6
Pur nella difficoltà di fornire una definizione univoca di trust, in
considerazione degli ampi sviluppi che l’istituto ha avuto e delle multiformi
tipologie che lo stesso può assumere, è possibile individuare nel trust un
rapporto giuridico in base al quale un soggetto trasferisce un patrimonio ad un
altro soggetto, che ne acquista la “proprietà formale”, affinchè lo gestisca e
attribuisca i benefici che ne derivano ad uno o più beneficiari, che hanno la
“proprietà sostanziale” del suddetto patrimonio. Il trust si configura come un
meccanismo giuridico agile e flessibile, che permette la dissociazione del
godimento dei beni dalla proprietà e gestione degli stessi, e che per le sue
caratteristiche di adattabilità ha consentito di perseguire le finalità
economiche più varie: il ricorso a tale strumento per fini successori è tecnica
corrente negli ordinamenti di common law dove esso si è radicato e
sviluppato.
La seconda sezione del lavoro si propone dunque di analizzare la
struttura e le caratteristiche del trust, quali si sono andate delineando nei
sistemi di common law.
Una breve rassegna degli schemi giuridici degli ordinamenti di civil law
ritenuti in qualche modo consimili al trust farà emergere la singolarità di
quest’ultimo: mentre infatti negli ordinamenti di civil law non è data la
possibilità di scindere il diritto di proprietà tra più soggetti, se non attraverso
la comunione o la costituzione di un diritto reale di godimento, l’elemento
distintivo del trust sta, secondo parte della dottrina, nel cd “sdoppiamento
della proprietà” che esso rende possibile; altra parte degli studiosi, peraltro,
preferisce porre l’accento sulla caratteristica dell’istituto di realizzare la
“segregazione” di una posizione giuridica soggettiva rispetto al patrimonio sia
del disponente che del trustee.
7
Lo studio si concentra quindi nella disamina della Convenzione dell’Aja
del 1985, con la quale, a seguito di ratifica nel nostro paese con L. 364/1989,
la legislazione italiana è venuta ufficialmente a conoscenza dell’istituto del
trust; la Convenzione rende riconoscibili anche in Italia gli effetti giuridici - e
dunque la validità - di trust retti da una legge straniera, compatibilmente con
le peculiarità del nostro sistema giuridico e nel rispetto delle norme
inderogabili dell’ordinamento italiano.
Vi è chi ha sostenuto che, nonostante l’entrata in vigore della
Convenzione, il trust è e rimane uno strumento estraneo al nostro
ordinamento, poiché la Convenzione non ha l’effetto di introdurre il trust nei
sistemi giuridici che non lo disciplinano: l’applicabilità della disciplina
convenzionale è infatti subordinata alla possibilità di qualificare come trust la
fattispecie dedotta in giudizio in applicazione dei criteri individuati dalla
Convenzione medesima. L’incertezza che accompagna la qualificazione
dell’istituto nel nostro paese ha comportato inevitabilmente la scarsa
attitudine ad assurgere a strumento di organizzazione dei rapporti economici
e giuridici. I privati e gli operatori necessitano infatti di strumenti sicuri, la
cui tutela non sia pregiudicata dal rischio di interpretazioni difformi da parte
del giudice.
La recente proposta legislativa sul trust cerca di colmare le incertezze
che hanno impedito la diffusione di questo istituto nel nostro paese, ma come
vedremo nel capitolo sul trust in Italia, lo schema all’esame delle Camere
presenta svariate lacune e ha già suscitato molteplici perplessità, tanto da far
paventare ad alcuni il rischio che si possa trattare di un’“occasione mancata”.
Nel disegno di legge è apparsa in particolare trascurata la trattazione dei
profili tributari del trust, che assumono rilievo primario ai fini della
8
formulazione del giudizio di convenienza sulla utilizzabilità o meno di un
determinato meccanismo negoziale. L’argomento concernente i profili
tributari del trust ha stimolato in dottrina riflessioni a tratti contrastanti, delle
quali in questa sede, senza pretese di completezza, intendiamo dare i
necessari cenni.
Concluderemo infine con l’esame di un’applicazione pratica del trust:
l’impiego cioè di un trust per gestire la successione di un patrimonio
aziendale. Il caso è riferito, in particolare, all’ipotesi di utilizzo del modello
di trust discrezionale, con ricorso o meno alla costituzione di una holding
frapposta tra il trust e le imprese di cui si voglia garantire il passaggio ai
discendenti. Come vedremo, la soluzione si presta efficacemente al
perseguimento delle finalità di pianificazione familiare, permettendo di
conseguire significativi benefici in termini fiscali.
M.Lupoi, uno dei massimi studiosi del trust nel nostro paese, ha
sostenuto che “il trust in Italia può essere in primo luogo la risposta alla crisi,
all’involuzione e all’insufficienza del rapporto fiduciario (nel quale tra l’altro
l’elemento fiduciario è evanescente); in secondo luogo, la risposta a esigenze
della vita commerciale e finanziaria, rispetto alle quali i limiti del nostro
diritto codificato emergono in tutta chiarezza; in terzo luogo, la risposta ad
assetti familiari e sociali assai lontani da quelli sui quali molti nostri istituti
si sono modellati”.
Il trust in Italia è stato e rimane in parte circondato da diffidenze. Ciò,
da un lato, perché le caratteristiche dell’istituto sono apparse difficilmente
conciliabili con i principi che regolano istituti fondamentali dei paesi di
diritto continentale: la scissione e l’attribuzione a soggetti diversi (trustee e
beneficiari) dei diritti che nei sistemi di civil law sono unificati nell’istituto
9
della proprietà si scontrerebbero con il sistema chiuso dei diritti reali.
Dall’altro lato, è diffuso il timore che il trust si presti a utilizzazioni
fraudolente e all’aggiramento dell’ordinamento fiscale.
In tale contesto, l’intervento del legislatore italiano potrebbe
contribuire in modo decisivo al superamento di tali diffidenze; in particolare,
la disciplina dei profili tributari del trust, con la qualificazione della natura
delle transazioni che esso sottende, servirebbe a creare un clima di maggiore
certezza nell’utilizzo dello strumento. Va comunque sottolineato che la
disciplina fiscale del trust deve risultare in linea con lo scopo per il quale
l’istituto nasce, ossia l’assumere e portare a compimento incarichi aventi ad
oggetto atti giuridici con l’obiettivo di pianificare e disporre la destinazione
di beni e risorse. Si è dell’avviso che una fiscalità punitiva o disarmonica
vanificherebbe la stessa validità del nuovo istituto.
Anche durante i lavori dell’ultimo congresso nazionale
dell’Associazione “Il trust in Italia” è emerso da più parti l’auspicio a favore
di una regolamentazione dell’istituto del trust: ciò in quanto il numero dei
trust interni ha superato le duecento unità, con un incremento straordinario
rispetto al recente passato, dato che testimonia la crescente attenzione verso
questo istituto nel nostro paese. L’ordinamento italiano sta consolidando un
approccio favorevole al trust, ma la strada per un diffuso e concreto utilizzo
di questo strumento, che ne sfrutti a pieno le molte potenzialità, seppur lunga,
è oramai ineludibile.
10
Capitolo primo
LA SUCCESSIONE DELL’IMPRESA FAMILIARE
1.1 IL MODELLO “FAMILY BUSINESS”
Se con una lente di ingrandimento volessimo monitorare il tessuto
produttivo italiano non potremmo che confermare quella che analisti ed
esperti di settore definiscono come una ineluttabile verità: una miriade di
piccole/medie imprese costituisce l’ossatura del sistema industriale
nazionale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, inoltre, le piccole e medie
imprese italiane sono controllate e gestite da uno o più nuclei familiari, così
che anche dal confronto con gli altri paesi europei risulta chiara la
schiacciante prevalenza, sia in termini assoluti che relativi, del modello
“family business” rispetto a quello della “public company”.
Pur senza entrare troppo nel merito della questione, è necessario
soffermare l’attenzione sulle motivazioni di questa particolare
conformazione, che, sebbene oggetto di spinte esogene ed endogene che
tendono a modificarla, si caratterizza per una sorprendente vitalità e per una
solida capacità competitiva.
Esistono ragioni di carattere storico, culturale, istituzionale e normativo
a giustificare tali evidenze: anzitutto l’industria italiana è da sempre incentrata
su settori tradizionali, dove le imprese familiari possono operare senza
svantaggi competitivi e la frammentazione permette di occupare specifiche
nicchie di mercato; nelle piccole realtà produttive è più facile la trasmissione
discreta delle conoscenze e dei “segreti” produttivi e gestionali, che spesso
11
sono patrimonio delle poche persone appartenenti alla famiglia
dell’imprenditore. Quanto poi al management, va sottolineato che i processi
decisionali, ove demandati ad una ristretta cerchia di persone, risultano più
snelli e rapidi, evitano tutte le inefficienze derivanti dalla necessaria ricerca
di compromessi, consentono di attuare le politiche di bilancio che più si
confanno alle esigenze dell’impresa-famiglia; inoltre, soprattutto nelle forme
societarie di persone o di capitali più piccole non sono attuati, per espresso
desiderio dell’imprenditore e dei suoi familiari, quei meccanismi di controllo
esterno che normalmente tutelano la trasparenza nelle realtà societarie di più
grande dimensione.
Peraltro, è necessario evidenziare che non esistono solo vantaggi a
giustificare la schiacciante prevalenza, in termini numerici e di valore
aggiunto, del modello “family business” nel sistema produttivo italiano.
Bisogna infatti fare i conti anche con i numerosi ostacoli alla diffusione del
modello “public company”; per ovvie ragioni, in questa sede ci limitiamo a
sottolineare quello che, secondo l’opinione prevalente, rappresenta il vincolo
più forte al cambiamento e all’apertura del capitalismo familiare italiano:
l’inefficiente funzionamento del mercato finanziario nazionale, risultato, da
un lato, delle passate scelte economico-politiche volte a convogliare il
risparmio verso i titoli di Stato piuttosto che verso il finanziamento di attività
produttive, dall’altro, dei sistemi di tassazione dei dividendi azionari e della
mancata neutralità delle plusvalenze conseguite da investitori istituzionali
(fondi chiusi e merchant banks) ove reimpiegate in attività produttive. Inoltre
è inutile nascondere che il capitalismo familiare italiano è ancora
mentalmente più chiuso verso le sfide di mercato rispetto a quello di altri
paesi.
12
1.2 LEGAME TRA PROPRIETA’ E POTERE
Un’altra peculiarità delle piccole e medie imprese italiane è
rappresentata dalla concentrazione della relativa proprietà nelle mani
dell’imprenditore fondatore e dei componenti della sua famiglia; cioè di
coloro che hanno visto crescere e svilupparsi la loro creatura.
Gli imprenditori infatti ritengono che il mezzo più sicuro ed efficace
per esercitare il controllo dell'impresa, inteso come potere di assumere
decisioni fondamentali, sia rappresentato dal possesso di pacchetti di
maggioranza della proprietà e quindi dei relativi diritti di voto: questo è
ritenuto lo strumento per evitare interferenze, fastidiose ingerenze, faticosi
compromessi nell’amministrazione e controlli più stringenti: in altri termini
chi ha creato e fatto crescere un’azienda non vuole “ostacoli”
nell’amministrazione e preferisce mantenere la proprietà concentrata1.
La conseguenza più immediata di quanto detto è che l’impresa con
struttura proprietaria chiusa limita in partenza i suoi tassi di crescita, che
sarebbero senz’altro più elevati se venisse realizzata una maggiore apertura al
mercato dei capitali, a partner industriali o finanziari, a investitori
istituzionali, a piccoli risparmiatori che di consueto danno fiducia alle
piccole imprese solo se al capitale di queste partecipano anche investitori
istituzionali.
L’apertura al capitale esterno deve essere fatta e decisa dal management
esistente in ogni azienda e quindi è necessario in questo senso che
1
Recenti indagini – condotte dalla Banca d’Italia e dalla Esetra su un campione casuale e
stratificato di 1.200 imprese industriali con oltre 50 addetti – hanno evidenziato che la proprietà
conserva, nella generalità dei casi, il 60% del capitale dell’azienda; tale percentuale ascende al 90%
se si tiene conto dei casi in cui il possesso di quote di minoranza è abbinato a strumenti contrattuali
e societari quali patti di sindacato e holding.
13
l’imprenditore faccia un passo indietro, o comunque accetti di non essere
l’unica fonte di decisione e di controllo della sua impresa.
Le due caratteristiche del sistema industriale e produttivo sinora
delineate (prevalenza del modello family business e legame tra proprietà e
potere) sono fortemente correlate e interdipendenti. Per capire tale legame è
necessario accettare una nozione di controllo che va ben al di là dei numeri in
assemblea, delle maggioranze nei consigli di amministrazione, delle
percentuali proprietarie: controllare un’azienda per un piccolo e medio
imprenditore italiano significa possederla, tenerla sul palmo della mano,
sapere tutto ciò che in essa accade, avere gli occhi sbarrati verso le
inefficienze e le diseconomie. L’interdipendenza cui accennavamo si
comprende, dunque, solo se si accetta una siffatta accezione del termine
“controllo”, alla luce della quale si può affermare che il controllo familiare
dell’impresa decresce all’aumentare della sua dimensione.
1.3 SUCCESSIONE E CONTINUITA’ NELL’IMPRESA
Nel modello family business è spontaneo chiedersi se le sorti della
famiglia influenzano quelle dell’impresa oppure se è quest’ultima che, come
organismo creato dalla stessa famiglia, arriva a rivestire un ruolo preminente
sulle vicende umane dell’entità generatrice.
All’interrogativo è difficile dare una risposta di carattere generale,
essendo necessario distinguere caso per caso. Certo è che ogni impresa è
fatta, forgiata e modellata dalle persone che vi operano: questo vale tanto più
se l’azienda è di piccole dimensioni, o meglio a dimensione familiare; per
comprendere come famiglia e impresa si influenzano reciprocamente, è
14
dunque importante partire dallo studio di quelli che Keynes chiamava “animal
spirits”, ossia dalle vicende umane, fisiche, psicologiche, affettive della
famiglia e dei suoi componenti: sono questi, infatti, i fattori che determinano
il modo di essere dell’impresa e la sua continuità2.
Una delle vicende umane che ogni impresa familiare si trova
necessariamente a dover subire è quella del ricambio generazionale. Quello
della successione al timone di comando aziendale costituisce da sempre un
passaggio delicato nella vita dell’impresa: se da un lato esso rappresenta una
formidabile opportunità di rivitalizzazione e di rilancio dello sviluppo
aziendale, dall’altro nasconde dei pericoli che possono riflettersi
2
C’è chi, come I.S.Lansberg (1983), ha evidenziato la centralità delle risorse umane nell’ambito delle
imprese familiari, caratterizzate, secondo l’autore, da una sovrapposizione istituzionale
(institutional overlap) tra norme che regolano l’impresa da un lato e quelle familiari dall’altro.
Mentre ai suoi albori l’impresa trae vantaggio da questa sovrapposizione, con il consolidarsi del
business essa genera molti conflitti perchè emergono contraddizioni tra i principi familiari e le
esigenze dell’impresa.
NORME FAMILIARI NORME AZIENDALI
Selezione Assunzione degli
appartenenti al gruppo
familiare
Assunzione di coloro che sono
professionalmente validi
Retribuzione Distribuzione compensi in
funzione dei bisogni di
sviluppo individuali
“INSTITUTIONAL Distribuzione compensi in funzione del
mercato del lavoro, dell’esperienza e dei
risultati
Valutazione Individuo visto come “fine”
e non come “mezzo”
OVERLAP” Identificazione delle prestazioni più
elevate. Individuo visto come “mezzo”
più che come “fine”
Formazione Apprendimento per
soddisfare bisogni di
sviluppo individuale
Apprendimento per soddisfare bisogni
organizzativi
Gli imprenditori cercano il difficile compromesso fra principi tra loro in conflitto, con risultati poco
efficienti, ovvero oscillano tra principi familiari e regole aziendali, minando in tal modo la loro
credibilità. Lansberg suggerisce allora di sviluppare un atteggiamento collaborativo tra
imprenditore, familiari e dirigenti in modo che nessuna delle due ottiche prevalga sull’altra.
15
negativamente sulle sorti dell’impresa stessa. Gestire bene il processo
successorio significa cogliere le opportunità e neutralizzare i pericoli: il
“terremoto” che il ricambio generazionale porta con sé diventa tanto più
sopportabile quanto più salde sono le fondamenta dei rapporti familiari e
maggiormente curata è stata la preparazione a tale momento fatidico.
Il problema della successione d’impresa è indubbiamente complesso ed
è stato analizzato secondo una varietà di approcci, che vanno da quello
aziendalista-economico a quello giuridico, da quello organizzativo a quello
culturale-sociologico; alcuni studi hanno posto l’accento sul profilo storico,
altri sugli aspetti empirici.
Tutti gli studi hanno però tenuto conto della rilevanza di quattro fattori:
l’impresa, le persone, il tempo e l’ambiente. Elemento cruciale è ovviamente
l’impresa, definita da G.Piantoni come “sistema di dominanza basato sulla
coerenza dinamica e instabile tra prodotto, segmento, mercato e struttura” .
Nell’impresa gli uomini, ovvero tutte le persone che hanno un legame con
essa e che svolgono un ruolo attivo o passivo nel processo successorio, si
muovono nel tempo: la strategia consiste nel decidere oggi, con gli uomini di
ieri, il futuro di domani. Tutto questo avviene in un contesto ambientale
(economico, sociale e politico) che interagisce tumultuosamente con gli altri
fattori, orientandoli e condizionandoli.
Nelle imprese familiari la successione dell’imprenditore è stata definita
da G.Corbetta e C.Preti (1988) come “un processo che, con l’obiettivo di
garantire la continuità dell’impresa, perviene alla delega della responsabilità
attinente al ruolo imprenditoriale”. Tale definizione sottolinea innanzitutto
che l’azienda è un istituto svincolato dal ciclo biologico dell’imprenditore e
destinato a perdurare nel tempo; inoltre evidenzia come l’aspetto tipico del
16
processo successorio consiste nella delega progressiva dei compiti
imprenditoriali.
Nelle imprese familiari l’eccessiva centralità dell’imprenditore e
l’incapacità di questi di delegare fa sì che il passaggio di testimone tra padre e
figlio sia contrassegnato da tensioni, lotte e frustrazioni: il fondatore
raramente è disposto a scoprire il disegno strategico dell’azienda perchè lui
l’ha ideato ed è il solo in grado di comprenderlo.
Altro problema con cui confrontarsi è rappresentato dalla cosiddetta
“deriva generazionale”, vale a dire il progressivo aumento dei membri della
famiglia allo scorrere delle generazioni: in relazione a ciò, i legami affettivi
si smagliano, meno forte sarà l’identificazione con l’impresa di famiglia e la
proprietà, a meno di scelte in altra direzione, si andrà frazionando con
conseguente ramificazione del potere decisionale.
Fattore cruciale per il futuro dell’impresa è indubbiamente la capacità
della famiglia di formare successori capaci e competenti, per scegliere il più
adatto al ruolo. L’errore più grave è quello di affidarsi alle cc.dd. leggi
naturali.
Il ricambio generazionale costituisce un momento critico anche in
termini di evoluzione della cultura d’impresa, intesa come insieme di valori
comuni e condivisi che orientano il comportamento di un’organizzazione. Il
cambiamento dei valori d’impresa richiede il presidio da parte di un leader,
che svolge il ruolo di catalizzatore durante le varie fasi di sviluppo.
Assai frequentemente l’imprenditore arriva impreparato alla fase del
ricambio, sia perché è ottimista per natura, sia perché può essere difficile la
scelta dei successori, sia ancora perché esistono diverse opzioni giuridico-
tributarie, tra cui scegliere quella che meglio si attaglia al caso specifico.
17
Prima di illustrare alcune delle alternative a disposizione
dell’imprenditore alle prese con il problema del trasferimento dell’azienda ai
successori, appare opportuno fornire taluni riferimenti in ordine agli oneri
tributari che gravano sulle successioni e sulle donazioni, soprattutto in
relazione al recente riordino della materia.
1.4 L’IMPOSTA SULLE SUCCESSIONI E DONAZIONI E IL
FENOMENO DELLE DONAZIONI INDIRETTE. LA RECENTE
RIFORMA (D.lgs. 342 del 21.11.2000).
La disciplina dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni contenuta
nel D.lgs. 346 del 1990 – che ha regolato la materia sino alla recente riforma
approvata nel novembre 2000 - è stata oggetto di severe critiche per i
problemi e le ingiustizie che si è ritenuto provocasse, sia nel regolare la
successione ereditaria, a causa della previsione di un’imposta sull’asse
ereditario netto, sia quando cercava di colpire le donazioni, spesso senza
riuscire a centrare l’obiettivo.
E’ stato da più parti rilevato come il tributo abbia sinora assicurato un
gettito “irrisorio” a favore dello Stato3 e non abbia trovato applicazione nelle
situazioni “più ricche” in cui, attraverso una serie di escamotages, ingenti
patrimoni sono stati trasferiti eludendo l’imposizione. Inoltre, così come
allora congegnata, l’imposta ha colpito di fatto solo gli immobili, già peraltro
pesantemente gravati da altri tributi, erariali e locali.
La riforma dell’imposta ha subìto un iter lungo e travagliato, fino
all’inserimento nell’ambito del collegato alla Finanziaria 2000; esplicherà i
3
Il gettito è stato pari a L. 1.771 mld nel 1998 (1.440 mld nel 1997, L. 1.332 mld nel 1996...).
18
propri effetti con riguardo alle donazioni stipulate dal 1° gennaio 2001 e alle
dichiarazioni di successione il cui termine di presentazione scade dopo il 1°
gennaio 2001.
I principali cardini della riforma riguardano, da un lato, l’ampliamento
della base imponibile, dall’altro la previsione di una serie di aliquote piuttosto
basse che tengono conto del grado di parentela e affinità fra il de cuius e
eredi, donatari o legatari.
Le principali novità sono rappresentate:
◊ dall’abolizione della tassazione globale del patrimonio del de cuius (c.d.
“imposta sul morto”): l’imposta sulle successioni sarà infatti applicata
solo sugli incrementi patrimoniali conseguiti a titolo definitivo dai singoli
beneficiari;
◊ dal maggior rilievo attribuito alla franchigia (da calcolare con riferimento
a ciascun erede), al grado di parentela tra de cuius e eredi/legatari, a
particolari situazioni di famiglia o di salute del beneficiario, ritenute
meritevoli di tutela;
◊ dall’abbandono della tassazione progressiva per scaglioni, sostituita da un
sistema a tre aliquote proporzionali pari al 4%, 6% e 8% a seconda del
grado di parentela4;
◊ dalle regole di determinazione della base imponibile: questa dovrebbe
essere costituita dal patrimonio attribuito a ciascun erede/legatario, inclusi
4
L’aliquota del 4% riguarda il coniuge e parenti in linea retta (oggi si va dal 7 al 27%); quella
intermedia i parenti entro il quarto grado e affini entro il terzo grado (oggi dal 3 al 25%); la più alta
gli altri eredi (attualmente tassati fino al 33%). In proposito, va rilevato come l’abbassamento delle
aliquote possa contribuire ad indurre i contribuenti all’“adempimento spontaneo”, dato che gli
oneri (di consulenza e finanziari) sostenuti per realizzare operazioni elusive sembra si attestino al
livello delle aliquote ora fissate.
19
gli incrementi patrimoniali derivanti da atti di liberalità compiuti in vita dal
de cuius (gli incrementi devono essere presenti nel patrimonio del
beneficiario, cioè non consumati); la base imponibile dovrebbe inoltre
tenere conto di tutte le passività accollate al beneficiario; la previsione,
inizialmente inserita, volta ad includere anche i titoli di Stato di nuova
emissione è stata successivamente ritenuta inopportuna, in quanto, oltre a
trattarsi di una mera partita di giro, potrebbe pregiudicare gli stessi
interessi erariali;
◊ dalla previsione della facoltà di liberare dall’imposta sulle successioni
quei beni e quei diritti per i quali il de cuius abbia versato in vita un tributo
sostitutivo (con riduzione dell’aliquota di 1 p.p.)
5
.
Per quanto concerne le donazioni, la riforma - oltre a prevedere
aliquote ridotte di un punto percentuale rispetto a quelle applicate alle
successioni (3%, 5% e 7%) - si propone di affrontare il fenomeno delle
donazioni indirette, nei confronti del quale la vecchia disciplina ha mostrato
tutta la sua inadeguatezza, in quanto condizionata dalle regole procedimentali
proprie dell’imposta di registro e quindi più attenta ai profili giuridico-
formali piuttosto che a quelli economico-sostanziali.
5
Tale previsione costituisce un notevole passo avanti in termini di civiltà giuridica e mette il nostro
paese in linea con le legislazioni di altri Stati moderni. Si pensi al caso assai frequente in cui gli eredi
subentrano in un patrimonio di valore ingente ma “non liquido” (ad es. costituito di soli immobili) e
siano privi dei mezzi necessari per far fronte ai pagamenti al fisco: l’opzione ora concessa consente
di non gravare gli eredi del carico impositivo derivante dal decesso del de cuius.