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INTRODUZIONE
Il termine “dono” è usato spesso con imbarazzo nelle scienze sociali a causa della sua
“opacità” di significato. Si tratta di un concetto ambiguo, spesso associato a sinonimi
che, a ben vedere, si sovrappongono solo parzialmente, come donazione, dote, regalo,
elargizione, elemosina, presente, offerta, sacrificio (Pavanello, 2008).
Questo lavoro ha, perciò, due obiettivi: il primo è quello di fare chiarezza sul significato
sociologico del dono, il secondo è quello di dimostrarne l’applicabilità analitica.
Una delle premesse da cui si è partiti è la distinzione tra una definizione morale di dono
in termini di “altruismo puro”, inteso come atto disinteressato, gratuito, unilaterale,
talvolta persino “sacrificale”, e una definizione sociologica di natura relazionale, in
grado di cogliere i meccanismi di reciprocazione e il ruolo che il dono gioca nella
creazione e nel rafforzamento dei legami sociali.
Non si intende, dunque, fare del dono una “bandiera ideologica” all’interno delle
scienze sociali, né promuovere un’economia alternativa, quanto utilizzare il concetto di
dono come chiave di lettura di determinati processi sociali. Infatti, occorre riscontrare –
senza farsi spaventare dalle implicazioni di valore – che anche nella nostra società,
indicata come capitalistica, individualista e “mercificata”, esistono diversi ambiti della
vita sociale, sia nel “tempo libero” che in quello lavorativo, in cui prevalgono la
relazione rispetto all’interesse materiale, l’impegno “gratuito” e la condivisione rispetto
al guadagno. Osservare questi fenomeni in termini di scambio o unicamente dal lato
degli effetti materiali che producono sarebbe riduttivo:
Il fatto che chi dona dà a chi riceve implica che chi riceve ha valore per
colei/colui che non lascia il suo bisogno senza risposta, non la/lo ignora o non dà
il bene a qualcun altro. Questa implicazione di valore può essere rilevato dal
donatore, dal ricevente o da chiunque osservi e quindi appare non essere una
valutazione soggettiva di nessuno, ma un fatto (Vaughan, 2005).
Ecco perché si è scelto di “mettere alla prova” le teorie del dono, di verificarne la
portata euristica nello specifico caso delle relazioni di aiuto che si instaurano tra
volontari e operatori che operano nei servizi rivolti a persone “senza dimora”. L’ipotesi
teorica è che un’analisi delle relazioni d’aiuto attraverso il “paradigma del dono”
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permetta, innanzitutto, di far emergere aspetti che normalmente restano in secondo
piano, ma che non per questo sono meno rilevanti, e in secondo luogo, di offrire un
punto di vista diverso su caratteristiche note. L’attenzione viene posta non tanto sul
contenuto materiale della relazione, quanto sui “gesti”, sulle dinamiche relazionali che
si sviluppano tra volontari/operatori e utenti.
Parlare di dono non implica, lo ripetiamo, connotare in senso moralmente positivo il
lavoro di volontari e operatori, né applicare una visione “buonista” alla relazione
d’aiuto. Il dono rappresenta qui una strategia interpretativa.
Trattandosi di una ricerca di tipo esplorativo, si è ritenuto opportuno utilizzare una
metodologia di tipo qualitativo, che fosse in grado di cogliere le narrazioni, l’universo
valoriale e le rappresentazioni dei soggetti coinvolti. Sono state, quindi, condotte undici
interviste discorsive alle quali è seguito un focus group, il cui scopo principale è stato
osservare la formazione (o la ridefinizione) delle opinioni in un contesto collettivo,
ridiscutendo anche alcune opinioni emerse durante le interviste.
La tesi si struttura in due parti tra loro distinte ma complementari. La prima parte del
lavoro è dedicata alla presentazione della “sociologia del dono”. Si tratta di un progetto
– forse ambizioso – di sintesi delle principali teorie riguardanti il dono, dai primi studi
antropologici sulle economie arcaiche agli studi moderni sulle “economie del dono”. Il
rischio di un lavoro di questo tipo potrebbe essere quello di cadere in una sorta di
sincretismo teorico, nel quale si mescolano posizioni divergenti e aspetti distinti. La
“strategia” utilizzata per ridurre al minimo questo rischio è stata quella di seguire un
filo conduttore nelle argomentazioni presentate che risponda a un criterio, a nostro
avviso, di coerenza e plausibilità.
Il primo capitolo svolge un ruolo introduttivo al tema, presentando il dibattito teorico
che in questi anni si è articolato intorno al concetto di dono: da chi lo vorrebbe
assimilare al concetto di reciprocità, a chi per varie ragioni ne nega la rilevanza teorica
o la validità euristica, a chi, infine, ha fatto del “paradigma del dono” la propria
missione intellettuale (ovvero i teorici del MAUSS, Mouvement anti-utilitariste dans les
sciences sociales).
Nel secondo capitolo vengono argomentate le implicazioni della triplice obbligazione
maussiana: donare, ricevere, ricambiare
1
. Si cerca di costruire, dunque, una sorta di
modello analitico delle dinamiche di dono, a partire proprio dai tre momenti-azione del
1
Il principale riferimento sono i lavori di Godbout (1993; 1994; 2000), il quale svolge da anni un
inteso lavoro di ricerca empirica e analisi critica della letteratura al fine di dimostrare e
analizzare la presenza del dono nella società moderna.
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dono: perché donare? Quali sono gli effetti del gesto oblativo? Cosa implica per il
ricevente accettare un dono? Perché ricambiare? Quali sono i tempi e le forme che il
controdono può assumere? Quali sono i nessi tra dono e legame sociale?
Si procede, quindi, nel terzo capitolo, ad analizzare i vari aspetti del dono, osservandolo
questa volta dal punto di vista dei rituali. In particolare, vengono presentati alcuni
esempi di ricerche in cui sono stati analizzati i rituali di ospitalità e gli scambi di doni in
occasione di due delle principali celebrazioni collettive e individuali della nostra epoca:
il Natale e il matrimonio. Un piccolo excursus è dedicato al tema del dono come
“questione di genere”, aprendo a spunti di riflessione rispetto ad alcune posizioni
femministe di rivendicazione di una “economia del dono matriarcale”, in opposizione al
“capitalismo patriarcale” (Vaughan, 2005). Il capitolo si chiude, infine, con un accenno
al rituali sacrificali, descritti in termini di “doni verticali” tra l’uomo e la divinità.
Il quarto e ultimo capitolo di natura prettamente teorica espone quella che da molti
viene definita come la forma di dono specifica dell’età moderna: il dono agli estranei. Il
capitolo si apre con la presentazione della celebre ricerca sulle donazioni di sangue
pubblicata da Titmuss nel 1970. Con questo lavoro l’autore intendeva dimostrare che
per il trasferimento di alcuni beni, dal valore simbolico oltre che materiale, il dono –
preferibile anche da un punto di vista etico – presenta una maggiore efficacia ed
efficienza rispetto allo scambio di tipo commerciale. Vengono quindi distinti gli scambi
che avvengono attraverso il mercato, la redistribuzione operata dallo Stato e il dono:
ambiti che spesso si sfiorano, ma che è necessario tenere analiticamente distinti. Il
dono agli estranei implica, spesso, una componente etica e valoriale, riscontrabile
innanzitutto nelle motivazioni dei donatori. Per questa ragione è necessario analizzare
anche la “generosità”, che può essere spontanea come nel caso dell’elemosina o
strutturata come nel caso delle associazioni di volontariato. Da quest’ultimo argomento
emergono numerosi spunti di riflessione che meriterebbero un approfondimento di
natura empirica oltre che teorica, soprattutto a causa delle tante ambiguità che
confondono un approccio antropologico al dono con un approccio morale, quasi
teleologico.
Nella seconda parte della tesi, invece, viene presentato il lavoro empirico svolto,
argomentando i presupposti teorici, le scelte metodologiche e i risultati ottenuti.
Sono state analizzate le relazioni d’aiuto che hanno luogo nell’ambito della lotta
all’esclusione sociale delle persone senza dimora. È stato, in questo lavoro, considerato
un solo polo relazionale, ovvero quello degli operatori sociali e dei volontari che
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operano nei servizi, pubblici e privati, della città di Torino. Da ciò deriva il titolo della
tesi “l’obbligo di donare”, ovvero come nasce e come si definisce il dono per coloro che
offrono/investono il proprio tempo e le proprie risorse personali (intellettive e
affettive) nelle relazioni d’aiuto con il prossimo.
Attraverso il resoconto delle interviste e del focus group, si è cercato di cogliere,
innanzitutto, gli aspetti motivazionali e di definizione di sé dei donatori – l’obbligo di
donare; in secondo luogo, la definizione dell’altro, ovvero le rappresentazioni sociali dei
“poveri” – (portatori dell’) obbligo di ricevere; infine, la percezione della relazione e di
eventuali elementi di reciprocità – l’obbligo di ricambiare.
Il capitolo cinque presenta il disegno della ricerca, delineando il quadro teorico e quello
normativo-istituzionale entro cui si è delineata la domanda cognitiva, nonché la
metodologia utilizzata per porvi risposta.
Il capitolo sei raccoglie le narrazioni emerse dalle interviste, cercando di porre in rilievo
le diverse peculiarità degli enti e dei soggetti coinvolti nell’indagine.
Nel settimo capitolo vengono evidenziate le “cornici” dell’impegno sociale a partire
dall’individuazione degli ambiti di intervento. Elementi entro cui si costituiscono le
relazioni d’aiuto sono inoltre: le specifiche capacità messe in campo dagli operatori e
volontari, ovvero le attitudini indicate dagli intervistati come indispensabili per
addentrarsi in una relazione d’aiuto, nonché la presenza o meno di percorsi formativi
specifici; le rappresentazioni sociali dei “poveri” e della “povertà” di cui i soggetti
coinvolti sono portatori; la presenza o meno di relazioni con l’ente pubblico e con gli
altri organismi che operano nel settore e le forme che tali relazioni assumono.
L’ottavo capitolo è dedicato all’approfondimento del tema dell’accompagnamento
sociale, visto come estremo di un continuum (di progressiva personalizzazione) della
relazione d’aiuto che va dall’elargizione dell’elemosina all’accompagnamento, passando
attraverso la semplice erogazione di servizi.
Infine, nell’ultimo capitolo, si osservano le relazioni d’aiuto esclusivamente dal punto di
vista dello scambio di doni: come viene vissuto e interpretato da operatori e volontari
“l’obbligo di donare”, se percepiscono reciprocità nelle relazioni con gli utenti e quali
forme essa prende. Si delineano qui anche i rischi di un “dono asimmetrico” che crea
dipendenza e rende la relazione “soffocante” per entrambi i partners.
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PARTE I – La sociologia del dono
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CAPITOLO 1. Il dibattito sul dono
All’interno del mondo intellettuale si è aperto da qualche tempo un florido dibattito
riguardo alle tematiche del dono. Le discipline maggiormente coinvolte sono
l’antropologia, la filosofia, l’economia e la sociologia. Per questa ragione, prima di
esplorare il cosiddetto “paradigma del dono”, ci sembra opportuno iniziare questo
lavoro presentando alcune “questioni-chiave” legate al presente dibattito.
Dedicheremo dunque i prossimi alla chiarificazione di alcuni concetti e teorie
strettamente legati al dono. Infatti, “parole come dono, scambio, reciprocità,
condivisione, redistribuzione e solidarietà formano un insieme di elementi spesso mal
definiti, l’uso dei quali varia grandemente da un autore all’altro” (Berthoud, 2004, p.
366).
Inizieremo cercando di dare risposta alla domanda “perché studiare il dono” oggi e
cosa significa descrivere il dono come un “fenomeno sociale totale”.
Successivamente verranno affrontate due correnti che in modo opposto partecipano al
dibattito sul dono: da un lato, la decostruzione del “dono puro” di Jacques Derrida,
dall’altro, la teoria dello scambio sociale. In entrambi i casi il dono sembra destinato a
scomparire, empiricamente in un caso, concettualmente nell’altro. Infatti, se nella
prima prospettiva il dono si rivela come un puro ideale impossibile a realizzarsi, nel
secondo caso esso viene riassorbito in una teoria più generale dello scambio, che ha il
merito di trattare il dono in termini non economicistici, ma trascurandone tuttavia
alcune specificità.
Il quarto paragrafo è dedicato alla definizione del concetto di reciprocità, poiché – salvo
per l’ideale del dono puro – esso si trova alla base di ogni teoria del dono, a
prescindere dall’aspetto che si sceglie di enfatizzare.
Dedicheremo l’ultimo paragrafo, infine, alla presentazione del MAUSS, il Mouvement
Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales, poiché è principalmente agli autori afferenti
a tale movimento che si deve oggi la ripresa della teoria del dono ed è soprattutto a
partire dalle loro pubblicazioni che si basa questo lavoro.
11
1.1 L’universalità del dono
Il Saggio sul dono di Marcel Mauss (2002) inizia con la definizione di dono come
fenomeno sociale totale. L’aggettivo “totale” indica due aspetti fondamentali:
innanzitutto, la possibilità di trovare forme di dono in tutte le società, passate e
presenti, nonché la diffusione del dono all’interno di ciascuna società; in secondo
luogo, il coinvolgimento e la mescolanza di istituzioni religiose, giuridiche, morali ed
economiche all’interno di questo tipo di scambio. Il dono coinvolge tutte le società e
ciascuna società in modo totale.
Tale caratteristica è però resa opaca dal nostro modo di guardare alle società passate: il
dominio mitico dell'economia nel nostro sistema rende poco evidente l'onnipresenza
del dono, allo stesso tempo l'assenza di rapporti mercantili nelle società primitive
fuorvia in certa misura la “logica” del dono, cosicché l’osservatore contemporaneo
tende a dare per scontato che qualcosa della logica mercantile debba manifestarsi
anche negli scambi di doni (Latouche, 2000). Vi sono differenze storiche e culturali
nelle forme che il dono può assumere e non si tratta di pretendere di scovare sempre e
ovunque la stessa cosa, la medesima identità formale della pratica o dei significati, ma
di mettere a fuoco un sistema di trasformazioni del dono che sia intelligibile (Caillé,
2007).
Nella società moderna si tende a considerare il dono (quando lo si considera) come
relegato ai rapporti sociali primari, cioè alla sfera domestica, o privata (Godbout,
2000)
2
. Se un tempo molti dei legami primari, oltre a non essere scelti, erano vincolati
da tutta una serie di obblighi oblativi e non, oggi la scelta di questi obblighi è sempre
più volontaria e meno vincolante nel tempo. Utilizzando la distinzione di Hirschman
(2002) tra le sfere domestica, statale ed economica, rispettivamente caratterizzate
dall’atteggiamento di loyalty (la fedeltà in ogni circostanza), voice (la possibilità di far
sentire la propria voce in caso di disaccordo) e exit (la facilità di allontanarsi in caso di
insoddisfazione), è possibile affermare che oggi l’exit, tipico appunto della sfera
economica, sia entrato a far parte anche della sfera domestica, affiancandosi e a volte
sostituendosi all’atteggiamento di loyalty (Godbout, 2000). Ad esempio, secondo il
senso comune occidentale i matrimoni combinati sono qualcosa di innaturale e
2
L'opposizione tra rapporti sociali primari e secondari è stata introdotta dai sociologi della
Scuola di Chicago per distinguere i legami scelti e voluti di per sé, quindi propriamente affettivi,
dai rapporti considerati come mezzo per raggiungere un fine.
12
crudele: l’unione coniugale non celebra oggi l’alleanza tra tue famiglie, ma l’amore tra
due persone.
Secondo Serge Latouche (2000) si dona per cinque motivi principali: per dovere, per
interesse, per timore, per amore, per pietà. Anche se il più delle volte queste
motivazioni agiscono contemporaneamente, mescolandosi tra loro, si può dire che,
rispetto al dono nelle “società arcaiche”, oggi le motivazioni dell'amore e della pietà
abbiano la meglio sul dovere e sul timore. Gli obblighi parentali, mossi dal senso del
dovere, continuano a esistere come obblighi morali: essi sono meno vincolanti, tuttavia
non completamente privi di sanzione in caso di inadempienza. Le offerte alle divinità,
un tempo mosse principalmente dal timore nei confronti della natura, sono sempre più
di tipo simbolico, al limite del folklore, e relegate a pochi riti. Aumentano invece i doni
spontanei fatti agli amici per dimostrare il proprio affetto e i gesti di solidarietà verso
persone estranee che si considera “meno fortunate”.
Seppur contro-intuitivo rispetto alla visione di senso comune del dono, come atto
unilaterale, benevolo e disinteressato, esiste ed è diffuso anche il dono interessato: ne
è un esempio lo scambio cerimoniale di doni che avviene quando si inizia un
importante scambio commerciale con un Paese straniero, al fine di dimostrare
cordialità e fiducia reciproca. Il considerare questa modalità di dono come una delle
possibili varianti del dono oppure come un’ipocrisia dipende dalla definizione di dono
che si utilizza, se di tipo morale o sociologico.
La definizione sociologica è piuttosto ampia e permette di superare i paradossi del
dono: consideriamo tale infatti “ogni prestazione di beni o servizi effettuati, senza
garanzia di ritorno, allo scopo di creare, intrattenere o rigenerare il legame sociale.
Nella relazione di dono il legame importa più del bene” (Caillé, 2000, p. 124, traduzione
mia). Anche nel dono interessato, infatti, ciò che interessa è il legame che si intende
instaurare o mantenere.
Quello di dono appare dunque come un concetto tanto vasto quanto ambiguo,
comprensibile solo qualora si adotti una “teoria multidimensionale dell’azione”, in
grado di cogliere la pluralità delle motivazioni umane. Secondo Alain Caillé:
L'azione individuale o collettiva si sviluppa secondo quattro mobiles – allo
stesso tempo irriducibili l'uno all'altro in teoria ma sempre legati nella pratica –,
e organizzati in due coppie di opposti: l'obbligo e la libertà da una parte,
l'interesse e il disinteresse dall'altra. Secondo l'uso ed il contesto, ciascuno di
questi termini è suscettibile di ricevere numerose traduzioni (ibidem, pp. 64-65,
13
traduzione e corsivo miei).
Questo schema permette all’autore di costruire un “terzo paradigma” dell’azione
sociale, differente sia dal paradigma olista dello strutturalismo e del funzionalismo, sia
dal paradigma dell’azione. Caratteristica dei primi due paradigmi è di ricadere entrambi
nel riduzionismo: l’individualismo metodologico spiegando la totalità sociale a partire
dal punto di vista dell’individuo e il paradigma olista facendo esattamente l’inverso.
Il paradigma del dono, invece, non pretende di analizzare la creazione del
legame sociale né dal basso (a partire dagli individui separati), né dall'alto (a
partire da una totalità sociale già data), ma in qualche modo dal suo centro
(milieu), orizzontalmente, in funzione dell'insieme delle interrelazioni che
legano gli individui e li trasformano in attori propriamente sociali (ibidem, p. 19,
traduzione mia).
Finora la sociologia, salvo rare eccezioni, non ha mai attribuito al dono lo status di
categoria concettuale basilare per lo studio dei sistemi di azione. Eppure, come
mostreremo, il dono intrattiene una forte corrispondenza semantica con alcuni degli
argomenti fondativi di tale disciplina e segnatamente con i concetti di altruismo, di
solidarietà, di fiducia, di ordine sociale (Lucchini, 2005).
1.2. Il “dono puro” ovvero il dono impossibile
A la limite, le don devrait ne pas apparaître
comme don: ni au donataire, ni au donateur
(Derrida, 1991, p. 26).
In Donner le temps (1991), Jacques Derrida intende decostruire il concetto di “dono”,
così come descritto da Mauss. Egli afferma che il dono è impossibile, anzi, che esso
rappresenta l’impossibile, “la figure même de l’impossible” (ibidem, p. 19). Secondo
l’autore vi sono troppi paradossi insormontabili tra la definizione di dono e la sua
realizzazione fenomenologica.
Innanzitutto il dono deve essere estraneo alla circolazione, che è propria invece
dell’economia:
14
Affinché ci sia dono, non deve esserci reciprocità, ritorno, scambio, contro-dono
né debito. Se l’atro mi rende o mi deve, o mi deve rendere ciò che gli dono, non
ci sarà stato dono, che questa restituzione sia immediata o che si programmi nel
calcolo complessivo di un differimento al lungo termine (ibidem, p. 24,
traduzione mia).
Il dono si annulla ogni volta che c’è restituzione o controdono
3
: se il dono è possibile,
allora esso va inteso come la rottura della circolarità economica e del senso di debito
condiviso. Fintantoché il dono rimane preso nella circolazione degli scambi (dare,
ricevere e ricambiare), esso – sostiene Derrida – non si differenzia sostanzialmente dal
debito.
Non solo, è necessario che il donatario non riconosca il dono come dono, infatti se lo
percepisce come tale, “se gli appare come tale, se il presente gli è presente come
presente, questo semplice riconoscimento è sufficiente per annullare il dono” (ibidem,
p. 26). Questo perché il riconoscimento da parte del donatario funge da “equivalente
simbolico” della cosa donata. È sufficiente che si percepisca il senso o l’intenzione del
dono, affinché esso si annulli come tale. Il termine “riconoscimento” è qui inteso non
solo per indicare la gratitudine con cui il donatario può accogliere il dono, ma il fatto
stesso che egli lo identifichi come dono ricevuto
4
.
Terzo vincolo che rende il dono impossibile è il fatto che anche colui che dona
dovrebbe farlo inconsciamente, senza intenzionalità. Questo è fondamentale affinché il
donatore non si ripaghi di un riconoscimento simbolico, non finisca col felicitarsi e
approvarsi, restituendosi simbolicamente il valore di ciò che ha appena donato, o
meglio che crede di aver donato. Il semplice senso intenzionale del dono gratifica il
donatore, risarcendolo della perdita, e proietta il donatario nel calcolo dei tempi e dei
modi di estinzione del debito.
3
Con questa definizione Derrida entra in aperto contrasto con quella data dalla maggior parte
degli studiosi del dono, da Mauss in poi. Come approfondiremo nel § 2.3.1. Il tempo, il
controdono deve sempre essere differito nel tempo proprio per distinguersi dagli scambi di tipo
economico, nei quali si ha una restituzione immediata. Tale distinzione appare però irrilevante
agli occhi del filosofo, secondo il quale il concetto di debito non può e non deve legarsi a quello
di dono.
4
L’espressione di gratitudine di chi riceve un dono (in questo caso sottoforma di aiuto,
economico oppure “umano”, di conforto) è spesso vissuta come sorta di contro-dono da coloro
che svolgono attività di volontariato (a tale proposito cfr. Godbout, 2000).
15
In tutti questi casi, il dono può certo confermare la sua fenomenicità o, se si
preferisce, la sua apparenza di dono. Ma la sua stessa apparenza, il semplice
fenomeno del dono, lo annulla come dono, trasformando l’apparizione in
fantasma e l’operazione in simulacro (ibidem, p. 27, traduzione mia).
Il piacere del dono è dato principalmente dalla sorpresa: tanto il piacere di essere
sorpresi di chi riceve, quanto il piacere di sorprendere di chi compie il gesto. Tuttavia,
sorprendere l’altro con la propria generosità significa essere in vantaggio su di lui:
accettando il dono egli si trova così esposto, “indebitato”
5
. Tale violenza appare però
come costitutiva del dono, infatti un dono “ragionevole”, misurato e misurabile, che si
dà per scontato, non sarebbe più un dono, poiché mancherebbe dell’elemento di
sorpresa. Dono è ciò che non mi aspetto, ciò che per definizione non posso prevedere e
misurare, ciò che sconvolge i miei schemi e i miei sistemi; il dono deve introdurre un
elemento che non proviene da me, ma che è capace di modificarmi. Tuttavia, secondo
Derrida la sorpresa del “dono puro” dovrebbe avere la generosità di non donare niente
che sorprenda, tale da non apparire come dono a nessuno dei partecipanti all’azione.
Tali “paradossi strutturali” portano l’autore a chiedersi se un dono che procedesse da
un’attitudine originaria a donare sarebbe effettivamente un dono. Egli intende quindi
dissociare il dono dalla generosità, poiché, come detto sopra, non dovrebbe esserci
intenzionalità nel gesto: “Si può donare con generosità, ma non si può donare per
generosità” (ibidem, p. 205).
Il dono (puro), così come definito da Derrida, è dunque impossibile, poiché impossibile
è la gratuità assoluta; esso assume la forma del paradosso: se giunge a manifestarsi
nell’esperienza, si insabbia nel suo contrario (lo scambio), se, invece, non vi accede, ma
si ritira dietro ogni possibilità di apparire, esso si dilegua nella figura dell’impossibile.
Resta ora da decidere se rinunciare completamente al concetto di dono, o scegliere
piuttosto una definizione di “dono impuro”. Derrida stesso afferma che tutte le
antropologie, o metafisiche del dono – “a giusto titolo e con ragione” – hanno sinora
trattato insieme, come un sistema, “il dono e il debito, il dono e il ciclo della
restituzione, il dono e il prestito, il dono e il credito, il dono e il contro-dono” (ibidem,
p. 25), ma afferma anche di volersene separare.
La consapevolezza della complessità filosofica e semantica della nozione di dono
5
Tale argomento verrà approfondito al paragrafo 2.1. L’obbligo di donare: il prestigio, con
riferimento alle differenze di ruolo che inevitabilmente si creano tra colui che prende l’iniziativa
di donare per primo e colui che si trova così in posizione di “debito”.
16
permette all’analisi sociologica di non fermarsi a una mera rilevazione fenomenologica
del dono nelle società. Il concetto di dono non va assunto ingenuamente, va
storicizzato e contestualizzato, esso si costituisce e vive come tale nel cuore
dell'antinomia. La forza del dono sta proprio nelle contraddizioni a cui dà adito e di cui,
in ultima analisi, esso stesso consiste. Lo stesso Mauss articola il proprio Saggio sul
dono su delle coppie di opposti: spontaneità/obbligo di reciprocità, ospitalità/insidia,
generosità/sfida, generatività/perdita, memoria/oblio
6
.
1.3. Dono e scambio sociale
É impossibile tracciare una linea precisa tra il
commercio da una parte e lo scambio di doni
dall'altra (Malinowski, 1922, p. 176).
La teoria tradizionale dello scambio non pone alcuna distinzione tra gli oggetti dello
scambio economico e gli oggetti dello scambio sociale e considera equivalenti e quindi
interscambiabile beni materiali e beni non materiali, come l’approvazione e la
considerazione sociale (La Valle, 2001). Essi ritengono, inoltre, “insensato pensare il
dono come un comportamento disinteressato, fine a se stesso. L’agire sociale è sempre
condizionato dall’utilità personale, ossia dagli stati di soddisfazione che ne ricavano i
soggetti razionali impegnati nelle pratiche di scambio” (Lucchini, 2005, pp. 11-12).
Davide La Valle (2001) critica quest’impostazione, sottolineando che nel mescolare
valori economici e valori sociali all'interno di un unico modello analitico si perde la
capacità esplicativa specifica dell’analisi sociale. Egli propone, quindi, una teoria dello
scambio sociale che sia in grado di non trascurare la dimensione simbolica dello
scambio stesso
7
. Infatti, le norme del sistema sociale, come ad esempio le norme della
generosità, hanno importanza (anche) perché producono comportamenti il cui valore è
6
Tali antinomie verranno esposte e analizzate nel corso del testo.
7
Tale intento sembra condividere la critica degli autori del MAUSS ad una concezione
economicistica del dono, determinata dal monopolio del modello utilitarista all’interno delle
scienze sociali. Resta però vero che l’approccio di La Valle si basa sul’ipotesi di comportamento
razionale (da lui giustificato dal proposito di creare una teoria in grado di dare origine a
spiegazioni generalizzabili). Si tratta quindi più di un “aggiustamento” al modello economico
(come ad esempio la “teoria della razionalità limitata”), che non un’alternativa ad esso.
17
espressivo, esprimono cioè standard culturali che confermano e sostengono il sistema
di significati interiorizzati dall'individuo. “La considerazione è data in cambio non del
bene economico, ma dei valori sociali erogati dall'altro nella relazione” (ibidem, p. 29).
Alla pari dei teorici del dono, La Valle sottolinea come il gesto generoso abbia il potere
di creare legame sociale, l'esatto opposto di ciò che invece avviene attraverso lo
scambio economico, nel quale la restituzione equivalente e immediata (o comunque
garantita) libera dal rapporto.
Secondo questo autore, seppure è vero che l'attore condiziona il suo comportamento
nell'attesa di un compenso in considerazione, in assenza del quale tendenzialmente
modifica la sua condotta, è altrettanto vero la logica formale dello scambio qui attiva va
distinta da quella economica poiché è mantenuto il valore sociale di tale
comportamento.
L'attesa che l'altro riconosca e ricambi il valore sociale dei nostri comportamenti
è il fondamento, non la negazione, della vita sociale. Il comportamento
generoso di chi sa che questo suo gesto verrà riconosciuto dalla stima dell'amico
cui è diretto non perde il suo valore sociale in virtù di questa aspettativa
(ibidem, p. 33).
Nei sistemi d'interazione l'erogazione di comportamenti espressivi di standard
interiorizzati è spesso legata ad aspettative di riconoscimento. Seppure tale attesa
costituisca un potente incentivo all'erogazione dei valori sociali, ciò tuttavia non
significa che tutto l'agire sociale sia riducibile allo scambio; non bisogna dimenticare
l’importanza della “motivazione intrinseca” ad agire (Frey, 2005). Se da un punto di
vista analitico, in astratto, si può pressoché sempre parlare della scelta come di un
calcolo economico, è importante ricordare che gli attori spesso scelgono ponendo in
primo piano altre considerazioni, di natura sociale e morale, come ad esempio la
soddisfazione intrinseca che si ottiene dallo svolgere una determinata attività che
appaghi i nostri valori interiorizzati. Spesso, comunque, motivazioni intrinseche e
motivazioni estrinseche agiscono contemporaneamente (ibidem).
La considerazione premia comportamenti dell’altro in cui si esprimono modelli culturali,
è in particolare modelli di valore, condivisi. Essa è simile al denaro non perché serve a
ottenere in cambio “servizi” e “attività” dagli altri, ma solo in quanto “mezzo
generalizzato in grado di facilitare lo scambio”. “Generalizzato” nel senso che
ricompensa non un valore o alcuni valori sociali particolari, ma l'insieme dei valori
18
sociali. Offriamo stima in cambio di comportamenti che realizzano i criteri di valore nei
quali crediamo.
Mentre con il denaro si scambiano beni d’utilità, con la considerazione si scambiano
“beni dal valore intrinseco”, ovvero quei beni che sono necessari per sostenere il
sistema di significati e di valori interiorizzati dall’individuo, che La Valle (2001) definisce
“beni d’identità”. Sia il denaro che la considerazione non hanno dunque valore in sé
(valore intrinseco), ma solo valore di scambio, se accolti dagli altri. Essi svolgono la
funzione di misura del valore.
La considerazione guadagnata rappresenta una sorta di “capitale sociale”
8
: è la riserva
di prestigio cui un individuo può fare affidamento per esercitare la propria influenza.
Un individuo generoso accumula un certo prestigio sociale, che diventa “spendibile”
nelle diverse interazioni sociali
9
.
Se nel parallelo tra scambio economico e scambio sociale la considerazione è
l’equivalente del denaro, le aspettative sono invece il corrispettivo della “domanda” di
beni (ibidem). Per la solidità del nostro mondo interiore noi abbiamo bisogno di avere a
disposizione relazioni sociali al cui interno gli altri rispettino i nostri valori
10
. E’
importante inoltre ricordare che, seppur condivisi, i valori spesso hanno peso (e
“prezzo”), diverso per gli individui, per cui il prestigio conquistato all’interno di un
gruppo può non trovare riscontro in altri contesti sociali.
Lo scambio sociale si basa sulla fiducia, ma essa è di natura differente rispetto a quella
implicita allo scambio di tipo economico: nel primo caso è relativa al partner di quello
scambio, nel secondo è istituzionalmente fondata, garantita cioè da un apparato di
istituzioni. Da un lato la fiducia è di natura personale, dall’altro è riposta nella capacità
di circolare del denaro. La Valle sottolinea qui quella caratteristica di non-specificità che
accomuna lo scambio sociale alla reciprocità generalizzata e al dono: “il riconoscimento
di considerazione genera delle aspettative circa una restituzione la cui natura e il cui
esatto ammontare non sono contratti in anticipo dalle parti” (ibidem, p. 73).
Il nostro autore parla quindi di una sorta di “mano invisibile dei sentimenti”:
8
Il capitale sociale costituisce, in prima istanza, il patrimonio di relazioni di cui dispone una
persona e che questa può dunque impiegare per i suoi scopi. Pizzorno (2001, pp. 27-30)
distingue capitale sociale di solidarietà, che “si basa su quel tipo di relazioni sociali che sorgono,
o vengono sostenute, grazie a gruppi coesi i cui membri sono legati l’uno all’altro in maniera
forte e duratura” e capitale sociale di reciprocità, per il quale sono sufficienti relazioni “deboli”.
9
Sul legame tra generosità, prestigio e potere sociale si veda § 2.1. L’obbligo di donare: il
prestigio.
10
Il riferimento è qui alla teoria di George H. Mead, secondo il quale il Sé è costituito dalle
interazioni sociali. Cfr. Mead, 1966.