ecologiche considerate nella loro dimensione transnazionale o, ancor peggio,
globale. Preservare l'ambiente, infatti, significa: introdurre nelle lavorazioni
industriali e in tutte le attività dell'uomo una serie di procedimenti onerosi;
ricorrere a fonti d'energia alternative, impegnandosi nella ricerca delle stesse;
costruire depuratori; etc. E’ vero che tutto ciò rappresenta un investimento a tutela
dell'ambiente, ma è parimenti vero che l'alto costo di questi accorgimenti si
ripercuote sul prezzo del prodotto finito e, quindi, sulla capacità concorrenziale
dell'impresa/società produttrice.
Tuttavia, di recente, l'ambiente, da vincolo e limite all'attività imprenditoriale, va
assumendo paradossalmente l'aspetto di ‘opportunità economica’ che si realizza
tramite processi di innovazione tecnologica, di uso razionale delle risorse e di eco-
efficienza delle imprese (si pensi all'Eco-audit, quale sistema di controllo
organizzativo-gestionale dell'azienda verso l'ambiente; oppure all'Eco-label, vera e
propria etichetta di qualità ecologica del prodotto).
Ma se simili strategie risultano realizzabili ed idonee a produrre effetti vantaggiosi
per l'economia, non potranno che esserlo all'interno del mondo ricco in cui
maggiori sono le risorse destinabili alla protezione ecologica.
Al contrario i Paesi poveri negli strumenti di eco-produzione ravvisano un
ulteriore ostacolo alla competitività dei propri beni sul mercato internazionale, non
potendo disporre delle medesime tecnologie pulite in virtù dell'alto costo delle
stesse se raffrontato alle proprie precarie possibilità economico-finanziarie.
Risulterà quindi necessario riflettere sul concetto di “sviluppo sostenibile”, che ha
trovato nella Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (Rio de
Janeiro 3-14 giugno 1992) la sua più compiuta formulazione. Il principio n. 3
afferma infatti che il diritto allo sviluppo deve essere soddisfatto in modo tale da
contemperare equamente la necessità dello sviluppo e quelle ambientali della
presente e future generazioni. Ma quando si passa dal principio alla sua
applicazione, è facile avvertire il diverso peso avvertito dal fattore sviluppo a
seconda che entrino in giuoco i Paesi industrializzati o quelli arretrati. Per questi
ultimi si ritiene che il diritto allo sviluppo, rivestendo un'importanza primaria,
giustifichi maggiori sacrifici in termini di tutela ambientale, rispetto a quanto è
consentito ai Paesi ad alto tenore di vita.
In effetti, così come sostenuto dalla corrente liberista dei free traders, il percorso
di responsabilizzazione ecologica dei Paesi poveri dovrà necessariamente
procedere attraverso la massimizzazione degli scambi internazionali, quindi
attraverso l'eliminazione di qualsiasi barriera al transito di merci/servizi,
soprattutto quando sotto il pretesto di lodevoli politiche a sostegno dell'ambiente si
insinuino veri e propri intenti protezionistici. Lo sviluppo sarà dunque il motore in
grado di garantire un'efficiente regolamentazione ambientale, prima a livello
nazionale e poi a livello globale.
L'impostazione liberistica, tra l'altro, trova pratica raffigurazione nella curva
ambientale di Kuznets che spiega come il degrado ambientale aumenti nelle prime
fasi di sviluppo economico, e come inizi a diminuire soltanto oltre una determinata
soglia nel livello del reddito: a redditi pro capite più elevati corrisponderà una
crescente attenzione per la qualità ambientale.
Assolutamente contrario ad un simile approccio si pone l'orientamento delle
associazioni ambientaliste, secondo cui deve essere l'ambiente a rappresentare il
valore assoluto a cui rapportare qualsiasi scelta economica, politica e sociale.
Secondo costoro, infatti, la prospettiva di garantire alle aziende nazionali la
conquista di nuovi mercati, indurrebbe gli Stati a non introdurre quelle norme
interne in grado di eliminare o, quantomeno di attenuare, quelle esternalità
ambientali dalle stesse prodotte nello svolgimento delle proprie attività produttive.
L'abbassamento dei costi di produzione e consumo, derivanti dall'assenza di
correttivi a tali condotte, darebbe cioè luogo ad una sorta di “dumping ecologico”,
nell'ambito del quale la distruzione dell'ambiente (patrimonio di tutti) verrebbe
adoperata alla stregua d'una sovvenzione per l'industria che opera all’interno del
confine nazionale. Pertanto, essendo la protezione ambientale obiettivo che ogni
Stato dovrebbe perseguire in via prioritaria, sarebbe legittima, da parte dei Paesi
più attenti alle problematiche ecologiche, l'adozione di quelle c.d. “misure di
protezionismo verde” (TREMs)
atte a restringere i flussi commerciali
internazionali, pur quando tali misure non trovino fonte in accordi multilaterali
stipulati a livello internazionale.
Quale tra le due soluzioni appaia preferibile rimane questione controversa. Resta il
fatto che di fronte all'incapacità di trovare soluzioni mediatorie all'interno di
quello che viene oggi chiamato il ‘nuovo ordine economico internazionale’, non
potrà pervenirsi che a soluzioni legislative internazionali a tutela dell'ambiente
caratterizzate da molta ambiguità e poca efficienza.
La tutela internazionale dell'ambiente è una branca recente del diritto
internazionale. I suoi primi passi risalgono agli inizi del Novecento quando alcuni
trattati internazionali cominciarono a tradurre in forme giuridiche l'esigenza di
cooperazione interstatale ai fini della conservazione di alcune specie floro-
faunistiche, ovvero al fine di tutelare fiumi e laghi internazionali.
Tuttavia, il carattere sporadico e frammentario di questi strumenti ha reso difficile
considerarli come elementi integranti di un sistema organico di tutela
internazionale. Essi sono stati per lo più ispirati ad un'impostazione economistica
secondo la quale le specie animali e gli altri beni ambientali oggetto di protezione
hanno trovato tutela in quanto ‘utili’. Inoltre, sul piano strettamente giuridico, fino
a tutta la prima metà del secolo scorso, la tutela dell'ambiente è stata concepita
non come valore a sé stante, ma come il sottoprodotto della tutela di altri interessi
statali ormai consolidati nella tradizione del diritto internazionale: in primo luogo,
la “sovranità territoriale”.
Generalmente intesa come “somma delle potestà pubbliche dello Stato esercitata
su un territorio definito e sul corpo sociale su di esso stanziato” (Conforti), il
diritto alla sovranità territoriale comporta, tra l’altro, il diritto per lo Stato di
disporre liberamente delle proprie risorse naturali. Essendo la comunità
internazionale formata da soggetti ugualmente sovrani, la libertà d'uno Stato
d'esercitare i propri diritti non deve, o almeno non dovrebbe, pregiudicare i diritti
e le libertà degli altri Stati.
Su tale base verranno quindi ad essere specularmente contrapposti il diritto di ogni
Paese di utilizzare il proprio territorio (rectius, di consentirne l'utilizzazione),
anche a costo di generare danni ambientali, con il dovere ad impedire che lo stesso
venga utilizzato in modo tale da produrre sensibili danni ambientali nel territorio
di uno o più Stati diversi.
Si tratta, in sostanza, della regola del divieto di “danno transfrontaliero”.
Nell’inquinamento transfrontaliero possono farsi rientrare, in linea generale, quei
fenomeni che provenendo da una fonte posta nel territorio di uno Stato, o
comunque sotto la sua giurisdizione/controllo, ledono uno spazio situato al di fuori
del territorio d'origine. La regola trova fondamento nella decisione arbitrale
concernente il ‘caso Trail Smelter’ (1914), che, almeno secondo la dottrina
maggioritaria, rappresenta una norma di diritto internazionale generale.
Ora, a prescindere dall'effettiva esistenza d'un obbligo generale a non inquinare
incombente sul singolo Stato nell'utilizzazione del proprio territorio, è dagli anni
Sessanta che la comunità internazionale ha cominciato a realizzare che, accanto
alla massiccia industrializzazione, all'incremento demografico e all'enorme
espansione degli scambi e dei trasporti internazionali, il boom economico
postbellico ha condotto, altresì, ad una crescita più che proporzionale dei rischi
ambientali di per sé trascendenti lo spazio fisico dei singoli Stati. Confrontato con
simili problemi, il quadro giuridico nazionale si è rivelato sempre più inadeguato,
apparendo ineludibile predisporre strumenti normativi e di cooperazione a livello
internazionale, sia su scala regionale (prevenzione dell'inquinamento marino nel
Mediterraneo, nel Mar Baltico, etc.) che globale (effetto serra, fascia d'ozono,
etc.).
La Conferenza di Stoccolma delle Nazioni Unite (16 giugno 1972) rappresenta il
primo passo nella costruzione del moderno diritto internazionale dell'ambiente. Il
merito della Dichiarazione scaturita dal vertice svedese è quello di aver attribuito
al bene ambiente un'autonoma dignità, la cui tutela, quindi, non avrebbe più
dovuto essere subordinata o incidentale rispetto alla protezione di altri interessi
statali, quali la sovranità e i rapporti di vicinato tra le Nazioni. I ventisei principi
della Dichiarazione hanno contribuito, inoltre, alla stipulazione di diversi trattati
internazionali volti ad estendere la tutela ambientale anche a spazi situati al di
fuori della sovranità (giurisdizione o controllo) dello Stato, quali: l'alto mare, lo
spazio atmosferico ed extra-atmosferico, l'Antartide. A titolo esemplificativo
ricordiamo: la Convenzione di Ginevra del 1979 atta a contrastare il fenomeno
delle piogge acide risultanti da fattori inquinanti provenienti anche da molto
lontano; le due Convenzioni adottate a Vienna nel 1986, proprio all'indomani della
catastrofe nucleare di Cernobyl; la Convenzione di Montego Bay del 1982 (entrata
in vigore nel 1994) a tutela dell'ambiente d'alto mare; i diversi accordi a
salvaguardia dell'ecosistema antartico (in primis la Convenzione di Camberra del
1980 e quella di Wellington del 1988) che, in verità, già col Trattato di
Washington del 1959 assumeva la connotazione di ‘patrimonio comune
dell'umanità’.
Tuttavia, benché sul piano normativo l'azione internazionale a difesa dell'ambiente
sia stata densa di risultati , il degrado ecologico del pianeta non è stato arrestato e le
misure adottate sono apparse deboli ed inefficaci.
A parte il problema politico del coordinamento delle strategie nazionali nella lotta
all'inquinamento, esistono altre cause che ancora oggi sono alla base
dell'inadeguatezza del diritto internazionale dell'ambiente.
Abbiamo visto come la Conferenza di Stoccolma del 1972 abbia in un certo modo
voluto introdurre una nuova forma di tutela ambientale svincolata da qualsiasi
interesse statale, sì da favorire l'affermazione d'un diritto internazionale
dell'ambiente inteso in senso “assoluto”. Se indaghiamo a fondo, però, ci
accorgiamo dell'ambiguità, se non proprio della contraddittorietà esistente tra i
principi della Dichiarazione. Infatti, dal riconoscimento, prima (in particolare nel
preambolo e nel princ. 22), d'una importanza globale del problema ambientale e,
poi (specie nei princ. 21 e 24), d'una sovranità sulle risorse naturali, traspare una
forte incertezza e una non ancora matura capacità della comunità internazionale a
considerare in modo autonomo la tutela dell'ambiente. Se poi andiamo a
confrontare le disposizioni citate con quelle più recenti della Dichiarazione di Rio
del 1992, ci accorgiamo che nell'arco di vent'anni non si sono avuti che risultati
modesti rispetto a quelli programmati, essendo riproposto, alla luce del nuovo
concetto di sviluppo sostenibile, il consueto principio dell'utilizzazione sovrana
del ‘proprio ambiente’.
Un altro elemento limitante per il sistema è rappresentato dalla difficoltà di
provare la colpevolezza del comportamento statale, e dunque imputare allo stesso
la responsabilità per il danno ecologico causato.
Il problema della responsabilità per danni ambientali si presenta in maniera
piuttosto complessa in quanto, pur asserendo l'esistenza nel diritto internazionale
generale d'un obbligo a non inquinare, la cui violazione si riverberebbe in
responsabilità per lo Stato (precisiamo che nonostante gli sforzi compiuti dalla
Commissione di Diritto Internazionale dal 1976 ad oggi, non può affermarsi
l'esistenza d'un crimine internazionale contro l'ambiente, così come d'una
responsabilità ambientale per attività lecita), i numerosi accordi di collaborazione
e cooperazione a difesa dell'ambiente hanno disposto per regimi di responsabilità
specifica di tipo civile (a carico degli operatori economici) che, sovrapponendosi
al regime generalmente accolto dalla comunità internazionale, non solo producono
un sistema confuso e, quindi, di dubbia applicabilità, ma anche un pericoloso
meccanismo di computo aziendale in cui potrebbe risultare conveniente accettare
il rischio ambientale, quindi corrispondere un eventuale risarcimento, a fronte dei
vantaggi derivabili dall'esercizio di un'attività pericolosa.
Malgrado i suoi limiti, la tutela internazionale dell'ambiente ha tuttavia continuato
a progredire, occupando spazi in precedenza irrilevanti per il diritto internazionale,
o ad esso interdetti a causa della loro appartenenza al dominio riservato degli Stati.
Vogliamo riferirci alla tendenza a tutelare i c.d. beni ambientali globali (quali
l'ozono, la stabilità climatica o determinati ecosistemi), e alla crescente ingerenza
internazionale nei criteri di gestione e conservazione di risorse localizzate sul
territorio d'un singolo Stato (specie in via d'estinzione e foreste tropicali), ma non
per questo sottratte al controllo della comunità internazionale. Ricordiamo
brevemente: la Convenzione di Washington del 1973 (CITES) che vieta la
commercializzazione, la detenzione o l'uccisione incidentale di animali o piante la
cui sopravvivenza sia messa in pericolo dalla domanda del mercato internazionale;
la Convenzione di Ramsar del 1971 che fa obbligo agli Stati di provvedere alla
conservazione e alla gestione razionale delle zone umide; il Protocollo di Ginevra
del 1982 che riguarda l'istituzione e la tutela di aree speciali nelle acque territoriali
o interne dei Paesi membri; la Convenzione di Vienna del 1985 ed il Protocollo di
Montreal del 1987, quali strumenti volti a porre rimedio al fenomeno
dell'assottigliamento della fascia d'ozono.
Più in generale, comunque, i progressi realizzati nella tutela internazionale
dell'ambiente rimangono frammentari. Le forme di cooperazione più fruttuose
restano forse quelle realizzate su scala regionale (UE e NAFTA) dove più vivo è il
senso del comune interesse alla prevenzione del degrado ambientale. Sul piano
globale gli ostacoli sulla via d'una efficace cooperazione internazionale sono,
come visto, molteplici; ma forse il più arduo resta la diffidenza che molti PVS
nutrono verso l'allarme ecologico, ulteriore impedimento al loro sviluppo.
La consapevolezza dell'importanza di coniugare in futuro lo sviluppo con
un'effettiva tutela ambientale, è stata espressa dalle Nazioni Unite sia
nell'autorevole “Rapporto Brundtland” del 1987, che con la celebrazione, a
vent’anni dalla Dichiarazione di Stoccolma, d'una nuova conferenza mondiale in
Brasile, significativamente denominata Conferenza sull'Ambiente e lo Sviluppo
(UN-CED).
Nell'ambito della Conferenza di Rio del 1992 sono stati adottati, accanto ad
ulteriori dichiarazioni di principi (Dichiarazione di Rio e Dichiarazione sullo
sviluppo sostenibile delle foreste) e ad un preciso programma di lavoro volto ad
assicurare una futura integrazione tra l'ambiente e lo sviluppo (Agenda XXI), due
trattati dal carattere tendenzialmente universale e per questo dotati di particolare
rilievo, concernenti rispettivamente il c.d. “effetto serra” e la tutela della
“biodiversità”.
Un grave problema ambientale globale che in questi ultimi tempi è al centro delle
preoccupazioni della comunità internazionale, riguarda, infatti, il fenomeno del
surriscaldamento della superficie terrestre che, nonostante permangano incertezze
scientifiche, pare debba farsi risalire all'aumento della concentrazione di anidride
carbonica nell'atmosfera.
La riduzione di CO2 nell'atmosfera richiede il reperimento di fonti energetiche
alternative, o una riduzione dei consumi delle attuali risorse talmente drastica da
mettere in discussione gli stessi modelli di vita del mondo industrializzato (per
non parlare delle conseguenze sui PVS). Una soluzione mediatrice si è tentato di
trovarla con la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici (UN-FCCC), approvata, per l'appunto, in occasione del vertice
brasiliano. L'UN-FCCC, fissando una serie di obblighi di natura economica,
politica e sociale a carico di ogni singolo Stato, ha incaricato un apposito
organismo dalla stessa istituito (Conferenza delle Parti - COP) di darne
attuazione. Il migliore risultato si è raggiunto attraverso il Protocollo di Kyoto,
approvato dalla COP nella sua terza sessione plenaria del 1997. Il documento,
tuttavia, individua e definisce operativamente solo una parte molto limitata degli
impegni da attuare, impegnando soltanto i Paesi industrializzati e quelli ad
economia in transizione a ridurre complessivamente del 5% le principali emissioni
antropogeniche di gas di serra. Nessun tipo di limitazione alle emissioni viene
invece previsto per i Paesi in via di sviluppo, perché un tale vincolo, come era
stato del resto già previsto a Rio, avrebbe rallentato, o comunque condizionato, il
loro cammino verso uno sviluppo socio-economico (art. 8). Vale la pena
osservare, tuttavia, che la crescita delle emissioni di anidride carbonica e degli
altri gas di serra nei PVS sta attualmente avvenendo con ritmo triplicato rispetto
ai Paesi sviluppati. Se ne evince che il Protocollo di Kyoto, pur essendo un ottimo
punto di partenza, potrebbe risultare del tutto inutile, se la COP nelle prossime
sessioni negoziali non troverà soluzioni adeguate ed onorevoli capaci di garantire
ai PVS di procedere speditamente e senza impedimenti nel loro cammino verso la
crescita delle proprie economie, ma che garantiscano altresì che gli obiettivi
intermedi e finali della Convenzione UN-FCCC vengano effettivamente raggiunti
a livello mondiale.
Per ciò che riguarda la protezione della biodiversità, cioè della varietà del
patrimonio biologico messa a repentaglio dalla rapida e crescente erosione del
patrimonio genetico dovuta ai moderni sistemi di produzione agricola basati su
culture monogenee, a Rio è stato riconosciuto ai PVS, nel cui territorio è
concentrata la maggior parte delle risorse genetiche delle varietà primitive, il
diritto ad un'equa remunerazione nei confronti degli operatori scientifici e
industriali che ad esse attingono per le loro attività nel campo delle biotecnologie.
Seppure il progetto è apparso idoneo a coniugare lo sviluppo delle economie dei
Paesi poveri attraverso un uso sostenibile delle proprie risorse naturali, non ha
tuttavia tenuto conto dell'assoluta mancanza in tali Paesi di quegli strumenti
tecnici, scientifici ed amministrativi in grado di realizzarne il fine.
Concludendo, possiamo affermare che, allo stato attuale, la comunità
internazionale è ancora lontana dall'assicurare una tutela ambientale che tenga
conto delle gravi differenze economiche esistenti tra il Nord ed il Sud del pianeta.
Al fine di concretizzare le lodevoli enunciazione di principi (soft laws) affermate
prima a Stoccolma e poi a Rio, occorre livellare le differenze, quindi ricorrere
prioritariamente a strumenti economico-commerciali in grado di sviluppare una
coscienza ecologica nel mondo contemporaneo.
Il primo gennaio 1995 è entrato in vigore l'accordo (di Marrakech) che istituisce
l'Organizzazione Mondiale del Comercio (OMC). In verità già da tempo la
comunità internazionale palesava il desiderio di intraprendere una politica
commerciale comune capace di garantire sviluppo e prosperità attraverso la
creazione d'un sistema di liberalizzazione degli scambi. L'Accordo generale sulle
tariffe commerciali (GATT) del 1947, infatti, nonostante sia stato integrato e
modificato nel corso degli anni (in particolare con l'Uruguay Round), rappresenta
la pietra miliare dell'odierna Organizzazione. Vogliamo fare riferimento al
principio di non discriminazione (art. I); al principio del trattamento nazionale
(art. III) e a quello tendente all'eliminazione generale delle restrizioni quantitative
(art. IX), quali norme poste ancora oggi a garanzia del sistema del commercio
multilaterale dell'OMC, derogabili solo in relazione ad un ulteriore norma
particolarmente importante ai fini di protezione dell'ambiente, l'art. XX (spec. lett.
b e g).
Proprio in merito all'interpretazione di quest'ultima norma si sono avuti i maggiori
contrasti economico-ambientali dell'ultimo ventennio. Si pensi, in specie, ai
significativi casi tuna/dolphin e gamberetti/tartarughe di mare, le cui pronunce
ad opera di panels del GATT hanno palesato appieno la tendenza dell'OMC a
premettere le esigenze commerciali su quelle di tutela dell'ambiente.
Ma saranno i tribunali dell'OMC (Organo di Risoluzione delle Controversie -
DSB) in grado di svolgere le proprie funzioni in maniera obiettiva ed imparziale,
alla stregua di un qualsiasi altro sistema giudiziario moderno? Dalle esperienze
esaminate, pare proprio di no.
L'esistenza d'una Corte internazionale per l'Ambiente, rimane ancora una chimera,
nonostante in questi ultimi tempi si stia lavorando per una sua
istituzionalizzazione.
La soluzione delle controversie, tuttavia, non è l'unico modo per garantire
l'applicabilità del diritto internazionale dell'ambiente. Esistono già, all'interno
dell'OMC, strumenti istituzionali e convenzionali che pare vadano in tale
direzione.
Il Comitato per l'Ambiente ed il Commercio (CTE), per esempio, è l'organo
appositamente istituito all'interno dell'Organizzazione al fine di risolvere il
problema della coniugabilità tra ambiente e commercio. Sono dieci i punti
costituenti l'agenda di lavoro del comitato, indirizzati ad individuare: 1) il rapporto
tra norme GATT-OMC e le misure commerciali a tutela dell’ambiente; 2) il
rapporto tra politiche ambientali nazionali e norme GATT-OMC; 3) il rapporto tra
regole tecniche e fiscali e obbighi OMC; 4) la via per garantire informazione e
trasparenza; 5) i rapporti tra i meccanismi di risoluzione delle controversie
concorrenti; 6) le modalità di valutazione degli effetti sulle economie dei PVS
(quindi sulla loro possibilità d’accesso ai mercati) derivabili (a) dall’applicazione
di standards ambientali e, al contrario, (b) dall’applicazione di sistemi altamente
liberistici e concorrenziali; 6) le problematiche connesse all’esportazione dei
prodotti non commercializzabili all'interno del mercato nazionale; 7) le modalità
di valutazione dell’accordo sulla proprietà intellettuale; 8) le modalità di
valutazione del GATS; 9) i rapporti con le organizzazioni non governative.
Una chiarificazione su tali punti di sicuro condurrebbe all'eliminazione di qualsiasi
possibilità di conflitto tra le misure commerciali adottate in ottempranza di accordi
ambientali multilaterali (MEAs) e le regole liberal-scambistiche del sistema
GATT/OMC. Si realizzerebbe, in pratica, l'inciso affermato dal Preambolo stesso
dell’Accordo istitutivo dell’OMC, in cui le parti contraenti riconoscono che le loro
relazioni nel campo del commercio internazionale debbono essere condotte in
modo da conseguire, tra l’altro, “l’uso ottimale delle risorse mondiali in accordo
con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, cercando sia di proteggere e preservare
l’ambiente, sia di sviluppare i mezzi per farlo in modo coerente con le rispettive
necessità e preoccupazioni ai differenti livelli di sviluppo economico”. Tuttavia,
l'ampiezza e la complessità delle questioni comprese nel programma di lavoro del
Comitato e la mancanza di qualsiasi potere decisionale di merito, hanno condotto
a risultati esigui che palesano appieno la necessità di intraprendere lavori
supplementari su tutti i punti dell'agenda menzionata.
Anche sul piano convenzionale possiamo riscontrare propositi di tutela
dell'ambiente all'interno dell'OMC. Particolarmente rilevanti sotto questo aspetto
sono l'Accordo sulle barriere tecniche agli scambi (TBT) e l'Accordo sulle misure
sanitarie e fitosanitarie (SPS).
Entrambi, al fine di scongiurare qualsiasi intento protezionistico perseguibile dagli
Stati membri, danno possibilità alle parti di discostarsi dalle norme del GATT
soltanto in presenza di circostanze espressamente stabilite. E così se l'Accordo
TBT ammette l'applicazione di regolamenti tecnici e standards nazionali (marchi,
etichette, etc.) soltanto in ragione di caratteristiche proprie degli Stati (clima,
geografia, tecnologia) che renderebbero inefficaci o inappropriati gli standards
internazionalmente accolti; l'Accordo SPS dispone le medesime eccezioni soltanto
in presenza di una giustificazione scientifica che avalli l'adozione d'una misura
sanitaria o fitosanitaria diversa rispetto a quelle generalmente applicate.
Quest'ultimo Accordo, in pratica, conferma la possibilità per gli Stati di invocare
il principio precauzionale soltanto in presenza di una chiara evidenza scientifica.
Alla luce delle regole dell'OMC, quindi, non potranno giustificarsi i divieti
europei di importazione di carne bovina trattata con ormoni, ovvero di prodotti
transgenici.
Il principio precauzionale rappresenta sicuramente il punto di maggior contrasto
tra le differenti politiche commerciali adottate all'interno del mondo ricco che,
insieme al concetto di politica agricola multifunzionale, fatta di sussidi e
sovvenzioni ai produttori interni, si pone ad ostacolo insormontabile per
un'efficiente riuscita del nuovo Millenium Round.
Si aggiungano le proteste antiglobalizzazione provenienti dai Paesi poveri che
nella realtà degli accordi OMC individuano la definitiva disfatta delle proprie
economie e della propria diversità culturale.
Da più parti si levano richieste di rinnovamento dell'OMC. L'organizzazione più
potente del pianeta deve realizzare l'importanza del compito globale che le è stato
affidato, compito che va ben oltre la garanzia d'un sistema internazionale del
commercio esente da qualsiasi limitazione. Tutto questo principalmente e non solo
per garantire un futuro migliore all’intera umanità, ma anche per preservare e
consolidare la propria sostenibilità politica e sociale. È chiaro, infatti, che
continuando ad operare attraverso un sistema liberistico ‘self-contained’ , senza,
dunque, tenere in adeguata considerazione il diritto internazionale dell’ambiente
ed il sostegno delle economie dei Paesi meno fortunati, la WTO potrebbe perdere
quel consenso multilaterale che fino ad oggi ha costituito la ragione del suo
successo.