Introduzione A partire dagli anni novanta e per tutto lo scorso decennio il diritto del lavoro ha dovuto
confrontarsi con una stagione di previsioni normative atte a rendere maggiormente flessibili i
rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, su spinte provenienti proprio dal mondo imprenditoriale, al
fine di abbattere, almeno parzialmente, le rigidità caratterizzanti il mercato del lavoro italiano.
I legislatori che si sono susseguiti nel corso dei governi hanno accolto tale richiesta, disponendo
l'ampliamento della base delle possibilità d'ingresso nel mercato, tramite la creazione di nuove
forme contrattuali flessibili, riformando istituti che fungevano da punto d'incontro tra mondo
dell'istruzione e mondo del lavoro. Tra questi può essere annoverabile l'apprendistato, che dalla fine
degli anni novanta ad oggi è stato oggetto di un cospicuo numero di modifiche.
L'istituto dell'apprendistato, così come presente nel nostro ordinamento, nasce storicamente come
strumento per l'attuazione del precetto contenuto all'art.35, c.2 Cost. (“ La Repubblica cura la
formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori ”), tramite l'emanazione della legge 19
gennaio 1955, n.25. Inizialmente qualificato come “ uno speciale rapporto di lavoro, in forza del
quale l'imprenditore è obbligato ad impartire o a far impartire […] l'insegnamento necessario
perché [l'apprendista] possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato,
utilizzandone l'opera nell'impresa medesima ”, l'apprendistato ha successivamente intrapreso, dagli
anni settanta in poi, la via dell'alternanza tra scuola e lavoro. Ed è proprio in quella decade che
affondano le radici dello sviluppo normativo di materie come formazione professionale ed
orientamento lavorativo, temi che investono pienamente l'apprendistato, come si avrà modo di
approfondire durante la presente trattazione. A norma degli artt. 117 e 118 Cost. si sancì un
passaggio di competenze tra Stato e Regioni, riguardante anche le funzioni amministrative e
legislative in tema di orientamento e formazione professionale. Con la legge quadro 21 dicembre
1978, n.845 si delegò alle Regioni il compito di elaborare i programmi di attuazione di corsi a
contenuto formativo, ma gli effetti in tema di integrazione tra formazione professionale e scuola
secondaria non raggiunsero i risultati sperati.
Il tema venne riproposto negli anni novanta, grazie anche alla spinta comunitaria proveniente
dalla direttiva n.92/51 (“relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione
professionale”) e dai protocolli stipulati tra governo e parti sociali nel triennio 1993-1996, i quali
posero le premesse per procedere al riordino della formazione professionale. Si pervenne così alla
legge 16 giugno 1997 n.196 (comunemente nota come “pacchetto Treu”), che definì i principi e i
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criteri generali della disciplina della formazione professionale, da attuarsi con l'emanazione di
successivi regolamenti. In seguito, a breve distanza dal “pacchetto Treu”, l'istituto dell'apprendistato
venne ritoccato nuovamente dalla riforma del mercato del lavoro, decreto legislativo 10 settembre
2003, n.276 (conosciuto come “legge Biagi”), che pose l'obiettivo di “ aumentare l'occupazione,
accrescendone la qualità ”, raccogliendo le indicazioni provenienti dalla strategia europea per
l'occupazione (fissate dal Consiglio europeo straordinario di Lisbona nel 2000). Infine, rimane da
segnalare il recentissimo Testo Unico dell'apprendistato, decreto legislativo 14 settembre 2011,
n.167, che si occupa del riordino delle disposizioni stratificatesi nel corso degli anni e delle varie
modificazioni.
La presente trattazione si articolerà come segue: nel primo paragrafo verrà delineata l'evoluzione
della normativa attraverso gli anni, a partire dalla l. n.25/1955 fino al d.lgs. n.276/2003. Il paragrafo
successivo enuncerà brevemente la peculiare novità introdotta, in tema di apprendistato, dalla
riforma Biagi, ovverosia la tripartizione dell'istituto. Al paragrafo tre verrà demandata la trattazione
del delicato tema dei contenuti formativi, aspetto peculiare dei contratti d'apprendistato. Infine, il
testo si chiuderà con un breve elenco delle ultime disposizioni, contenute nel Testo Unico di recente
approvazione.
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1. Evoluzione normativa delle principali caratteristiche dell'apprendistato Le prime fonti riguardanti il contratto di apprendistato sono rinvenibili nel codice civile, rubricate
nel libro quinto, titolo secondo, capo primo, sezione quarta, nominata "del tirocinio" (artt. 2130-
2134). Da tali articoli si possono evincere poche e scarne disposizioni. L'art. 2130 si limita a
stabilire il periodo massimo del tirocinio (“ non può superare i limiti stabiliti [dalle norme
corporative] o dagli usi ”), e l'art. 2131 vieta la retribuzione a cottimo dell'apprendista. I successivi
due articoli introducono l'elemento formativo che, come si vedrà in seguito, costituisce un momento
fondante del contratto di apprendistato. L'art. 2132 stabilisce che l'imprenditore debba “ permettere
che l'apprendista frequenti i corsi per la formazione professionale ” oltre che destinare l'apprendista
“ soltanto ai lavori attinenti alla specialità professionale a cui si riferisce il tirocinio ”. Nel corso
dell'evoluzione dell'istituto, si potrà osservare come le disposizioni dettate dall'art. 2132
necessariamente permangano, anche se con diverse condizioni. L'art. 2133 sancisce il diritto, da
parte dell'apprendista, di ottenere un attestato, a tirocinio compiuto. Questa disposizione nasce in
quanto agli apprendisti non era fatto obbligo del libretto di lavoro. Infine, con l'art.2134 si stabilisce
che “ al tirocinio si applicano le disposizioni della sezione precedente ”, ovvero della sezione terza,
relative al lavoro subordinato, in quanto “ compatibili con la specialità del rapporto ”, prevedendo
anche l'impossibilità di essere “ derogate da disposizioni delle leggi speciali o da norme
corporative ”.
L'evoluzione e la specificazione dell'istituto è stata demandata, fondamentalmente, a tre principali
leggi: la legge 19 gennaio 1955 n. 25 “Disciplina dell'apprendistato”, la legge 24 giugno 1997 n.196
“Norme in materia di promozione dell'occupazione” ed infine il decreto legislativo 10 settembre
2003 n.276. Recentissimo è invece il Testo Unico dell'Apprendistato, rinvenibile nell'ultimo
paragrafo del presente lavoro.
Nell'abbozzare un primo disegno dell'istituto dell'apprendistato il legislatore aveva già inserito due
elementi fondamentali, che si riproporranno sempre anche nelle successive evoluzioni: la causa
mista e la specialità del rapporto di lavoro configurato dal contratto d'apprendistato. La prima tappa
normativa è costituita dalla legge n. 25 del 19 gennaio 1955, dal titolo “Disciplina
dell'apprendistato”, che permette una completa regolamentazione dell'istituto 1
. L'art. 2 ribadisce la
specialità del rapporto di lavoro, “ in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire o a far
1 Cfr. C.FILADORO, Apprendistato, contratto di inserimento, nuovi contratti di formazione , Cedam, Padova, 2005,
p.164.
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impartire, nella sua impresa, all'apprendista assunto alle sue dipendenze, l'insegnamento
necessario perché possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato,
utilizzandone l'opera nell'impresa medesima ”. Si configura così una tipologia di “contratto a causa
mista” 2
: a fianco della generale obbligazione del lavoro subordinato, consistente nello scambio di
lavoro contro retribuzione, si aggiunge l'ulteriore obbligo di formazione, incombente sul datore di
lavoro e corrispondente ad un diritto per il lavoratore-apprendista, il quale si impegna per il
conseguimento dell'obiettivo di ottenimento della qualifica 3
. Tale peculiarità rimarrà immutata nel
corso delle tappe evolutive dell'istituto.
La legge 25/1955, prima di proseguire con il titolo secondo che norma l'assunzione
dell'apprendista, fornisce all'art.2 c.3 un'indicazione generale riguardante il numero massimo di
apprendisti che il datore di lavoro ha facoltà di occupare nella propria azienda: tale numero non
deve superare “ il 100 per cento delle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso la
stessa azienda ”. La ratio della norma può essere facilmente intuita dalla necessità di affiancare ad
ogni apprendista un lavoratore qualificato, in modo da poter garantire una formazione adeguata 4
.
Tale regola generale ha però visto l'introduzione di un'eccezione, costituita dall'art.21 c.1 della legge
n.56 del 1987 (“Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro”), secondo la quale
l'imprenditore con meno di tre lavoratori qualificati o specializzati può comunque assumere
apprendisti in numero non superiore a tre 5
. Tale previsione normativa è stata riproposta
integralmente nell'art.47 c.2 del d.lgs. n.276/2003. Nel caso di superamento di tali limiti, secondo la
giurisprudenza il rapporto deve essere qualificato come di lavoro ordinario 6
. Un'ulteriore
specificazione inserita nella l. n.56/1987 è rinvenibile nell'art.21 c.7, il quale esclude i lavoratori
apprendisti dal computo dell'organico in relazione ai “ limiti numerici previsti da leggi e contratti
collettivi di lavoro per l'applicazione di particolari normative ed istituti ”. Su questo punto era stata
sollevata una questione di legittimità costituzionale, riguardo alla quale la Corte Costituzionale si
espresse negativamente con sentenza n.181 del 25 gennaio 1989
7
. Il d.lgs. n.276/2003 ha riproposto
2 Così C. FILADORO, cit. (nt.1), p.164.
3 Cfr. R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro , Giuffré, Milano, 2008, p.571.
4 Cfr. C. FILADORO, Apprendistato... , cit. (nt.1), p.175.
5 Cfr. C. FILADORO, Apprendistato..., cit. (nt.1), p.175.
6 La Corte d'Appello di Venezia, con la sentenza n. 260 del 23 novembre 2001, ha dichiarato la nullità di un contratto
di apprendistato relativamente al caso di un datore di lavoro che aveva assunto un numero maggiore, rispetto a
quello consentito, di apprendisti. Il rapporto di lavoro instaurato con il giovane doveva essere considerato di lavoro
ordinario, con tutte le conseguenze inerenti al piano della contribuzione previdenziale.
7 Il Pretore di Milano sollevò una questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte, in riferimento all'art.21 c.7
della l. n.56/1987. Il giudice a quo considerò la mancata computabilità degli apprendisti come condizionante
l'applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti, così come indicata dagli artt.18 e 35 della legge 20
maggio 1970 n.300, dando luogo ad una duplice discriminazione: in primo luogo, tra datori di lavoro che occupino
un numero di dipendenti superiore ai limiti posti dalla suddetta legge, ma che fruiscano o meno della più favorevole
disciplina di recesso (a seconda che impieghino, o meno, apprendisti); in secondo luogo si tratterebbe di una
discriminazione tra lavoratori, i quali, anche se inseriti in aziende od unità produttive che in entrambi i casi superano
8
la disposizione, agli artt.53 c.2 e 59 c.2. Una deroga a questa disciplina è rinvenibile nell'art.1 c.1
della legge n.223/1991, la quale prevede la computabilità dei lavoratori assunti con contratti di
apprendistato e di formazione e lavoro esclusivamente ai fini del raggiungimento del limite
numerico di sedici dipendenti, richiesto per l'applicazione delle norme in materia di integrazione
salariale straordinaria 8
.
L'esigenza di utilizzare l'istituto dell'apprendistato per favorire l'incontro tra domanda ed offerta si
ripercuote anche sulla scelta di abrogare gli artt.2 c.2 e 3 c.1 della legge 25/1955: il primo
disponeva la necessità di ottenere l'autorizzazione da parte della Direzione Provinciale del Lavoro
prima di assumere un apprendista, mentre il secondo prevedeva la costituzione di liste speciali di
collocamento per gli apprendisti, assieme all'obbligo di assunzione numerica. Entrambi gli articoli
sono stati abrogati ex art.85, c.1, lett. b) del decreto legislativo n.276/2003
9
. La legge del 1955
prevedeva comunque l'ammissibilità della chiamata nominativa “ per le aziende con un numero di
dipendenti non superiori a dieci e, nella misura del 25 per cento degli apprendisti da assumersi,
per le aziende con un numero di dipendenti superiore a dieci ”. È fatta salva la possibilità, per la
normativa regionale, di reintrodurre una nuova procedura di autorizzazione, eventualmente da
richiedere agli enti bilaterali, in attuazione dell'art.2 c. 2, lett. b) della legge 26 febbraio 2003 n.30
(“Delega al Governo in materia di occupazione e lavoro”) .
La legge del 1955 dispone i limiti d'età necessari per l'assunzione di lavoratori apprendisti,
successivamente specificati dalla legge 24 giugno 1997 n.196. L'art.6 c.1 della l. n.25/1955
prevedeva un limite minimo non inferiore a quindici anni ed un limite massimo non superiore a
venti. L'art.16 c.6 della legge n.196/1997 eleva il limite minimo a sedici e quello massimo a
ventiquattro anni, con deroga fino ai ventisei nelle aree svantaggiate (di cui agli obiettivi 1 e 2 del
la soglia di dipendenti prescritta dai suddetti articoli dello Statuto dei lavoratori, si ritrovano a godere o meno delle
garanzie di stabilità del posto di lavoro (a seconda che tra essi vi siano o meno apprendisti). Nel motivare il giudizio,
la Corte accoglie due dei tre rilievi del Pretore di Milano, ribadendo come " la specialità del rapporto di tirocinio
non giustifichi una diminuita tutela degli apprendisti rispetto a quella apprestata per i lavoratori ordinari ", nonché
affermando come un datore di lavoro che abbia assunto apprendisti non possa reclamare una posizione di privilegio
dovuta alla minore produttività dei lavoratori tirocinanti (tale caratteristica è già compensata dal regime retributivo e
contributivo favorevole per il datore di lavoro). La Corte però non conviene sul terzo rilievo, inerente alle esigenze
di sostegno dell'occupazione giovanile: la non computabilità degli apprendisti si inserirebbe in un progetto del
legislatore atto ad " invogliare le imprese ad assumere mano d'opera giovanile ", alla pari di altri strumenti, come ad
esempio la possibilità di ricorrere a contratti temporanei. La Corte conclude affermando come la scelta del
legislatore non sia stata arbitraria, bensì scaturita da un bilanciamento di interessi che ha fatto prevalere, in un
contesto di " grave ed acuta crisi dell'occupazione giovanile " e in una situazione di " difficoltà di reperire in tempi
rapidi mezzi d'intervento diversi " la scelta di sacrificare meccanismi di tutela pur rilevanti per raggiungere l'obiettivo
di una maggiore occupazione dei giovani.
8 Cfr. C. FILADORO, Apprendistato... , cit. (nt.1), p.177.
9 L'art.6 del d.lgs. 19 dicembre 2002, n.297, correttivo del d.lgs. 21 aprile 2000 n.181, recante norme per agevolare
l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro, inserisce l'art.4 bis, al cui c.1 stabilisce la possibilità, per datori di lavoro
privati e per gli enti pubblici, di assumere direttamente " tutti i lavoratori per qualsiasi tipologia di rapporto di
lavoro " (mantenendo salvo l'obbligo di assunzione mediante concorso).
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