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Introduzione
La scelta del ricorso all’arbitrato, come forma di giustizia alternativa, non è una
scelta casuale e nemmeno obbligatoria nell’ordinamento italiano. Esistono precisi
motivi ed esigenze per le quali sempre maggiormente ci si rivolge agli arbitri per
risolvere controversie evitando, in questo modo, di intraprendere una causa civile. I
motivi possono essere ricercati ad esempio nella maggiore e più profonda
specializzazione in determinate materie, nelle quali i giudici non hanno sufficienti
competenze per poter esprimere un giudizio che sia dettagliatamente coerente con la
controversia in questione. Una specializzazione che invece è possibile trovare in seno
agli arbitri. Un motivo d’altrettanta importanza è la rapidità con la quale il
procedimento dell’arbitrato può essere svolto. Conseguenza e motivo di tale rapidità,
infatti, è soprattutto la grande riduzione del formalismo e dei tempi che, nella
giustizia ordinaria, provocano, almeno in Italia, un abnorme rallentamento nello
svolgimento dei fin troppo numerosi processi, e che ormai hanno invaso i nostri
tribunali. Il ritardo della giustizia provoca gravi danni che ridondano anche sotto il
profilo economico. Sotto tale aspetto, l’arbitrato ha il grande vantaggio di avere dei
costi predefiniti, conoscibili, quindi, dalle parti sin dall’inizio della procedura.
Bisogna ricordare, anche e soprattutto, che il ricorso alla giustizia privata, nel nostro
caso all’arbitrato, è una scelta di tipo volontaria, di tipo alternativo, non imposta
dalla legge. La legge ne disciplina, infatti, solo il suo svolgimento. Con la presente
tesi si è cercato di porre in risalto un istituto che è destinato a divenire importante per
l’economia e la celerità della giustizia italiana. Un istituto destinato a divenire
fondamentale anche per le controversie in cui sia parte la pubblica amministrazione.
Controversie che negli appalti pubblici ormai coinvolgono la quasi totalità dei
rapporti tra amministrazione e privati e che quindi collidono e non poco con
l’esigenza di celerità che dovrebbe essere presupposto basilare dei nostri
procedimenti. Un istituto quindi che tra i riti alternativi dovrebbe essere utilizzato in
maniera quasi capillare e che risolverebbe molti problemi di giustizia del nostro
paese, soprattutto nei riguardi delle pubbliche amministrazioni. Tutto questo se non
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fosse che il nostro legislatore, attraverso una prescrizione inserita nella legge
finanziaria 2008, ha pensato bene di spazzarlo via, di stralciarne il suo utilizzo nei
contratti di lavori, servizi, forniture in cui sia parte la pubblica amministrazione e con
ciò devolvendo le controversie, nascenti tra le due parti, alle sezioni specializzate dei
tribunali in materia di proprietà industriale ed intellettuale. Una decisione così netta e
quanto mai problematica. Nello stesso tempo una decisione altrettanto fragile per ciò
che attiene alle sue motivazioni. Una fragilità che ha convinto lo stesso legislatore a
sospendere ciò che il giorno prima aveva disposto, attraverso vari ripensamenti che,
di fatto, ancora oggi bloccano il divieto imposto dalla finanziaria stessa.
Ripensamenti che ormai costantemente lasciano perplessi gli operatori del settore ma
anche le stesse amministrazioni. Una decisione così presa ha scatenato ovviamente le
reazioni del mondo giuridico che si dibatte oggi su quali siano le reali prospettive di
tutte quelle controversie prima devolute all’arbitrato e che ora rischiano di rimanere
irrisolte nell’alveo delle lungaggini della nostra giustizia civile. Si è ovviamente
acceso uno scontro di vedute tra chi sostiene che la cancellazione dell’istituto sia
foriera di risparmi per le casse dello Stato e in specie delle pubbliche
amministrazioni e chi invece sostiene che tale abrogazione porterà alla paralisi della
giustizia italiana Con il presente lavoro si è cercato quindi di partire da una prima
analisi della storia dell’arbitrato nel nostro ordinamento e della sua disciplina per
inquadrare al meglio le fondamenta dello stesso. Si è poi proseguito con una
descrizione dell’arbitrato nell’ambito della disciplina del codice dei contratti
pubblici, affiancando il tutto ad altri strumenti alternativi di risoluzione presenti nello
stesso codice. Si è tentato infine di portare alla luce, attraverso l’analisi del divieto di
utilizzo di arbitrato, nell’ambito delle controversie delle pubbliche amministrazioni,
inserita dal legislatore nel 2008, le motivazioni, i presupposti ed le conseguenti
reazioni del panorama giuridico nei confronti di una presa di posizione così netta.
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Capitolo 1
Le origini, l’evoluzione, e le caratteristiche della
disciplina arbitrale
1. Le origini storiche dell’arbitrato
Un’ampia parte della dottrina occidentale ritiene che il diritto tragga le
proprie origini dall’esperienza romana. La stessa dottrina ha
recentemente ribadito1 che è in questo ordinamento che per la prima
volta il diritto riesce a staccarsi dagli influssi originari della religione e
della politica.
Lo stesso diritto che quindi viene ad assumere una sua connotazione che
lo distingue da tutti gli altri poteri e da tutte le altre funzioni.
Già dalla fine dell’epoca regia e poi dalla più antica repubblica, la
funzione pontificale del diritto va progressivamente staccandosi dalla
mera ritualità religiosa e costruisce l’elaborazione di un potere
autonomo, che viene definito appunto, l’invenzione romana del diritto2.
1
A. SCHIAVONE, L’invenzione del diritto in occidente, Torino 2005.
2
Per una ricostruzione storica dell’istituto cfr.: MARRONE, Sull’arbitrato privato nell’esperienza
giuridica romana, in Rivista arbitrato 1995; PIERGIOVANNI, Profili storici del diritto romano al
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È in questo ambito del tutto peculiare che si innesta, nelle sue prime
connotazioni, la procedura arbitrale, intesa nella volizione delle parti a
deferire ad un soggetto, scelto ad hoc, la cognizione e la soluzione di una
disputa.
Molto probabilmente l’arbitrato nasce già nell’ambito dell’ordinamento
privato primitivo3 dove la tutela effettiva della decisione dell’arbitro,
così come la sua scelta, sono affidate unicamente alla volontà delle parti
ed alla capacità sociale di rendere di per sé eseguibili le decisioni sulla
base della stessa loro forza cogente e sulla base della capacità e del
riscontro sociale che impone l’esecuzione di una decisione
volontariamente e liberamente scelta.
Solo successivamente, in relazione alla sempre più puntuale crescita
dello jus civile in termini di apparato e di struttura autonoma, viene
conferito un riconoscimento ed una tutela esterni alla mera attività
volitiva: è così che nasce la procedura arbitrale come noi la intendiamo.
Storicamente abbiamo traccia di questa evoluzione, analizzando lo stesso
processo formulare, processo in cui sostanzialmente il pretore,
nell’antico diritto romano, recepiva nel proprio sistema tutelare,
ovviamente sottoponendolo ai necessari adattamenti, e nel preciso scopo
di ricondurlo al proprio controllo di apparato, l’autotutela interna e
volontaristica dell’arbitrato.
Secondo la ricostruzione della romanistica, tale evoluzione sarebbe poi
stata formalizzata in via ufficiale dalla lex Aebutia.
diritto medioevale e moderno in L’arbitrato, a cura di Alpa, Utet, 1999; VERDE, Diritto
dell’arbitrato, Giappichelli, 2005.
3
MARRONE, op. cit.
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È importante notare come in questa fase l’arbitrato, inteso quale
giudizio privato convenzionale, è nettamente distinto dal giudizio
ordinamentale e statale, giudizio che, pur avendo caratteristiche
privatistiche è gestito dal pretore in forza del suo imperium e non dalla
libera scelta delle parti.
Nelle fonti le figure dell’Arbiter e dello Judex sono sempre distinte.
Il primo è scelto dai privati contendenti, il secondo è nominato dal
magistrato.
L’altra grande differenza è costituita dal titolo abilitativo relativo alla
soluzione della controversia. Mentre, infatti, il giudice pretore è
vincolato a decidere seconda lo schema cristallizzato nella formula
confezionata dal magistrato, l’arbitro è invece tenuto a svolgere il suo
incarico con esclusivo riferimento a quanto le parti hanno stabilito nel
relativo compromesso, l’accordo appunto attraverso il quale le parti
decidono di affidarsi ad un arbitro per la risoluzione di eventuali
controversie.
Su tale accordo o negozio di compromesso, le fonti sono copiose: vi è un
intero capitolo del Digesto e un altro del Codex Iustinianus.
Da tali fonti emerge che l’accordo tra le parti riguarda controversie di
ogni genere che si tenta di risolvere senza ricorrere al processo
ordinamentale vero e proprio, con tassativa esclusione di quelle relative a
giudizi pubblici, nel quale appunto le parti non hanno quella capacità di
scelta suddetta.
Nel compromesso vengono infine stabilite le modalità processuali a cui
l’arbitro si dovrà attenere, modalità che saranno valide per l’intero
giudizio.
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A questo punto può ritenersi che crescita dell’istituto sia delineata e che
per tutta la lunga storia del diritto romano il ricorso alla procedura
arbitrale e l’arbitrato abbiano mantenuto le loro due caratteristiche
essenziali.
La prima riguarda la scelta volitiva delle parti per l’individuazione di un
loro giudice (arbitro) svincolata dalla procedura ordinaria e quindi non
collegata al magistrato fornito di imperium.
La seconda in riferimento alla scelta volontaria dettata tramite un libero
accordo (compromesso) che contiene i termini della controversia e le
modalità del giudizio.
Dobbiamo però considerare che agli albori della nascita di questo istituto
la decisione dell’arbitro non produceva di per sé la qualità di cosa
giudicata in quanto, coerentemente con l’accertata distinzione rispetto al
processo ordinario, veniva emessa senza alcun raccordo con l’imperium
del magistrato, che viceversa conferiva tale forza alla sentenza del suo
giudice.
Questo almeno agli inizi dello sviluppo arbitrale.
Si assiste in seguito ad una lenta evoluzione dell’esecutività della
sentenza stessa prevedendo da un lato una serie di reciproche penalità
che le parti si impegnavano ad assolvere in caso di inadempienza,
dall’altro nel caso di ulteriore inadempimento si da titolo alla parte
vincitrice di dare inizio ad un’azione esecutoria.
Accanto a queste caratteristiche del tutto particolari dell’istituto si deve
poi porre un particolare accento sull’elemento della volontarietà o
volizione, caratteristica ineludibile della procedura arbitrale, che fin dai
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primordi caratterizza tale procedura come del tutto distinta e parallela
rispetto a quella ordinaria.
Non può non considerarsi poi la tesi di una parte della dottrina storica,
seppur minoritaria, che attraverso un’indagine svolta dell’esperienza
romanistica ci induce a rilevare che l’origine dell’arbitrato vada collocata
addirittura in un’epoca pre-ordinamentale, in cui l’esperienza giuridica è
ancora legata alla compagine tribale e familiare ed in cui l’elemento
giuridico trova riscontro unicamente nella volontà del singolo di
produrre diritto e di ricercare una giustizia interna al gruppo, affidando la
soluzione della controversia a persona essenzialmente di fiducia.
In un arco di tempo piuttosto vasto si può rilevare una costante fortuna
dell’arbitrato.
Tale istituto vede il suo fiorire ideale per due ragioni differenti.
La prima può essere individuata nel fatto che non sussiste al momento
della sua nascita una struttura ordinamentale pubblica forte, per cui il
ricorso alla procedura privata è spesso un momento necessario per
ottenere giustizia.
La seconda è relativa allo sviluppo delle relazioni economiche e sociali,
soprattutto di carattere commerciale, che rendono opportuno il ricorso a
procedure diverse, rapide, con applicazione di criteri non esclusivamente
giuridici.
Come è noto dopo la caduta dell’impero romano d’occidente,
l’ordinamento giuridico, che fu un vanto di tale civiltà, venne
completamente a decadere.
Eppure anche nel decadimento generale, anche se ad un livello meno
sofisticato, è dato riscontrare una tipologia privatistica di risoluzione
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delle controversie certamente riconducibile alla figura dell’arbitrato
romanistico e dell’arbitrato moderno, pur nei necessari adattamenti
riscontrabili in una società per certi versi tornata quasi primitiva.
Istituto certamente assimilabile alla struttura arbitrale è nell’alto medio-
evo occidentale quello dell’udeantia episcopalis4. Un istituto che
consente alle parti contendenti di adire il Tribunale vescovile, il quale
più che come struttura giudiziaria pubblica può essere inquadrato come
un vero e proprio arbitro, con notevoli capacità di risolvere liberamente
la controversia sottoposta.
Certo un’indagine rigorosa e successiva delle fonti documentali pone
molti distinguo tra questo e l’istituto arbitrale fino al punto in cui la
giurisdizione vescovile tende sempre più a divenire una magistratura
pubblica perdendo proprio quelle caratteristiche di libertà formali e
sostanziali che ne possono far assimilare la struttura a quella
dell’arbitrato.
Si deve peraltro ritenere che in tutto il medioevo il ricorso a procedure
assimilabili all’arbitrato sia stato molto utilizzato, anche se queste
risentono inevitabilmente di influssi provenienti dalla cultura germanica,
soprattutto per l’accennata carenza di una giurisdizione ordinamentale
vera e propria e per la maggiore snellezza di una procedura volontaria in
cui era insito il ricorso a elementi di giudizio non esclusivamente
giuridici.
Con la riscoperta del diritto romano e la fioritura della nuova scienza
giuridica anche l’arbitrato conosce un nuovo impulso.
4
VISMARA , Episcolpalis audentia, Milano, 1937; DE FRANCISCI, Per la storia dell’episcopalis
audentia fino alla nov. XXXV di valentiniano, in Scritti Scaliati, Roma 1918.