondo, da Londra
alla California, c'è una quantità immensa di impegno ed azione […]»
(Blair, 2010)
Fino a non molti anni fa, le parole dell'ex premier britannico avreb-
bero destato non poco stupore, entrando in collisione con il radicato
immaginario collettivo riguardo alla vita nelle megalopoli asiatiche:
l'aria appesantita dallo smog, la gente che si ripara dalle polveri con
l'ausilio di mascherine, i corsi d'acqua inquinati; nel discorso di Blair
queste fotografie sembrano appartenere ad un pa ssato lontano e, non
a torto, si potrebbe sospettare che l'ex primo ministro fosse sempli-
cemente generoso di complimenti nei confronti dei suoi ospiti.
Eppure, gli oltre 170 miliardi di eu ro che nel 2009 sono stati desti-
nati all'implementazione di misure verdi, ci dimostrano non solo che
la rivoluzione ecologica ha trovato terreno fertile nella Repubblica
Popolare, ma che proprio Pechino ne è il più convinto finanziatore
pubblico (Wuppertal Institute, 2009), pur mantenendo paradossalmen-
te l'infelice primato nell'emissione di gas serra , con il 16,38% del
totale mondiale nel 2005 (World Resources Institute, 2012).
All'Oriente Rosso, inneggiato nei canti e nei film di propaganda del
secolo scorso, ecco quindi affiancarsi l'immagine di un Oriente Ver-
de, una realtà economica in rapida espansione pronta a cogliere i van-
taggi del cambiamento e che si prospetta come la più competitiva a
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livello globale, caratteristiche che non ne fanno un attore internazio-
nale meno temuto.
Negli ultimi vent'anni, mentre la Cina entrava a pieno titolo tra le
grandi potenze economiche, temi quali la lotta al cambiamento clima-
tico, la preservazione delle risorse naturali e l'urbanizzazione degli
insediamenti umani hanno progressivamente acquisito una maggiore
centralità all'interno dell'agenda politica internazionale.
Uno degli esempi più visibili è il successo comunicativo del concetto
di sviluppo sostenibile, così come è stato interpretato per la prima
volta nel Rapporto Brundtland del 1987: «Sviluppo sostenibile è lo
sviluppo che incontra i bisogni di oggi senza compromettere la capa-
cità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.»
(Rapporto Brundtland, 1987). L’idea di un senso equità infragenera-
zionale (ovvero tra le regioni del mondo) ed intergenerazionale, con-
tenuta nello stesso titolo del rapporto ( Our common future) ha costi-
tuito un importante punto di partenza per il successivo dibattito in-
ternazionale (Lanza, 2006).
Il Protocollo di Kyoto e le diverse conferenze su ambiente e sviluppo
promosse nel quadro del sistema ONU rappresentano certamente una
testimonianza della centralità acquisita da queste problematiche, ma
allo stesso tempo, i risultati ottenuti da queste iniziative si dimostra-
no spesso al di sotto delle aspettative, mettendo così in evidenza le
difficoltà e le frustrazioni che intaccano i meccanismi della diploma-
zia ambientale. In particolare, le divergenze tra le economie avanzate
ed i Paesi in via di sviluppo, in merito alla distribuzione di responsa-
bilità e la definizione d’impegni vincolanti tra gli Stati aderenti, han-
no significativamente ridimensionato l’effettiva portata del documen-
to sottoscritto nel 1997 nella città giapponese ed hanno condizionato
la clamorosa marcia indietro degli Stati Uniti (ad oggi il secondo Pa-
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ese per emissioni d CO
2
), che nei primi mesi dell’Amministrazione
guidata da George W. Bush (marzo 2001) hanno ritirato la propria
adesione al trattato.
Infatti è stata proprio la ferma opposizione al principio delle “ re-
sponsabilità comuni ma differenziate” sostenuto a gran voce proprio
da Pechino, a determinare la mancata ratifica statunitense; secondo
tale principio i Paesi di recente industrializzazione vengono esonerati
da obblighi quantitativi nella riduzione delle proprie emanazioni di
gas ad effetto serra, a differenza delle economie avanzate, sulle quali
graverebbe la responsabilità delle emissioni storiche cumulate.
A detta di alcuni commentatori, Kyoto rappresenterebbe il più im-
portante e raffinato risultato ottenuto dalla diplomazia cinese, una
sorta di nuovo “trattato ineguale” a parti invertite stavolta, con la Ci-
na a trarre i vantaggi da una situazione che le garantisce una crescita
economica sostenuta e senza sacrifici imposti, mentre i governi dei
Paesi sviluppati, sottoposti all’obbligo di ridurre le proprie emissioni
di agenti inquinanti atmosferici almeno del 5% rispetto al valore -base
del 1990, si vedono costretti ad importanti investimenti per ristruttu-
rare il proprio apparato di produzione energetica.
In questi termini, a spese delle sole economie sviluppate aderenti al
protocollo, si otterrebbe un beneficio comune: contenere l’incremento
del riscaldamento atmosferico sotto i 2 gradi centigrad i per i prossimi
100 anni, un risultato di cui godrebbero anche i Paesi in via di svi-
luppo (e a onor del vero anche i non aderenti al trattato).
Nei prossimi capitoli, vi sarà occasione di trattare in modo esaustivo
il discorso sui veri vincitori di Kyot o; era però necessario sottolinea-
re sin da subito come gli elementi cardine di questo trattato siano
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centrali per la strategia energetica e produttiva cinese degli ultimi
anni.
Attraverso un massiccio piano d’investimenti pubblici e la riorganiz-
zazione di un sistema produttivo, ancora segnato da inefficienze e di-
suguaglianze regionali, la Cina ha saputo inserirsi in testa al settore
della Green Economy, approfittando dell’accresciuta domanda inter-
nazionale per sistemi di generazione energetica a basse emis sioni,
conseguenti agli impegni stabiliti dal protocollo.
Pechino ha saputo così coniugare rivoluzione verde ed internaziona-
lizzazione degli investimenti: l’accesso preferenziale al credito e un
considerevole supporto diplomatico nella ricerca di contratti
all’estero hanno permesso ad imprese come Suntech (produzione di
pannelli solari), Sinovel (impianti eolici) e BYD (veicoli ad alimenta-
zione elettrica) di imporsi tra i leader mondiali dei rispettivi settori;
le acquisizioni societarie e gli investimenti cinesi al di fuori dalla
madrepatria si sono inoltre concentrati nei campi più che mai strate-
gici dell’Energia, dell’Elettronica e dei Trasporti.
La vulnerabilità delle esportazioni cinesi, dovuta alla crisi economi-
ca del 2008, ha comportato un’intensificazione degli sforzi atti a con-
solidare il mercato interno, con un occhio sia ai crescenti consumi
delle megalopoli costiere densamente abitate, sia alle province più
arretrate dell’entroterra, afflitte da irregolarità nella fornitura di e-
nergia elettrica e da problemi di accesso alle risorse idriche. Lo
stress idrico non risparmia nemmeno la capitale Pechino, in cui re-
centemente si è registrata una disponibilità d’acqua pro capite di 100
m
3
, un livello drammaticamente al di sotto della soglia d’allarme in-
ternazionale, fissata a di 1000 m
3
(China Daily, 2012).
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Fiduciosi nei risultati delle riforme intraprese, i leader di Pechino
hanno addirittura lasciato intravedere qualche cauto segnale
d’apertura in sede di negoziati multilaterali, il più rilevante dei quali
si è avvertito a Copenhagen nel dicembre 2009, in occasione della
Conferenza delle Parti, quando la Cina ha annunciato l’impegno (non
vincolante) a ridurre, entro il 2020, le proprie emissioni di carbonio
per unità di Pil del 40-45% rispetto ai valori registrati nel 2005, o-
biettivo poi incluso nell’accordo finale della stessa conferenza
(Carraro & Tavoni, 2010).
Recentemente nel corso del vertice di Durban, i delegati cinesi si so-
no poi detti disponibili a negoziare limiti vincolanti alle emissioni di
CO
2
a partire dal 2020, anno in cui scadrà l’obiettivo che il Paese si è
autoimposto a Copenhagen, ovviamente a condizione che le economie
avanzate aprano a maggiori aiuti finanziari e a trasferimenti tecnolo-
gici verso le Nazioni emergenti (Talia, 2011).
Il China Daily, quotidiano ufficiale in lingua inglese, ha rimarcato
con enfasi la portata di questa nuova volontà collaborativa, rimprove-
rando per contro la diffidenza occidentale verso il gigante asiatico:
La Cina ha partecipato agli incontri di Durban con spirito po-
sitivo e collaborativo, desiderosa di negoziare su un ampio
campo di temi, incluso un accordo legalmente vincolante. In
generale la Cina ha giocato un ruolo costruttivo durante i ne-
goziati, sebbene alcuni media occidentali abbiano riportato ne-
gativamente che la Cina stesse bloccando il processo. […]
(Schroeder, 2011)
Alla luce di queste novità, occorre interrogarsi sulla reale possibilità
che la Repubblica Popolare Cinese possa rappresentare un attore re-
sponsabile nella governance ambientale del pianeta e soprattutto a
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quali condizioni. Nell’affrontare queste tematiche si rende necessaria
l’adozione di una prospettiva geopolitica, finalizzata a mettere in lu-
ce le connessioni che legano relazioni internazionali, politiche eco-
nomiche e geografia delle risorse.
I primi quattro capitoli di questa Tesi di Laurea si concentreranno
sugli esiti della diplomazia ambientale cinese e sulle decisioni di po-
litica interna finalizzate a promuovere uno sviluppo sostenibile; par-
ticolare attenzione verrà anche riservata ai limiti dello sviluppo, con
riferimenti alla composizione dell’offerta energetica.
Gli ultimi due capitoli saranno invece dedicata ad esaminare le pro-
spettive del settore della cosiddetta “industria verde” ed i fattori che
ne hanno determinato una così rapida espansione in Cina. S’intende
inoltre dimostrare in questi capitoli come la specializzazione produt-
tiva nelle nuove tecnologie low-carbon rappresenti per la classe poli-
tica cinese non soltanto uno strumento per fronteggiare i limiti allo
sviluppo del Paese, ma anche un elemento strategico capace di influi-
re sui rapporti economici e politici con gli altri Stati.
Politiche di sviluppo sostenibile e Green Economy in Cina
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Capitolo I
Il futuro cinese tra sostenibilità e stabilità
[1.1]
La sicurezza ambientale nel pensiero strategico cinese
Inserire la politica ambientale e la riconversione ecologica delle at-
tività umane tra i temi d’interesse della geopolitica potrebbe apparire
una forzatura. Non è infatti raro che l’ambito di questa disciplina
venga esteso ad una più generale analisi delle relazioni internaziona-
li, un contesto certamente ineludibile, ma troppo ampio per rappre-
sentare lo specifico oggetto dei problemi ge opolitici. Inoltre, per
quanto le questioni ambientali siano oggi tutt’altro che marginali
all’interno dell’agenda politica internazionale, occorre stabilire se
esse possano rivestire un carattere strategico per gli Stati, i cui co m-
portamenti sono al centro della riflessione geopolitica.
Per rispondere all’interrogativo inerente alla competenza della disci-
plina, è utile fare riferimento al saggio scritto dal geografo francese
Yves Lacoste, intitolato “Che cos’è la geopolitica”: nel tentativo di
elaborare una definizione univoca del termine “geopolitica”, Lacoste
ha preso in esame numerose altre interpretazioni, da lui considerate
parziali, la cui più evidente similarità è rappresentata dal comune ri-
ferimento all’elemento territoriale (Lacoste, 2007 ). Ora, la peculiari-
tà delle risorse naturali risiede proprio nell’essere localizzate negli
spazi geografici delimitati dai confini nazionali; l’abbondanza o la
scarsità di una data risorsa può quindi influire sulle dinamiche eco-
nomiche di uno stato e sui suoi rapporti politici con gli altri Paesi.
Questa logica può venire inoltre estesa alle risorse energetiche rinno-
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vabili, come giustamente notato da Stefano Casertano nel suo “La
guerra del clima”:
Quando si parla di economia delle rinnovabili, è opportuno chiari-
re che queste fonti energetiche non sono “illimitate”. Il vento con-
tinuerà a soffiare e il sole a illuminare, ma si potrebbero esaurire i
luoghi nei quali le tecnologie possono essere installate: sono cioè
“rinnovabili” nel tempo, ma lo “spazio” che le può ospitare è finito
(Casertano, 2011).
I rischi ambientali, come l’inquinamento atmosferico o quello delle
acque, possono invece oltrepassare i confini politici e diventare mo-
tivo di disputa tra nazioni limitrofe (ad esempio il deterioramento di
un corso d’acqua appartenente a più Paesi) oppure rappresentare una
minaccia per l’intero ecosistema (come l’incremento dell’effetto ser-
ra, la scomparsa di specie animali e vegetali), per il cui superamento
viene richiesta un’intensa attività diplomatica multilaterale (Bontems
& Rotillon, 2007). Al termine di questo ragionamento, l’adozione di
una prospettiva geopolitica nell’analisi dei problemi di sviluppo so-
stenibile non appare quindi priva di fondamento.
A dimostrazione di come la questione della sicurezza ambientale sia
integrata nel pensiero strategico cinese, si può prendere spunto dal
libro “Guerra senza limiti”, edito nel 1999, tradotto in tutto il mondo
e considerato un testo di riferimento per il concetto di guerra asim-
metrica. Secondo i due autori, Qiao Liang e Wang Xiangsui, generali
dell’aeronautica cinese, non bisogna considerare l’arma militare co-
me l’unica risorsa impiegabile in un conflitto, ma occorre includer e
l’impiego di metodi non -convenzionali, come la politica economica,
le operazioni finanziarie, gli aiuti allo sviluppo e la manipolazione
dell’opinione pubblica (Qiao & Wang, 2001).
Politiche di sviluppo sostenibile e Green Economy in Cina
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Per quanto concerne le questioni ambientali , Cristophe-Alexandre
Paillard ha osservato che:
L’opera […] tende soprattutto a mostrare che vi sono delle prati-
che di guerra non-convenzionali che essa (la Cina) reputa legittime.
[…] Gli autori constatano che le aggressioni non rivestono un ca-
rattere unicamente militare ma che degli atti ostili possono coin-
volgere i domini finanziari, informativi o ecologici che escono dalla
sfera classica della guerra e conducono ad una ridefinizione del
termine stesso. […] (Gli autori) cercano di far emergere gli aspetti
maggiori di una strategia cinese adatta al XI secolo. […]Forte della
constatazione che le guerre del futuro saranno quindi asimmetriche
e che l’ambiente sarà parte integrante di questi conflitti, la Cina
può provare ad includere la protezione ambienta le nella sua politi-
ca di sicurezza (Paillard, 2009).
Nel libro i due generali cinesi si spingono addirittura a preconizzare
esplicitamente l’avvento della guerra ecologica, un nuovo tipo di
guerra non militare in cui la tecnologia moderna serve per esercitare
influenza sullo stato naturale di fiumi, oceani, crosta terreste, ghiac-
ci polari, atmosfera e strato di ozono […] , metodi attraverso i quali
si danneggia l’ambiente fisico della terra o si crea un’ecologia loca-
le alternativa (Qiao & Wang, 2001).
Le tesi contenute in “Guerra senza limiti” non rappresentano che un
polo estremo e minoritario della dottrina militare cinese, ufficialmen-
te basata sulla promozione di un’ascesa pacifica (peaceful rise), e-
sclusivamente difensiva e priva di qualsivoglia spinta egemonica
(Dian, 2011), posizione espressa all’interno del Defense White Paper
del 2010, documento ufficiale in cui la costruzione di un mondo “ar-
monioso” e il perseguimento della “coesistenza pacifica” tra Paesi
L’Oriente è Green
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sono viste come le condizioni preliminari alla stabilità dello sviluppo
cinese.
Il perseguimento di una politica militare nazionale di natura difen-
siva è determinato dal percorso di sviluppo della Cina, i suoi obiet-
tivi fondamentali, la sua politica estera, e le sue tradizioni storiche
e culturali. La Cina intraprende fermamente la strada dello svilup-
po pacifico, si sforza di costruire una società socialista armoniosa
sul piano interno, e promuove sul piano int ernazionale la costruzio-
ne di un mondo armonioso dalla pace duratura e dalla comune pro-
sperità. La Cina prosegue fermamente le sue riforme, la sua apertu-
ra e alla stesso tempo la modernizzazione socialista, traendo profit-
to da un ambiente internazionale per il proprio sviluppo che contri-
buirà a sua volta alla pace nel mondo. (Information Office of the
State Council, The People's Republic of China, 2011)
Aldilà delle rassicuranti dichiarazioni ufficiali sulla politica di Dife-
sa della Repubblica Popolare, dal documento emerge chiaramente
come la salvaguardia dello sviluppo economico e la stabilità sociale
di tale processo rappresentino per la dottrina militare cinese degli o-
biettivi primari. Il concetto di “Difesa” viene quindi esteso alla pro-
tezione dei piani di sviluppo orientati dai leader di Pechino, un ambi-
to strategico dai confini effettivamente molto labili, tanto da potervi
includere le sfide alla sicurezza ambientale .
[1.2]
Le sfide alla stabilità strategica
Negli ultimi vent’anni il mantenimento di una crescita economica a
ritmi elevati ha rappresentato una priorità fondamentale per il Partito
Comunista Cinese, che ha sfruttato i risultati della liberalizzazione
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economica come mezzo per superare la crisi di legittimità della pro-
pria permanenza al potere (Wang, 2006). Secondo un’interpretazione
“clinica” di Susan Shirk, Sottosegretario di Stato per le relazioni con
l’Asia orientale durante l’amministrazione Clinton, in seguito al
traumatico collasso di numerosi regimi non democratici, i leader ci-
nesi avrebbero sviluppato l’ossessione per la stabilità sociale e per la
prosperità economica come strumento per ottenerla (Shirk, 2007).
A livello strategico, l’importanza che le autorità cinesi hann o asse-
gnato alla crescita economica può essere riscontrata nella nozione di
“stabilità strategica” (zhànlüè wĕndìng 战略稳定), ovvero la necessità
di difendere lo sviluppo del Paese da qualsiasi minaccia, in modo da
poter accedere al rango di potenza regionale e mondiale (Paillard,
2009). Il successo delle riforme economiche e l’ attività diplomatica a
difesa delle proprie aspirazioni sullo scenario internazionale giocano
quindi un ruolo fondamentale nella sopravvivenza dell’attuale siste-
ma politico cinese.
Tuttavia, nonostante l’evidente crescita economica avvenuta in Cina,
le riforme non sono però riuscite a colmare il divario tra le sviluppate
megalopoli delle province orientali e l’hinterland, contribuendo anzi
ad accentuarlo. Mentre le province orientali sono diventate dei poli
produttivi specializzati nell’esportazione, che contribuiscono da sole
al 60% del Pil nazionale (Lemoine, 2006), quelle interne, maggior-
mente legate al settore primario, sono ancora gravate dalla pesante
eredità delle fallimentari politiche agricole e dalle deforestazi oni del
periodo maoista, che hanno seriamente compromesso la capacità pro-
duttiva dei terreni e causato l’estensione delle zone desertiche.