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Introduzione
“Ognuno è seguito da un’Ombra, tanto più nera e densa quanto meno è
incorporata nella vita cosciente dell’individuo”
Carl Gustav Jung
Al centro del mio elaborato ho deciso di porre un’idea del femminile differente
dall’immaginario comune. Partendo dal presupposto che si è soliti associare alla
donna aggettivi e caratteristiche positivi, legati all’amore, alla bontà, al senso
materno e molto altro, il mio intento è stato quello di “sfatare” questo mito comune
e alquanto attuale proprio tramite un approccio mitologico e simbolico che andasse
a smentire le credenze più ricorrenti. L’ho fatto trattando argomenti inerenti alla
psicologia del femminile per giungere, passo dopo passo, a chiarire queste
dinamiche e a contestualizzarle e ritrovarle all’interno di un’opera cinematografica.
Sono partita da un concetto di base: quello dell’archetipo, in termini junghiani;
secondo quest’ottica, la Grande Madre non si riferisce ad una entità chiaramente
visibile (anche se è possibile ritrovarlo raffigurato dalle forme della grande dea
femminile, dalle creazioni artistiche, nelle fantasie e nei miti), ma a qualcosa di
latente e interiore che agisce nella mente dell’uomo. L’effetto che questo ha sulla
psiche è molto forte, poiché si estrinseca nei processi energetici dell’inconscio e
nelle relazioni esistenti tra quest’ultimo e la coscienza, comportando stati d’animo
alternati tra positività e negatività che investono l’intera persona. Pertanto, il
contenuto inconscio viene, in un secondo momento, percepito consciamente e
questo si concretizza tramite la forma simbolica di un’immagine, perché “un’entità
psichica può essere, naturalmente, un contenuto di coscienza solo quando può
essere rappresentata sotto forma d’immagine” (Jung, 1926, pp.343). Dunque, il
simbolo rappresenta il livello immaginativo attraverso cui la persona prende
coscienza di ciò che alberga dentro di sé, rendendo visibile ciò che solitamente
corrisponde ad una latente invisibilità. Questo processo genera una scissione degli
aspetti originariamente primordiali, definendo così, attraverso il principio degli
opposti, la netta separazione tra bene e male, positivo e negativo, maschile e
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femminile; tale ambivalenza è propria dell’archetipo e rimane intatta anche nella
complessa esistenza della donna (Neumann, 1981). Un altro concetto chiave che
accompagna l’idea della duplicità bene-male emergente nell’intero elaborato, è
quello di Ombra, ossia quella “componente della personalità che generalmente ha
segno negativo” (Jung, 2003, pp.191), simbolo del nostro fratello oscuro che,
talvolta invisibile, è inseparabile da noi e risulta essere una delle componenti della
nostra totalità; è pertanto una parte integrante o da integrare, quella oscura che si
tende a tenere nascosta e che viene molto spesso proiettata sull’altro. Ciò implica
la capacità di riconoscere questi nostri aspetti negativi e cercare di accettare la loro
presenza naturale (Jung, 1985; Jung, 1972).
Con tali premesse ho affrontato il tema del femminile in termini tanto psicologici
quanto mitologici, cercando di creare un ponte tra passato e presente, trattando
aspetti legati all’immagine di una donna percepita come strega, fino ad arrivare alla
sua eccessiva idealizzazione, e cercando in questo modo di riportare fenomeni
attuali e reali legati alla vita odierna, sottolineando la normale ambivalenza della
personalità di una donna, ma soprattutto di una madre.
Infatti, nel primo capitolo ho inserito un breve cenno sullo sviluppo psicologico
femminile, seguendo gli stadi evolutivi secondo la filosofia adottata da Neumann,
per poi evidenziare quelle dinamiche negative che possono caratterizzare la
personalità femminile e nello specifico la personalità della donna-madre; l’ho fatto
inserendo un’analisi del fenomeno del figlicidio e alcuni spunti rispetto al legame
esistente tra la psicopatologia e la maternità.
Nel secondo capitolo ho, invece, posto al centro dell’attenzione l’aggressività della
donna, proprio per cercare di riportare alla luce miti e credenze che andassero a
mettere in discussione la convinzione della totale bontà del genere femminile: da
una iniziale visione perfetta e divina sono poi passata a trattare l’ambivalenza dei
vari aspetti legati alla personalità femminile, giungendo a trattare miti intenti a
testimoniare la rabbia, l’aggressività e l’incapacità di essere madri, considerando
perfino l’influenza della luna.
Nel terzo capitolo il mio intento è stato quello di focalizzare l’aggressività trattata
nel capitolo precedente all’interno dell’immagine materna; con questo filo
conduttore ho sottolineato l’importanza del passaggio dall’essere donna all’essere
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madre, arrivando in un momento successivo ad esporre le possibili conseguenze di
questo cambio di identità: una madre può essere tanto buona quanto malvagia.
L’ambivalenza iniziale può svanire o, al contrario, lasciare il posto al rifiuto della
propria maternità con conseguenze legate alla relazione con il proprio bambino. Ho,
infine, concluso questa parte con un riassunto delle possibili reazioni che una madre
che non si sente tale può manifestare, soffermandomi dunque su trascuratezze e
maltrattamenti.
Per concludere, nel quarto capitolo, ho inserito l’analisi di un film che mi ha colpito
molto e che è stato spunto di riflessione per l’intero elaborato. Il mio è obiettivo è
quello di leggere questa storia narrata tramite le riprese cinematografiche in termini
psicologici/simbolici per meglio interpretarlo secondo l’ottica che ha fatto da
sfondo ai capitolo precedenti. Dopo un breve cenno alla trama mi sono soffermata
solamente sul personaggio femminile e su come in questo caso viene rappresentata
l’immagine della donna.
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CAPITOLO PRIMO
Psicologia e psicopatologia femminile: due facce della stessa medaglia
“L’aspetto divino del principio femminile si è inabissato nell’inconscio, dove ha
assunto un aspetto oscuro.”
Marie-Louise von Franz
Le leggende e i miti che ci vengono raccontati fin dall’infanzia sull’origine del
mondo presentano come protagonista la figura maschile di un Dio; una visione
generale dell’umanità accompagnata dall’idea di una realtà maschile-patriarcale
riscontrabile a partire dalla Genesi, in cui si racconta di come la donna sia nata dalla
costola di un uomo e di come essa ne rappresenti una parte dell’inconscio,
interamente dipendente da lui e priva di una propria anima. Questi rimandi hanno
poi permesso agli uomini di credere all’inferiorità dell’altro sesso, ma hanno anche
concesso alle donne di autosubordinarsi al genere maschile, rifiutando loro stesse
la propria unicità, e cancellando tutte quelle differenze che possono rendere loro
onore di essere donne. Ciò non le ha rese interpretabili nel loro significato, e il
silenzio che hanno nel tempo portato avanti è divenuto fonte di mistero. Tuttavia
l’umanità ha condotto grandi progressi con il trascorrere degli anni, permettendo a
queste donne di distaccarsi dalla visione di sé come quella della donna primitiva
concentrata sul fine biologico di donare la vita altrui o come colei che doveva
apparire bella solo agli occhi del suo uomo e mai ai propri; questa spinta le ha
portate ad avere una maggiore coscienza di sé, di essere un’entità separata dal
proprio uomo e ha permesso loro di integrare i valori individuali acquisiti con le
rappresentazioni collettive del femminile, determinando un conflitto che ha
permesso la nascita della coscienza (Harding, 1942).
Anche la storia della nascita di quest’ultima ha un connotato prettamente maschile
piuttosto che femminile e le conquiste secondo questa ottica hanno poi generato la
cultura patriarcale. Si è passati all’analisi della componente femminile soltanto
dopo aver compreso che anche l’uomo possiede dentro di sé caratteristiche attive
tipiche della donna. Ciò ha permesso di ampliare il raggio di riflessione e ragionare
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sul legame esistente tra entrambi i sessi, ma questo è divenuto possibile solo grazie
ad una accettazione della coscienza matriarcale, la quale costituisce il ponte “tra la
donna e l’essere umano creatore, ad esempio l’artista, in cui l’Anima, il lato
femminile, e con esso anche la coscienza matriarcale, sono maggiormente
accentuati che nell’uomo medio patriarcale” (Neumann, 1975, pp.7). Da qui la
necessità di porre attenzione sulle differenze esistenti nello sviluppo del femminile
e su tutte quelle caratteristiche che rendono la donna allo stesso tempo parte
integrante di una dimensione maschile, ossia quelle dimensioni attualmente non
accettate ma facenti parte della sua personalità.
1.1. Lo sviluppo femminile: gli stadi psicologici
L’immagine iniziale a cui è necessario far riferimento è quella di un serpente
richiuso su se stesso e che si morde la coda, un’icona che rappresenta l’uroboro,
ossia lo stadio originario, quello che appartiene sia al femminile sia al maschile. In
tale situazione pre-egoica della psiche a prevalere è la fusione, condizione che vede
l’Io non ancora diviso dall’inconscio, il quale rappresenta qualcosa di materno
impossibile da pensare come separato; il bambino è parte della madre (considerata
una Madre Buona) e grazie al potere di quest’ultima ottiene un contesto di
protezione e contenimento. Prima di giungere alla sua totalità, l’Io risulta
fortemente influenzato dagli archetipi transpersonali, gli unici a concedergli poi una
propria autonomia e una successiva separazione dall’inconscio. Tuttavia in tale
rapporto originario è anche possibile notare la differenza tra la psicologia femminile
e quella maschile, poiché mentre la bambina femmina trova dinanzi a sé un non-
diverso, al contrario il bambino maschio sperimenta una diversità, che lo porta a
conoscere più a fondo l’opposizione tra i due mondi all’interno del rapporto
instaurato con la madre e al quale deve necessariamente rinunciare per raggiungere
la propria identità maschile. Ciò consente all’uomo di identificare il proprio Io con
la coscienza e con il suo ruolo archetipico maschile. Al contrario, per la bambina
l’identità con la madre può persistere e la sua autoidentificazione primaria può
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coincidere con il rapporto sperimentato con la propria madre, fiorendo e trovando
se stessa senza abbandonare l’uroboro materno, rimanendo tuttavia in una
condizione di immaturità e di autoconservazione che possa permettere una
prossimità col gruppo materno. Ciò non impedisce un’esistenza sana della donna
ma allo stesso tempo non le permette di raggiungere lo sviluppo della coscienza
assumendo così caratteristiche negative frutto del potere fossilizzante
dell’inconscio e quindi terrificante della Grande Madre.
Pertanto, il permanere nella fase dell’autoconservazione presenta anche
conseguenze negative relazionali, sia rispetto alle dinamiche matrimoniali sia
rispetto alla diminuzione di interesse che può emergere nei confronti dei figli.
Inoltre, a tali effetti possono essere sommati quelli appartenenti ad una situazione
masochistica e passiva, ossia ciò che diviene un tratto esemplare della seconda fase
dello sviluppo femminile, chiamata irruzione dell’uroboro patriarcale: si tratta di
uno stadio in cui permane l’influenza della condizione iniziale ma con l’aggiunta
dell’archetipo del Grande Padre, vissuto come sottomesso al mondo matriarcale e
usato come strumento di fertilità, mai riconosciuto nella sua essenza. Tuttavia, pur
essendo considerato tale, possiede una grande potenza, e si affaccia con prepotenza
al cospetto dell’Io-coscienza come indefinito e numinoso (dai numen, divinità
maschili e quindi non personali), sopraffacendolo. Solo con il tempo sarà possibile
verificare un adattamento, permettendo così una crescita e un ampliamento della
coscienza. Da questo uroboro patriarcale il femminile viene penetrato con forze
interne e inconsce e ne è sedotto e portato fuori di sé; questo il motivo per cui il
moto dell’inconscio è sempre creativo: feconda e muta la personalità degli
individui. Dunque, il femminile si sente qui schiacciato e l’unico riscatto è
riscontrabile nell’adesione a ciò che è diverso da sé, a volte rischiando di
identificarsi eccessivamente con la prospettiva prettamente maschile e quindi
comportando un’estrema rinuncia di sé. La liberazione dall’uroboro patriarcale che
il femminile deve affrontare è qualcosa di esterno: in termini mitologici è compito
dell’eroe liberare la vergine dal drago e trasferirla dalle iniziali potenze ai domini
del patriarcato. Un uomo, reale o immaginario, è rappresentativo della luce della
coscienza che distrugge la vecchia prigione inconscia permettendo la liberazione;
un passaggio questo assolutamente necessario per stimolare la lotta tra l’Io e
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l’inconscio, dalla quale può emergere una personalità rafforzata. Allo stesso tempo
se si pensasse a ciò che la cultura patriarcale ha contribuito a generare nella
coscienza occidentale, si potrebbe evitare l’errore di considerare la coscienza
matriarcale come qualcosa di arcaico e il femminile come un aspetto non
sviluppato. Pertanto, nel femminile avviene una rinuncia di sé nel rapporto
originario dalla madre portando alla liberazione grazie all’aiuto dell’eroe, ma porta
anche la donna “a un nuovo pericolo per la sua natura, al pericolo della perdita di
se stessa” (Neumann, 1975, pp. 25). In aggiunta a ciò ritroviamo il possibile legame
tra i due mondi, ossia quello concesso dal matrimonio patriarcale, visto come
soluzione collettiva nella quale maschile e femminile si uniscono in un rapporto di
reciproco sostegno: l’uomo è il cielo e la donna la terra, come accade nel mito. In
questa simbiosi culturale il maschile costringe il polo opposto alla sua unilateralità,
impedendo un rapporto con la componente patriarcale e generando una svalutazione
del femminile. L’unico riscatto la donna lo ritrova nella perdita che prima o poi
l’uomo sperimenta della propria anima: si tratta di una regressione che lo costringe
ad affidarsi alla controparte e a divenire dipendente dalla donna rispetto alla
componente sentimentale. Dall’altro lato il femminile costretto a proiettare
l’Animus sul maschile perde la propria unicità e tende ad identificarsi sempre di più
all’archetipo della madre.
In una situazione così descritta, l’unico mutamento è riscontrabile nei rapporti tra
uomo e donna ma anche nella stessa interiorità psichica, nel momento in cui la
relazione del maschile con la propria componente femminile e del femminile con
l’inconscio maschile, comincia a manifestarsi alla coscienza. Qui ha inizio la
psicologia dell’incontro, l’ultimo stadio dello sviluppo che vede la dedizione e
l’individuazione di sé; si tratta di conflitti interni che abbracciano l’intera
personalità della donna moderna ma che permettono l’incontro delle due strutture
consce ed inconsce nella loro totalità, a cui Jung ha dato il nome di quaternità
archetipica, ossia un rapporto quadruplice tra conscio ed inconscio delle rispettive
parti.
Concludendo, l’individuazione della donna rappresenta la fase più elevata della
piramide e l’incontro con l’uomo le permette di rapportarsi anche con la propria