La condizione giuridica delle confessioni acattoliche nell’ordinamento
italiano.
1. Evoluzione storica: dallo Statuto Albertino ai principi costituzionali.
Il regno di Sardegna non era, prima del 1848, un paese dove la libertà
religiosa fosse coltivata più o meglio che negli altri Stati italiani. Le
minoranze non-cattoliche erano principalmente di due tipi: Valdesi ed Ebrei.
L’art. 1 dello Statuto Albertino del 4 Marzo 1848 recitava: “ La Religione
cattolica, apostolica, e romana, è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti
ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi ” . Quest’articolo di
chiaro stampo confessionista venne mitigato di lì a poco dalla normazione
successiva. Difatti, il 17 Febbraio 1848, erano state emanate le Patenti di
emancipazione dei Valdesi, che, riconoscendo loro i diritti civili e politici,
nulla innovavano con riguardo all’esercizio del loro culto ed alle scuole da
essi dirette. Il 29 Marzo dello stesso anno i soli diritti civili erano
riconosciuti anche agli Ebrei. La disciplina dei non-cattolici oscillava tra la
tolleranza nei limiti della legislazione speciale repressiva vigente per
ciascun culto, oppure la tolleranza nell’ambito del diritto comune, senza
limitazioni specifiche per alcuna religione. Venne scelta questa seconda via.
Chiaro sintomo di questa scelta fu l’approvazione della legge Sineo, il 19
Giugno 1848, secondo la quale “la differenza di culto non forma eccezione
al godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche
civili e militari”. L’operazione compiuta era molto innovativa, la tolleranza
non era più accordata agli appartenenti ad una determinata religione a titolo
di grazia o privilegio. La tolleranza, dunque, non era più intesa come foriera
di controlli e limitazioni, ma era riconosciuta a tutti i cittadini,
indipendentemente dal culto professato. La revisione della legislazione sulle
confessioni allora esistenti fu una delle prime preoccupazioni del governo
piemontese. Già nel 1849 il governo d’Azeglio soffermava “l’attenzione sua
sulla necessità di riordinare le amministrazioni particolari ai Valdesi e agli
Ebrei” 1
. A questo scopo venne nominata una commissione di studio di cui
facevano parte esponenti delle due confessioni. La posizione tenuta dai
1
G. Peyrot, Rapporti tra Stato e Chiesa Valdese [3.1.6], p. 9.
3
Valdesi fu di fiducia nel diritto comune. Gli ebrei invece, chiesero, ed
ottennero, una legislazione particolare, la cosiddetta legge Rattazzi: n. 2325
del 1857. La particolarità di questa norma sta nel fatto che, pur essendo
chiaramente di provenienza unilaterale statale, alla sua stesura parteciparono
attivamente esponenti di questa confessione. Questa caratteristica ha portato
a considerare la legge Rattazzi come una sorta di “ intesa ante litteram tra
governo sabaudo e comunità israelitica, nel senso che il governo incaricò
nel giugno 1848 la Comunità di Torino di predisporre un progetto di
regolamento per gli ebrei dello Stato” 2
. Il progetto delineava una struttura
centralizzata, il rabbinato centrale, e varie comunità locali. Come detto, il
progetto rispecchiava solo la comunità torinese, le idee e le opinioni della
maggior parte delle altre comunità erano invece fortemente critiche rispetto
all’elemento centralizzante. La legge Rattazzi si pose, allora, come lo
strumento giurisdizionalista con cui una parte dell’ebraismo dello stato
Sardo riuscì a prevalere sulle comunità più riottose.
Tornando alla commissione di studi del 1849, il fatto che per i Valdesi non
si giunse ad una soluzione simile a quella che per gli Ebrei rappresentava la
legge Rattazzi, fu prodromico del cambiamento in atto: “ Poiché nel nostro
diritto positivo manca un istituto rispondente a quello che in altre
legislazioni è l’ammissione della confessione, il metodo seguito dal
legislatore per dare modo alle confessioni non esistenti nel regno di
Sardegna nel 1848 di venirsi a porre in una condizione analoga a quella
delle minori confessioni stabilite da secoli tra noi è consistito nel dettare una
serie di norme destinate a valere per tutti i culti, senza più far menzione di
culti tollerati, espressione che non poteva riferirsi se non ai culti israelitico e
valdese, ma parlando genericamente di culti, o al più di culti ammessi, senza
fare alcuna distinzione. Pertanto nel nostro diritto positivo per qualsiasi
chiesa sussiste la possibilità di stabilirsi nel regno, di esercitarvi le sue
funzioni, di raggiungere i suoi fini; senza che per ciò occorra alcun
particolare consenso dello Stato ” .
3
La prima di queste norme valide per tutti i culti (cattolico compreso) fu la
prima legge Siccardi, 1850 n. 1037. Essa introduceva l’obbligo
dell’autorizzazione statale per l’acquisto di immobili, nonché per ricevere
2
G. Disegni, Considerazioni sulla storia e la natura giuridica delle comunità ebraiche
[6.4.3], pp. 630-631.
3
A.C. Jemolo, L’amministrazione ecclesiastica [1.1.10], p. 380.
4
donazioni o eredità da parte degli stabilimenti, o corpi morali, siano essi
ecclesiastici o laicali. Nel contesto delle altre leggi che presero il nome dal
ministro Siccardi, essa andava interpretata come un chiaro attacco alle
prerogative della Chiesa cattolica. Fu applicata anche agli altri culti, per i
quali costituiva, comunque, un regime migliore di quello del 1848. Le scelte
politiche riguardanti il cattolicesimo si applicavano anche alle altre
confessioni, in virtù del ricordato principio della legge comune, quindi
anche i non-cattolici vennero incisi dalla legislazione, cosiddetta eversiva,
sulle opere pie del 1890. Una questione altrettanto delicata fu quella
affrontata nel 1865 a seguito dell’introduzione del matrimonio civile. Sino
ad allora la celebrazione e la regolamentazione del matrimonio, come anche
della famiglia, era lasciata completamente alle confessioni, in primis quella
cattolica. Dopo il Codice Civile del 1865 invece, l’unica forma
matrimoniale produttiva di effetti giuridici nell’ordinamento statale, divenne
quella civile. Ancora una volta le confessioni non-cattoliche vennero
coinvolte in provvedimenti non espressamente previsti per esse. Il
gradimento di queste confessioni per la situazione così delineata era di
sicuro elevato, i loro componenti si identificavano in pieno con il regime
liberale, lo sostennero sul piano politico ed elettorale e ne accettarono le
impostazioni. Il conflitto in atto tra Stato e Chiesa cattolica portò ad una
netta frattura, chiaramente esposta da Jemolo: “ Il cattolico ortodosso, quegli
che obbedisce sempre al papa, che non concepisce la ribellione, appare
come il cattivo italiano, contrario alla unità nazionale; il “patriota” è
anticlericale ” .
4
4
A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia [1.1.11], p. 10.
5
1.1 Il fascismo.
L’avvento al potere del fascismo coincise con il rafforzamento dello spirito
conciliatorista verso la Santa Sede. L’idea del regime di forgiare una
nazione unita e compatta lo portò sin dall’inizio ad adottare politiche
contrarie ad ogni tipo di minoranza, tra cui anche quella religiosa.
Naturalmente ciò portò a delle conseguenze per le confessioni religiose non-
cattoliche. Prima fra tutte fu la perdita della posizione di parità, seppur
precaria, di tutti i culti dinanzi allo Stato, ottenuta in precedenza. Questa
situazione divenne palese con la Stipula dei Patti del Laterano nel 1929. Più
precisamente l’articolo 1 del Trattato richiamava la prima parte dell’articolo
primo dello Statuto Albertino (La Religione cattolica, apostolica, e romana,
è la sola Religione dello Stato.), trascurando, però, il secondo inciso (Gli
altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.). Questa
situazione ambigua poteva dar adito a due diverse soluzioni: “ Sia che con
esso si volesse significare addirittura la revocazione anche di quella
tolleranza concessa dallo Statuto, revocazione che affermata come principio
si sarebbe poi attuata con l’emanazione di apposite norme legislative ” sia, al
contrario, che tale omissione comportasse il mantenimento del “ sistema di
sostanziale parità giuridica tra la religione cattolica e gli altri culti. ” .
5
La
prassi successiva sembrò evolvere verso questa seconda possibilità. Il
progetto di una legge che si occupasse dei culti acattolici era già pronto a
poche settimane di distanza dalla stipula dei Patti lateranensi. A questo
proposito è utile ricordare come il moderatore della Tavola valdese, avesse
rivolto un promemoria al Ministro della Giustizia e dei Culti, Rocco,
contenente quattro richieste riguardanti la nuova legge:
• Sostituzione dell’espressione “culti tollerati”,
ritenuta offensiva, con quella “culti
ammessi”;
• Protezione uguale per tutti i culti riconosciuti
dallo Stato;
• Diritto di celebrare matrimoni con effetti
civili, come riconosciuto alla Chiesa
cattolica;
5
O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi [ 1.2.4], pp. 9-10.
6
• Dovuto rispetto verso gli acattolici, non solo
nella legge, ma anche di fatto.
6
In effetti, la legge 24 Giugno 1929, n. 1159 , “ Disposizioni sull’esercizio dei
culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri di
culto medesimi ” , già nel titolo conteneva motivi di soddisfazione per gli
acattolici, ed in particolare per i Valdesi. Si parlava appunto di “culti
ammessi” e della possibilità di celebrare matrimoni religiosi con
eventualmente effetti sul piano civile. E’ da notare come, tralasciando il
carattere giurisdizionalista di questa legge, ad essere oggetto della disciplina
legale vera e propria, non siano i culti, bensì gli istituti, ovvero gli enti
esponenziali della confessione, ad esempio l ’articolo 2 , citava
esplicitamente “ Gli istituti di culti diversi dalla religione dello Stato ” i quali
“ possono essere eretti in ente morale, con Regio decreto su proposta del
Ministro dell'Interno, uditi il Consiglio di Stato e il Consiglio dei ministri ” .
L’articolo 3 invece lasciava aperta la via del riconoscimento ministeriale
dei ministri di culto di dette confessioni. La soddisfazione delle confessioni
acattoliche era basata anche sul favore dei loro organi rappresentativi per
l’assetto verticistico che veniva imposto alle confessioni stesse. Nonostante
la legge fosse di provenienza statale, i tentativi di concertazione furono
molteplici: il progetto venne sottoposto al Moderatore della Tavola Valdese,
un ruolo importante nell’elaborazione della legge venne svolto anche
dall’ebreo Mario Falco, difatti il Consorzio delle comunità israelitiche
italiane, aveva già da tempo in atto un confronto col Ministero della
Giustizia per addivenire ad una modifica della legge Rattazzi. La situazione
per gli acattolici era allora mutata, si era passati dalla soggezione al diritto
comune del periodo liberale tardo ottocentesco, alla sottoposizione ad una
legge speciale, ma pur sempre generale, nel senso che non teneva alcun
conto della specificità delle singole confessioni. Era il rovescio della linea
prevalsa nel Piemonte post-1848: una legge che entra minuziosamente nelle
vicende interne delle confessioni, senza però essere negoziata,
uniformandole su di uno schema burocratico uguale per tutte. La definizione
del Peyrot, il coacervo degli indistinti , rendeva pienamente il concetto di un
6
Promemoria dell’11 Marzo 1929, riportato in J. P. Viallet, La Chiesa valdese [3.1.13], pp.
123-124.
7
gruppo disomogeneo di confessioni, unite dal solo fatto di essere diverse
dalla cattolica. A questa legge seguì a breve il decreto attuativo, nel quale si
palesò l’interpretazione governativa della materia, ben lontana da
considerare la legge sui culti ammessi come una sorta di Magna Charta
degli acattolici. Un fulgido esempio in questo senso può essere considerata
la relazione del Guardasigilli Rocco alle camere: “ Il permesso accordato ai
seguaci dei culti acattolici di liberamente dedicarsi alle pratiche religiose
secondo i propri convincimenti non significa indifferentismo dello Stato in
materia religiosa, né, tanto meno, adesione alle dottrine di tali culti. Esso è
invece la pura e semplice conseguenza del principio generale di diritto
pubblico che ogni attività, la quale non sia in contrasto con le esigenze
fondamentali della Società e dello Stato, deve essere ritenuta lecita e, come
tale consentita e tutelata dalla legge. La formula, pertanto, usata nelle leggi
posteriori allo Statuto – culti tollerati – non ha dal punto di vista giuridico,
sostanzialmente diverso significato. Lo stato, cioè, pur professando la
religione cattolica, che è la religione della quasi totalità degli italiani,
consente, permette, ammette e quindi tutela anche l’esercizio di altri culti,
quando non ne derivi danno ai principi essenziali che reggono la vita dello
Stato ” 7
. Le norme di attuazione erano contenute nel RD 1930 n. 289, in
esso era elencata una seria imponente di controlli e di autorizzazioni : per
l’apertura di templi ed oratori (art. 1); per tutte le attività di tali enti (art. 13);
poteri di ispezione e di nomina di un commissario governativo (art. 14);
approvazione della nomina dei ministri di culto (art. 20 ss). Soprattutto,
l’art. 22 imponeva la presenza di un ministro di culto “approvato” per
qualsiasi pratica di culto. Quindi ciò che nella legge sui culti ammessi era
visto come diritto, ora veniva degradato a mero interesse di fronte ad un
potere del tutto discrezionale della pubblica amministrazione. Nel 1932, il
mutamento di prospettiva venne coronato dal cambiamento della titolarità
della politica dei culti acattolici: con i RDL 1932 n. 884 e 1080, le
competenze che erano sino ad allora state del Ministero della Giustizia,
passarono al Ministero dell’Interno. Si trattava di una scelta che avrebbe
avuto numerose conseguenze: prevaleva una mentalità poliziesca, in linea
con lo spirito del t.u. in materia di Pubblica Sicurezza, RD 1931 n. 773 . Per
7
Il passo della relazione è riportato da O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti
ammessi [1.2.4], p. 10.
8
esempio all’art. 18 esso conteneva una disposizione che affidava all’autorità
di pubblica sicurezza il potere di considerare pubbliche, in circostanze
discrezionalmente apprezzabili, anche le riunioni indette in forma privata
ma in luoghi aperti al pubblico. Tale articolo costituirà lo strumento del
regime per vietare le riunioni di culto o preghiera, anche in case private.
8
La
legislazione successiva da restrittiva, diventò di divieto per alcune
confessioni, come i Testimoni di Geova e l’Associazione degli Studenti
della Bibbia (1940), se non dichiaratamente razziale per gli Ebrei, con
l’emanazione nel 1938 delle cosiddette “leggi razziali”, le quali avevano
anche l’effetto indiretto di colpire la libertà di una confessione religiosa.
8
L’art. 25 t.u.p.s. che sanzionava il divieto di riunioni religiose in luoghi considerati aperti
al pubblico, ai sensi del citato art. 18, fu dichiarato incostituzionale nella sentenza n. 45 del
1957 della Corte Costituzionale. La prima pronuncia significativa della Consulta in materia
di libertà religiosa.
9
1.2 La Costituzione Terminato il secondo conflitto mondiale, con l’elezione dell’Assemblea
Costituente, nelle minoranze religiose nacquero molte speranze circa una
possibile evoluzione della loro situazione giuridica. La proclamazione di
una religione di Stato, inserita nello Statuto del 1848, ma formalmente
inoperante sino al 1929, era stata concretizzata nei Patti lateranensi ed,
ancora di più, nella legislazione successiva. Era chiaro allora come gli
acattolici si aspettassero quantomeno il superamento del principio
confessionista, allo scopo di ottenere maggiori ambiti di libertà. La cultura
giuridica dei costituenti era chiaramente ispirata dal pensiero di due grandi
giuristi: “ La nostra Costituzione […] se, in materia di libertà religiosa, s’è
ispirata all’insegnamento del Ruffini, in materia di autonomia e, perciò,
anche di libertà delle istituzioni ecclesiastiche trova tuttora una valida
spiegazione giuridica nell’insegnamento di Santi Romano. ” 9
Nella
sottocommissione che doveva occuparsi della libertà religiosa e, dunque, dei
rapporti Stato-Chiesa, furono nominati due relatori, il laico Cevolotto ed il
democristiano Dossetti. Il primo ripropose lo schema che aveva
caratterizzato l’epoca liberale: affermazione della libertà e dell’uguaglianza
dei cittadini, che comporta come conseguenza l’eguaglianza dei culti. Il
punto dolente, era rappresentato, dal desiderio di non menzionare nella
nascente carta costituzionale i Patti lateranensi del 1929, tutto ciò per evitare
la discriminazione, o almeno la presunta discriminazione, che ne sarebbe
derivata per le altre confessioni. Dossetti, invece, si poneva in continuità
con i patti del 1929, chiedendo apertamente la costituzionalizzazione di tali
accordi. A questo punto è necessaria un’analisi comparata sulla genesi degli
artt. 7 e 8 della Costituzione, riguardanti rispettivamente, la Chiesa cattolica
e “le confessioni religiose diverse dalla cattolica”. Per quanto riguarda l’art.
7, dopo aver citato i due maestri – Ruffini e Romano – l’influenza
dominante circa la stesura di questo fondamentale articolo , era chiaramente
identificabile con il magistero ecclesiastico, noto anche come “dottrina
sociale” della Chiesa, fatto risalire a Leone XIII, Pio XI e Pio XII.
Osservando anche solo il semplice tenore letterale dell’articolo in questione:
9
F . Finocchiaro Il diritto ecclesiastico, in AA.VV. Le dottrine giuridiche di oggi e
l’insegnamento di Santi Romano, a cura di P. Biscaretti di Cuffia, Milano, 1977, p. 174.
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“ Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti
accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione
costituzionale. ” si nota come il costituente abbia attinto dal Diritto Canonico, in particolare
dalla sua partizione, nota come Jus Publicum ecclesiasticum . I principi
recepiti nel testo costituzionale sono molteplici. Il più importante di questi è
quello contenuto al primo comma, il quale fornisce la qualificazione
giuridica dell’ordinamento canonico: la Chiesa cattolica viene riconosciuta
come societas iuridice perfecta, intesa come ordinamento giuridico
originario e soprattutto, autonomo ed indipendente. Proprio questi, ovvero
l’autonomia e l’indipendenza, rappresentano un altro principio canonistico
presente nell’art. 7 della Costituzione, esso è desumibile non direttamente,
ma tramite interpretazione: riconoscere un ordinamento come indipendente
e sovrano e, dettare le norme per la sua regolamentazione, in un secondo
momento, sarebbe un palese controsenso. L’unico strumento possibile,
allora, per due ordinamenti giuridici insistenti sul medesimo territorio, come
sulle medesime persone, era quello pattizio. Tale problema fu posto con
estrema chiarezza, in sede di Assemblea costituente, dal Dossetti :
“ L’autonomia originaria dello Stato e della Chiesa cattolica, implica, per un
rigore logico che non consente evasioni, tutta una serie concatenata di
conseguenze, che ci porta come sbocco fatale al principio della bilateralità
necessaria della disciplina dei rapporti fra le due società ” . Da queste
premesse il Dossetti continuava: “ …se il contatto è inevitabile, e se esso
deve implicare il reciproco riconoscimento come ordinamenti primari , esso
non può altro che avvenire attraverso un negozio bilaterale di diritto esterno
fra ordinamenti originari, cioè attraverso quel tipo di negozio che si chiama
concordato. ” . Naturalmente, l’inserimento in costituzione di principi esterni
all’ordinamento venne mitigato dalla contaminazione con altri filoni di
pensiero dell’area cattolica, in primis quelli facenti capo a Rosmini, come a
don Sturzo o al filosofo francese Maritain. Dalla contaminazione in
questione è sorto il principio della parità giuridica tra Stato e Chiesa,
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