PARTE I: Cenni storici
Capitolo 1
BREVE STORIA DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA
L’emigrazione ha avuto ritmi ed intensità diverse nel corso dei secoli, a
seconda delle diverse aree di destinazione e dei differenti Paesi di provenienza
(Pacini 1987, p. 90). In particolare, in questo elaborato analizzerò il fenomeno
migratorio italiano tra Ottocento e Novecento, che è stato di enorme portata e
riguardò indistintamente nord e sud della Penisola.
Le ragioni che spinsero all’estero i nostri connazionali in quel periodo
furono prevalentemente di natura economica e si calcola che dall’Italia, tra il 1876
e il 1976, siano espatriate 25.800.000 persone (Turchetta 2005, p. 4).
Generalmente si parla di emigrazione italiana facendo riferimento ai flussi
migratori compresi nei cento anni che vanno dagli anni ’70 dell’Ottocento agli
anni ’70 del Novecento, ma questo non significa che l’emigrazione nella Penisola
non fosse presente anche prima di tale periodo: già il censimento ufficiale del
1871, infatti, documentò l'esistenza di comunità di emigrati italiani all’estero in
quantità ingenti; tuttavia non esistono dati veramente certi sul fenomeno
migratorio che ci descrivano la situazione prima del 1876, anno in cui fu
pubblicato il primo censimento ufficiale sull’emigrazione curato dalla Direzione
Generale di Statistica (Golini, Amato 2001, p. 49).
Per ripercorrere la storia dell’emigrazione italiana, alcuni studiosi hanno
individuato quattro fasi principali, ognuna con caratteristiche economiche,
demografiche e sociali proprie:
- prima fase: dal 1876 al 1900;
- seconda fase: dai primi del 900 alla Prima Guerra Mondiale;
- terza fase: il periodo tra le due Guerre;
- quarta fase: dal secondo dopoguerra alla fine degli anni ‘70;
(Golini, Amato 2001, p. 48).
Nel primo periodo si sviluppò un’emigrazione di tipo transoceanico a
causa dell’ingente offerta di lavoro presente nel mercato del Nord America, dove
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gli emigranti della Penisola italiana si insediarono nei quartieri più poveri delle
grandi metropoli, come New York, Chicago, Philadelphia, ecc.
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L’emigrazione
italiana verso gli Stati Uniti, infatti, ha sempre presentato un carattere di spiccata
urbanizzazione, e come nota Machetti,
il fatto che questa abbia per lungo tempo equivalso allo stabilirsi a
New York e nelle altre città della costa atlantica settentrionale non è casuale,
ma è scelta di certo forzata dalle precarie condizioni economiche dei neo
arrivati, che non permettevano ulteriori spostamenti all’indomani dell’arrivo
negli USA, come anche dalla volontà degli emigrati di non vivere in luoghi
isolati. (Machetti 2011, pp. 392-392).
L’emigrazione verso gli Stati Uniti esisteva già da tempo, ma dagli anni
‘70 dell’Ottocento, l’american dream fu costantemente pubblicizzato ed esaltato
sui giornali italiani attraverso lettere (spesso false) degli emigrati, tanto da
intensificare sempre più le partenze verso l’America e rendere, così, i prezzi della
traversata dell’Atlantico più vantaggiosi rispetto anche a quelli di un viaggio in
treno verso il Nord Europa. Già dal XVIII secolo, infatti, aveva cominciato a
diffondersi nei paesi europei la convinzione che in America si potesse «trovare
l’affrancamento dalla miseria e dall’indulgenza» (Pacini 1987, p. 91) e l’utopia
che oltreoceano si potessero trovare terre da coltivare senza sottostare ad un
padrone.
Gli stati che richiamavano la manodopera italiana, ad ogni modo, non
erano solo quelli nordamericani, classicamente associati all’emigrazione italiana,
ma anche quelli in via di sviluppo dell’America Latina, come Argentina, Brasile,
Venezuela, Cile, Messico e Costa Rica, dove gli italiani si trasferivano cercando
un clima e un ambiente simile a quello appena lasciato (Gastaldo 1987, p. 152).
In queste terre gli emigrati italiani tendenzialmente si inserivano nel
settore dell’agricoltura, come accadde per esempio nelle fazendas
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brasiliane;
addirittura, nel caso del Brasile, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888, fu il
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Per ulteriori approfondimenti sulle principali comunità italo-americane, si veda lo studio di
Gastaldo (1987).
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Piantagioni di caffè.
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governo locale stesso, alla ricerca di manodopera, ad incoraggiare l’immigrazione:
come osserva Bonuccelli, «fino al 1902 il viaggio era offerto dal governo, in cerca
di manodopera» (Bonuccelli 2002).
In questa fase dell’emigrazione non vi fu alcun tipo di legislazione che
ostacolasse in qualche modo la partenza degli italiani
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, né vi furono leggi che
vigilassero o tutelassero gli emigranti, favorendo di fatto l’emigrazione
indipendente e spesso clandestina. Tuttavia, come osserva Ostuni,
alla mancanza di una qualsiasi assistenza da parte di vari governi
italiani, supplirono, negli ultimi due decenni dell’Ottocento, alcune
istituzioni private: la Congregazione dei missionari scalabriniani, fondata
per assisterli [gli emigrati] in Europa, nelle Americhe e in Australia, l’Opera
Bonomelli, anch’essa cattolica, attiva in Europa e nel Mediterraneo, e la
Società Umanitaria, d’ispirazione laica e riformista. (Ostuni 2000)
Coloro che emigravano in questi anni provenivano maggiormente dalle
regioni del nord Italia, in particolare da Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte:
le regioni settentrionali, infatti, erano già ben collegate con i porti americani
attraverso quello di Genova. Nelle regioni meridionali italiane, meno densamente
popolate, invece, inizialmente il fenomeno fu irrilevante a causa dell’isolamento e
della scarsezza di mezzi di trasporto e di vie comunicazione.
In pochi anni, tuttavia, la situazione si rovesciò per l'intenso ritmo di
crescita demografica e per la difficile situazione finanziaria dovuta alla grande
depressione economica del tempo, particolarmente acuta nel sud Italia. Come
osserva Petroni,
un aspetto basilare della grande depressione economica di quegli
anni fu proprio la crisi agraria, determinata dalla concorrenza dei prodotti
agricoli provenienti dall’America, dalla Russia o dall’Australia, paesi questi
dove l’agricoltura era praticata con tecniche avanzate. Se la diminuzione dei
prezzi ebbe un effetto benefico sulle masse popolari cittadine danneggiò
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Ricordiamo la normativa di Crispi del 1888 che, anzi, sancì il principio della libertà di emigrare.
Tuttavia questa legge regolava solo il trasporto e non l’assistenza all’emigrato prima e dopo lo
sbarco (Golini, Amato 2001, p. 49).
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invece le aziende agricole; le misure protezionistiche, adottate in seguito dai
governi, risollevarono solo parzialmente questa situazione […] ciò causò una
forte povertà nelle campagne, tensioni sociali e di conseguenza una grande
emigrazione. (Petroni 2011)
Così, verso la fine dell’Ottocento, il numero di emigranti provenienti dal
nord Italia cominciò a diminuire, mentre crebbe quello degli italiani che partivano
dall’Italia centrale e meridionale, in particolare da Sicilia, Campania, Calabria e
Molise.
Successivamente, tra il 1900 e il 1914, iniziò un periodo di emigrazione
più “disciplinata”, in quanto nel 1901 venne istituita una legge che tutelava dagli
speculatori coloro che volevano emigrare, ed inoltre si cominciarono a
regolamentare le condizioni per l’espatrio grazie dalla sorveglianza di un nuovo
ente specifico, il Commissariato Generale dell’Emigrazione (Ostuni 2000).
La meta privilegiata dagli emigranti del Meridione era l’America del Nord.
L'emigrazione dal Settentrione, invece, era caratterizzata dalla presenza di
individui tendenzialmente più qualificati e quindi fu, generalmente, temporanea e
più indirizzata verso Paesi europei, con Svizzera, Germania, Austria e Francia
come luoghi d’emigrazione preferiti dagli italiani (Ostuni 2001).
Ad ogni modo, perlomeno per quanto riguarda l’emigrazione oltreoceano,
il monopolio spettava agli Stati Uniti, dove i flussi di emigranti italiani
diventarono, col tempo, sempre più numerosi rispetto a quelli diretti in Argentina
e in Brasile. Il mercato nordamericano, infatti, offriva possibilità di guadagni più
elevati e più immediati, grazie alle sue grandi industrie emergenti: si trattava di un
paese fortemente urbanizzato, dove gli immigrati venivano indirizzati verso
attività lavorative generalmente dequalificate all’interno di fabbriche, miniere e
industrie oppure si occupavano della costruzione di strade e ferrovie. Ostuni,
inoltre, osserva che
a segnare la scelta tra le due Americhe fu il possesso o no di denaro
da investire nell'espatrio. Costava di più raggiungere l'America Latina in cui
le prospettive economiche erano migliori, i problemi di lingua superabili e le
differenze culturali minori. Invece, il biglietto per gli Stati Uniti costava di
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meno ed era facile, in un paese in grande sviluppo, trovare lavoro, sia pure
poco o nulla qualificato, in agricoltura o in imprese industriali. Inoltre
l'impiegarsi nella costruzione delle infrastrutture permetteva un ritmo
stagionale tale da consentire, volendo, periodici ritorni a casa. (Ostuni 2002)
Il tipico emigrante italiano di questo periodo, desideroso di migliorare la
propria posizione economica e sociale, partiva in catene migratorie famigliari, di
mestiere o di paese, ed era generalmente di sesso maschile, di giovane età (tra i
dieci e i trent’anni) ed analfabeta o con scarsa educazione scolastica (Golini,
Amato 2001, p. 49). Come osserva De Mauro,
che gli emigranti italiani, specialmente in senso all’emigrazione
oceanica, fossero in grande prevalenza analfabeti (e quindi dialettofoni),
risulta anche dai dati relativi all’emigrazione in arrivo negli Stati Uniti […]
[e] il linguaggio degli immigrati italiani in America [era] come un
compromesso tra lo slang degli indigeni e i vari dialetti della Penisola.
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(De
Mauro 1963, pp. 55-56)
Inoltre, Ostuni scrive che
l’apprendimento della lingua era particolarmente ostico per
persone che avevano difficoltà anche con la propria lingua. L’appoggio
ricevuto dalla ‘catena migratoria’, col passare del tempo, diventava un
fattore di ritardo in vista di un buon inserimento nella vita economica,
sociale e culturale del nuovo paese se ci si limitava a vivere nelle ‘Little
Italy’. (Ostuni 2006, p. 33)
Generalmente si emigrava dalle comunità agrarie, sebbene non fossero
solo i contadini e gli agricoltori a partire, ma anche artigiani ed operai in cerca di
condizioni lavorative migliori: una volta che l’emigrato era riuscito a guadagnare
certe somme di denaro, infatti, queste venivano inviate alla famiglia lasciata in
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Integro tra parentesi quadre gli elementi necessari alla sintassi; sempre tra parentesi quadre
segnalo con tre punti le mie omissione del testo originale.
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Italia, creando un flusso di “rimesse” importantissimo per l’economia italiana del
tempo (Cecchetti s.d.).
Per quanto riguarda l’emigrazione nel periodo tra le due Guerre, essa è
caratterizzata da un andamento decrescente. Ciò è dovuto sia alla grande crisi
economica del periodo, sia alle restrizioni legislative imposte da alcuni stati in cui
si emigrava maggiormente: in particolare, negli Stati Uniti, furono introdotti il
Literacy Test Act nel 1917 ed il Quota Act nel 1921 e 1924, che rallentarono
decisamente i flussi migratori. Il Literacy Test Act è, infatti, un documento che
stabiliva che non sarebbero stati accettati sul territorio statunitense gli stranieri
che, al di sopra dei sedici anni, non avessero dimostrato di saper leggere e scrivere
in inglese o in altra lingua o dialetto. Il Quota Act è, invece, un documento con il
quale si stabiliva una quota di ingresso di nuovi immigrati pari al 3% degli
appartenenti alla stessa nazionalità presenti nel territorio statunitense (Turchetta,
p. 4).
Come possiamo dedurre, quindi, gran parte degli italiani che aveva
intenzione di emigrare fu costretta a rimanere in patria. In più, in quel periodo, in
Italia imperava una forte politica anti-migratoria ad opera del regime fascista, che
voleva evitare la perdita di giovani impiegabili per scopi militari (Golini, Amato
2001, p. 52).
Nell’ultima fase del fenomeno migratorio italiano, quella del secondo
dopoguerra, mutano i numeri degli italiani che si trasferiscono all’estero rispetto
ai primi anni del 1900, e sono diverse anche le destinazioni scelte dagli emigrati.
Il boom economico italiano di quegli anni, infatti, attivò un processo di
esodo dalle campagne verso le città e le regioni più industrializzate, creando alti
livelli di disoccupazione ed eccessi di manodopera, i quali vennero assimilati dai
Paesi dell’Europa nord-occidentale e d’oltremare. Oltre agli Stati Uniti, ci si
dirigeva prevalentemente in Germania, Svizzera, Francia e Belgio, protagoniste
anch’esse di un’importante espansione industriale, oppure verso nuove mete di
emigrazione, come Canada, Australia e Sud Africa (Ostuni 2000).
Nonostante questi notevoli flussi migratori, degli oltre 25.000.000 italiani
emigrati tra il 1876 e il 1976 appena 7.000.000 circa possono considerarsi
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espatriati in maniera definitiva; il resto si limitò a un soggiorno variabilmente
lungo all’estero prima di un ritorno definitivo in patria (Turchetta 2005, p. 5).
Oggi il “grande esodo” si può dire che sia terminato, ma gli italiani che
continuano a trasferirsi all’estero per lavorare o studiare sono comunque ancora
moltissimi. Ciò che è cambiato rispetto alle grandi migrazioni di Ottocento e
Novecento è la qualifica professionale degli emigranti:
le opportunità lavorative costituiscono ancor oggi il fattore di
maggiore attrattività per la nostra emigrazione verso gli USA; tuttavia, negli
anni a noi più vicini, tale fattore risulta sempre più affiancato da quello
costituito dalle opportunità di studio, che riguardano essenzialmente l’ambito
universitario e la ricerca. (Marchetti 2011, p. 394).
Coloro che partono, quindi, non sono più i braccianti e i contadini, ma
sono i cosiddetti “cervelli in fuga”, ovvero laureati, tecnici, ricercatori e
professionisti specializzati che si dirigono all’estero trovando impieghi con
retribuzioni, prospettive di ricerca e sbocchi professionali più adeguati al tipo di
studi rispetto a ciò che viene offerto in patria
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Per uno studio più dettagliato sulla storia dell’emigrazione italiana, si veda l’opera a cura di
Bevilacqua, De Clementi e Franzina (2001).
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