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blocchi di potenze, intenti a modificarne lo status-quo sancito con la
Triplice Alleanza del 1882 (Germania, Italia ed Austria-Ungheria) e con
l’accordo di Racconigi stipulato tra Italia e Russia nell’ottobre del 1909.
Indubbiamente, ogni singolo Stato – Francia e Italia comprese -
aveva il proprio obiettivo, il proprio interesse da difendere: si trattava però
di obiettivi non in grado di ottenere quella mobilitazione di massa
indispensabile quando ci si accinge ad affrontare una guerra. Occorreva
pertanto nobilitare tali obiettivi: fu così che la guerra venne presentata
come un contrasto tra due blocchi (le potenze dell’Intesa da un lato e gli
Imperi Centrali dall’altro) che volevano due cose diverse sul piano ideale,
ovvero come una guerra del bene contro il male, della democrazia contro
l’autocrazia, tra la giustizia e la negazione della giustizia. Si cercò in tal
modo di dare una giustificazione etica ad un conflitto che aveva ben poco
di etico, e che era nato soprattutto per contrasti di interessi particolari.
Tale risultato fu raggiunto grazie alla creazione di appositi uffici che
si occupavano della propaganda, uno strumento al quale fecero ricorso sia
Roma che Parigi: l’Italia se ne servì per giustificare le sue rivendicazioni
territoriali, giocando a tal fine la carta del nazionalismo per combattere il
6
suo avversario tradizionale, l’Austria; allo stesso modo, in Francia,
nell’ultimo anno di guerra, ne fece un largo uso la dittatura “giacobina”
instaurata dal governo di unione nazionale di Georges Clemençeau.
Nell’uno come nell’altro caso, tutti i mezzi - compresa la censura e la
sorveglianza sui cittadini sospetti di “disfattismo” - furono usati per
combattere i “nemici interni” e per mobilitare la popolazione verso
l’obiettivo della vittoria.
Ma qual’era la situazione di Italia e Francia alle soglie di tale
conflitto?
L’Italia era, fra tutte, la potenza che si trovava nella situazione di
maggior dubbio ed imbarazzo: essa era legata ai trattati della Triplice
Alleanza (quindi agli Imperi Centrali) sottoscritti nel 1882 e rinnovati ogni
5 anni fino al 1912, ma dato che il sistema della Triplice non costituiva una
adesione esclusiva, aveva contestualmente sottoscritto accordi anche con
altre potenze (Gran Bretagna, Russia e Francia).
Punti cardine della Triplice Alleanza erano gli accordi presi da Italia
e Austria e sanciti nell’art.7: Vienna e Roma si erano impegnate a
mantenere lo status-quo nei Balcani.
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Nel primo rinnovo della Triplice (1887), Italia e Austria aggiunsero
un ulteriore impegno: la previa consultazione reciproca, qualora uno dei
due Paesi avesse inteso modificare tale status-quo, stabilendo che se
l’equilibrio si fosse rotto a vantaggio di una delle due potenze, sarebbe
stato bilanciato da adeguati compensi territoriali per l’altra.
Tutti questi impegni però, vennero disattesi.
Infatti, con la dichiarazione di guerra alla Serbia, la duplice
monarchia austro-ungarica si apprestava ad includere l’elemento slavo,
divenendo così una triplice monarchia: il tutto avveniva con l’avallo di
Berlino. Alla lunga, ciò avrebbe spinto l’Italia verso le potenze dell’Intesa e
quindi verso la Francia.
Il trattato della Triplice Alleanza aveva carattere puramente
difensivo, prevedeva cioè che l’alleanza doveva scattare solo nel momento
in cui uno dei tre firmatari fosse stato attaccato: in seguito all'attentato di
Sarajevo, era stata l’Austria a dichiarare guerra alla Serbia, quindi
tecnicamente l’alleanza italo-austriaca non aveva motivo di scattare. Il
problema quindi non era di interpretazione degli accordi, ma di politica
generale.
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Il conflitto, divenuto ormai generale, costituiva per l’Italia
l’occasione in cui giocarsi il tutto per tutto, l’occasione per far venire al
pettine il nodo fondamentale della politica estera italiana: il problema delle
terre irredente. Tutto questo spiega l’iniziale atteggiamento del governo
italiano, così conflittuale ed indeciso, e accuratamente descritto in un lungo
telegramma che il ministro degli Esteri, Di Sangiuliano, inviò
all’ambasciatore a Londra , Imperiali, l’11 agosto 1914 (noto agli storici
come “il telegrammone”)
1
:
“il governo italiano per lealtà verso Austria e Germania
desidera vivamente di mantenere scrupolosa ed imparziale neutralità, ma
in vista dei pericoli che possono derivare all’Italia da un mutato assetto
dell’equilibrio territoriale nella penisola balcanica, nell’Adriatico, nel
Mediterraneo ed in genere in Europa, e dei pericoli non meno gravi che
possono derivare dal profondo risentimento destato in Austria e Germania
specialmente nei circoli militaristi, dalla sua neutralità, ritiene possibile
che debba decidersi a partecipare alla guerra a fianco di Inghilterra,
Russia e Francia. Esso però, per ragioni economiche che profondamente
1
Di Sangiuliano ad Imperiali, 11 agosto 1914, DDI, serie 5^, vol. 1, d. 201
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influiscono sulla situazione politica interna e sulla preparazione materiale
e morale del popolo italiano ai sacrifici ed ai rischi d’una grande guerra,
non può neanche prendere in esame tale possibilità senza che le siano date
tutta una serie di garanzie……”.
Quanto alla Francia, la sua situazione era assai più netta e
definita di quella italiana. In un colloquio con l’ambasciatore italiano a
Parigi, Tittoni, il Presidente della Repubblica francese, Poincaré ebbe a
dire:
“L’aggressione austriaca alla Serbia è un’azione meditata; la
Francia non voleva la guerra, ma l’aveva dovuta subire. Ora che è
scoppiata, Francia, Inghilterra e Russia sono decise ad andare fino in
fondo, finché l’Europa non sarà liberata dall’incubo della prepotenza
germanica. L’Europa sarà costituita su nuove basi, e l’Italia dovrà avere il
posto che le spetta. Benché tra Francia ed Austria vi sia stata solo rottura
delle relazioni diplomatiche e non dichiarazione di guerra, esse devono
considerarsi virtualmente in stato di guerra. Non v’è alcun dubbio sulla
vittoria finale della Francia, il cui tesoro di guerra è inesauribile”.
2
2
Tittoni a Di Sangiuliano, 12 agosto 1914, DDI, serie 5^, vol.1, d.221
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Chiunque studi lo sforzo bellico compiuto dalla Francia tra il 1914 e
il 1918 non può non sentirsi riempire di ammirazione. Nonostante i gravi
handicap – crisi demografica e inadeguata preparazione militare; il paese
che era ancora esausto per la tensione e le lotte dell’affare Dreyfus e per le
agitazioni sociali pre-belliche – il popolo francese si strinse compatto
contro l’invasione, il disastro e la guerra totale, mostrando grande coraggio
e una sorprendente solidarietà. “La patria in pericolo” esercitò ancora il suo
fascino, e la solidarietà nazionale si dimostrò superiore allo spirito di
parte.
3
Ovviamente, anche la Francia aveva i suoi interessi reconditi. Essa
infatti, non aveva mai dimenticato la guerra del 1870 contro la Prussia: la
disfatta di Sedan (Champagne), l’invasione del Paese, la caduta di Parigi e
la perdita dell’Alsazia Lorena, rappresentarono per la Francia molto più che
una semplice sconfitta militare. Si trattò di una vera e propria umiliazione
nazionale, sentita profondamente anche dagli strati popolari. Il desiderio di
riparare a questa umiliazione avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo
la politica francese e l’intero equilibrio europeo, nonché ovviamente, la sua
decisione di entrare in guerra.
3
David Thomson, Storia della Francia Moderna, cit., p.198
11
La Francia – specie la parte settentrionale – fu devastata da
cinquantadue mesi di guerra ininterrotta; miniere, fabbriche e città furono
ridotte a rovine. Le spese dirette del conflitto furono valutate a circa 151
miliardi di franchi, e la nazione perdette quasi un milione e mezzo di
uomini.
4
In breve, tutti i problemi pre-bellici della Francia – quello industriale
e quello demografico – risultarono aggravati e nessuno ebbe una soluzione.
Eppure, sarebbe valsa ancora la pena di affrontare queste perdite ed il
conseguente esaurimento, se si fosse ottenuta una cosa: l’assoluta sicurezza
nazionale, l’assoluta garanzia che la Francia, in avvenire, non avrebbe più
corso il rischio di tali calamità.
Tutta la politica francese post-bellica mirò inevitabilmente ad
ottenere ciò, non meno che a riparare sollecitamente le distruzioni che le
erano derivate dall’essere stata in occidente il principale campo di battaglia.
In queste pagine ci si occuperà di quelli che furono i rapporti
politico-diplomatici tra Italia e Francia soprattutto dal Patto di Londra (26
aprile 1915) in poi, inquadrandoli nel complesso dei rapporti intercorsi tra
le capitali dell’Intesa: l’obiettivo è quello di capire se, ed in quale misura,
4
Ibidem
12
l’alleanza tra i due paesi risultò efficace. La ricerca può essere virtualmente
divisa in due parti: la prima, incentrata sulle polemiche che Parigi rivolgeva
verso Roma riguardo alla mancata dichiarazione di guerra alla Germania; la
seconda invece, ruota intorno agli affannosi tentativi dell'Italia di affermare
il proprio status, alla pari con gli altri partners dell’alleanza: non va
dimenticato che, seppur alleate, Roma e Parigi erano per motivi vari, in
continuo antagonismo. Sovente infatti, si rese necessario l’intervento della
Gran Bretagna a fare da “arbitro” nelle frequenti controversie tra Italia e
Francia.
In questa seconda parte, ebbe un ruolo chiave il ministro degli Esteri
italiano, Sonnino: egli fu il centro propulsore di tutta la strategia
internazionale italiana che, tra contrasti e mediazioni, riuscì a
ricongiungersi con quella delle altre capitali dell’Intesa. Sonnino fu senza
dubbio “l’uomo degli alleati all’interno del governo italiano”: a Parigi si
vedeva in lui la garanzia di una politica estera stabile e, soprattutto, priva di
tentazioni pacifiste o peggio ancora filo-tedesche.
5
5
L. Riccardi, Alleati non Amici, cit., p.15
13
Fondamentale fu anche l’opera di mediazione svolta dai tre
ambasciatori succedutisi a Parigi durante il periodo in esame.
Tommaso Tittoni (rimasto a Parigi sino al novembre 1916) fu dei tre
quello che forse dovette affrontare il periodo più difficile: gestire a Parigi la
questione della neutralità italiana, le rivendicazioni territoriali italiane, la
mancata dichiarazione di guerra alla Germania e le questioni coloniali, non
fu certo facile. Egli riteneva che un ambasciatore come lui, presso una
Potenza belligerante, non poteva dare al suo Ministro utilissime ed
importantissime informazioni, poiché non poteva formarsi quel criterio
esatto che il Ministro, il quale raccoglie tutte le informazioni, solo può
avere per una decisione sulla quale anche la situazione interna del paese
deve influire.
6
Sovente quindi, preferì astenersi dal manifestare, circa la
partecipazione italiana alla guerra, un pensiero reciso. Proveniente da
ambienti romani con tendenze clericali era, da sempre, un avversario della
politica di Sonnino: la sua estrazione giolittiana, ne faceva un deciso
avversore dell’ingresso in guerra dell’Italia.
6
Tittoni a Sonnino, 18 febbraio 1915, DDI, serie 5^, vol.2, d.822
14
Le sue dimissioni capitarono proprio nel momento chiave delle
trattative italiane circa l’Asia Minore (cap.3, par.1).
Salvago Raggi (a Parigi dal novembre 1916 al novembre 1917)
invece, fu colui che si occupò di mediare le richieste italiane in Asia
Minore e soprattutto di gestire le critiche che da Parigi vennero rivolte
all’Italia in seguito alla disfatta di Caporetto.
Lelio Bonin Longare infine, già ambasciatore a Madrid, si insediò a
Parigi l’8 novembre 1917, quando la Quadruplice Intesa era tutta
impegnata nella creazione di un fronte unico contro la Germania.
Al di là delle Alpi, Sonnino trovò il suo miglior interlocutore nel
presidente del Consiglio francese, Briand: il suo fu un vero e proprio regno,
nel corso del quale, la politica estera francese si andò a collocare non più in
un contesto esclusivamente europeo, ma anche mondiale.
7
Il leader transalpino si rese protagonista di una nuova linea di
condotta politica nei confronti dell’Italia.
7
David Thomson, Storia della Francia Moderna, p.227
15
Egli condivideva gli appunti che si facevano alla condotta del
governo italiano, ma non concordava con la strategia con cui si era cercato
fino a quel momento di coinvolgere Roma nella guerra.
Secondo Briand bisognava innanzitutto mostrare all’Italia maggiore
comprensione per le sue problematiche interne, in modo da abbassare la
tensione che si era venuta a creare tra Roma e Parigi, e poi convincere il
governo italiano a partecipare più da vicino alle scelte complessive
dell’Intesa, condividendone tutte le responsabilità della guerra. In questo
modo, il presidente del Consiglio francese voleva mettere tutti sullo stesso
piano di parità, e così facendo, convincere l’Italia ad adempiere
definitivamente agli impegni presi a Londra nel 1915.
La fine delle ostilità e la Conferenza della pace di Parigi,
dimostreranno che i contrasti e gli antagonismi tra Italia e Francia erano
tutt’altro che occasionali e che non sarebbero terminati con la guerra, c’era
stata cioè quella che Luca Riccardi definisce “un’alleanza senza
amicizia”.
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8
L. Riccardi, Alleati non Amici, cit., p.10-11
16
CAPITOLO PRIMO
L’ITALIA: DALLA NEUTRALITA’, ALL’INTERVENTO A
FIANCO DELLA FRANCIA
1.La neutralità italiana: le pressioni francesi e dell’Intesa.
L’Italia entrò nel conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la
guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco della Francia e
quindi dell’Intesa, contro l’Impero austro-ungarico fino a quel momento
suo alleato. Fu una scelta sofferta e contrastata, sulla quale classe politica
ed opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti: interventisti
e neutralisti.
Ma come avvenne il passaggio da una posizione di neutralità alla
decisione di intervento? E soprattutto, quali furono le ripercussioni di tale
iter decisionale sui rapporti italo-francesi?
Queste le domande a cui cercheremo di rispondere in questo
capitolo.
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Gli interventisti sostenevano l’eventualità di una guerra contro
l’Austria perché questa avrebbe consentito all’Italia di portare a
compimento il processo risorgimentale, riunendo alla patria Trento e
Trieste. Portavoce di questa linea interventista furono innanzitutto il
presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e Sidney Sonnino, ministro
degli Esteri dall’ottobre 1914. Salandra e Sonnino temevano soprattutto che
una mancata partecipazione al conflitto, avrebbe gravemente compromesso
la posizione internazionale dell’Italia.
I neutralisti invece, avevano il loro massimo esponente nel liberale
Giolitti, il quale non riteneva il paese preparato ad affrontare la guerra,
convinto poi che l’Italia avrebbe potuto ottenere dagli Imperi Centrali,
come compenso per la sua neutralità, buona parte dei territori rivendicati.
Giolitti ribadì la sua opinione proprio a Parigi l’1 agosto 1914, di ritorno da
un viaggio a Londra: all’incaricato d’affari a Parigi, Ruspoli, ebbe a dire
che a suo parere le circostanze del momento non costituivano per l’Italia il
casus foederis per entrare in guerra.
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Ruspoli a Di Sangiuliano, 2 agosto 1914, DDI, serie 5^, vol.1, d.6
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Il 2 agosto 1914, il ministro degli Esteri italiano, Di Sangiuliano,
inviò un telegramma agli ambasciatori italiani di tutta Europa: “Il R.
Governo ha deciso di rimanere neutrale nel presente conflitto”.
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In un altro telegramma inviato a Mérey, egli disse che il governo
italiano avrebbe deciso pro e contro la sua partecipazione alla guerra a
tempo opportuno e secondo i suoi interessi che desiderava mettere in
armonia con quelli dei suoi alleati, e che se l’Italia avesse partecipato alla
guerra, lo avrebbe fatto di sua propria e libera volontà, perché ai sensi dei
trattati della Triplice Alleanza non vi era casus foederis.
11
Il 3 agosto, Ruspoli notificò la posizione del governo italiano al
presidente del Consiglio francese, René Viviani: questi accolse la notizia
con manifesta emozione e ringraziò commosso, espresse a nome della
Francia viva riconoscenza, affermando che tale notizia avrebbe prodotto la
più grande impressione a Parigi, dove non sarebbe stato mai dimenticato
l'atteggiamento preso dall'Italia nel gravissimo momento che il paese stava
attraversando.
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Di Sangiuliano agli ambasciatori, 2 agosto 1914, DDI, serie 5^, vol.1, d.7
11
Avarna a Di Sangiuliano, 2 agosto 1914, ivi, d.11
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Ruspoli a Di Sangiuliano, 3 agosto 1914, ivi, d.31