8
Fu Craxi, con un editoriale su «l’Avanti !» il 25 settembre del 1979, a riprendere il
tema del cambiamento, con una proposta di Grande Riforma sostanzialmente ispirata ai
princìpi presidenzialisti e, in ogni caso, volta a ricondurre l’anomalia italiana sui binari
dell’ingegneria istituzionale, abbandonando, in ciò indirettamente appoggiato dal
ritorno del PCI all’opposizione
7
, le prospettive di più ampio respiro che Moro aveva
incominciato ad abbozzare già con le riflessioni sul biennio ‘68-’69, anche se
circondandole con quella cautela che costituiva il tratto distintivo del suo impegno
politico.
Che Craxi avesse toccato un nervo scoperto fu confermato dal vivace dibattito che si
aprì intorno al tema della governabilità degli Stati, che la scoperta degli elenchi della
P2
8
, unitamente all’allegato Piano di Rinascita democratica, mostrò essere argomento
di diffusa attenzione ed oggetto di sotterranee proposte di riforma.
Come sottolineato nelle conclusioni presentate alla Commissione Trilaterale
9
, le
democrazie si trovavano ormai ad un cambio prospettico: soffocate dall’eccesso di
domanda che proveniva dai cittadini ed incapaci di compiere una selezione, dovevano
rafforzare le proprie basi esecutive, congiuntamente ad altri rimedi, per fronteggiare
con maggiore saldezza le sfide lanciate dalla fine del decennio.
I mutamenti a livello mondiale, che sempre più pervasivamente stavano incidendo
sull’efficacia di forme di governo e rappresentanza condizionate dall’economia, non
furono colti dalla classe politica, che, convulsamente impegnata a congelare nella
formula pentapartitica i tentativi di ribaltare decennali immobilismi, dopo un accenno
(Decalogo Spadolini), creò la Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali
10
-
presieduta dall’on.Bozzi (PLI) - che, però, compì un lavoro la cui risonanza esterna fu
pressoché nulla.
È fin troppo semplicistico concludere che non c’era la volontà politica di mettere
mano alla Costituzione, nonostante - e ciò può sembrare oltremodo sorprendente oggi -
non si fossero sollevati i medesimi problemi degli ultimi mesi, quando fu deciso di
ritoccare anche la prima parte dell’opera dei Costituenti.
9
Vennero poi gli anni della politica della “staffetta”, che rileggiamo con giudizio
profondamente negativo; tempi, insomma, in cui apparentemente nulla si muoveva sul
fronte delle riforme.
In realtà, come rimarca Cotturri
11
, l’omicidio di Ruffilli ad opera di sedicenti Brigate
Rosse può essere spiegato in relazione alla sua attività di studioso da tempo impegnato
sul fronte del cambiamento, oltre che stretto amico di De Mita, il quale, infatti, in
quest’ottica lesse immediatamente il barbaro atto.
Rimaste senza esito le spinte ingraiane
12
in un PCI ormai alle prese con il problema
di arrestare il proprio declino dopo la pesante sconfitta nel referendum sulla scala
mobile
13
, il fronte delle riforme restò concluso all’interno di seminari e convegni, con
qualche sporadica, ma mai convinta, sortita di Craxi, in materia, ad esempio, di
referendum propositivo.
Fu con il crollo del Muro di Berlino, cui fece immediato seguito la trasformazione
del PCI in PDS (con la dolorosa scissione del troncone intorno al quale si aggregarono
le forze con le quali nacque Rifondazione Comunista)
14
, che il quadro politico subì un
forte scossone che inevitabilmente riportò in agenda il tema delle riforme istituzionali.
Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica
15
, iniziò, dopo una prima fase
“notarile”, la propria esperienza di Picconatore e, godendo di un consenso che gli
derivava per riflusso dalla fuga che in tanti stavano compiendo dai partiti, nonché
dall’attenzione incessante dei media, si tolse il gusto di menare fendenti a destra e a
manca, criticando fatti e persone (grande sconcerto suscitò la frizione con Andreotti),
ma, in particolar modo, incominciando a sponsorizzare un diverso modello di assetto
istituzionale, rovesciando, di fatto, il ruolo del Capo dello Stato, che è quello di custode
della Costituzione.
Consumatosi per via referendaria uno degli atti decisivi del crollo di un sistema
partitico ormai marcio ed incapace di fornire risposte alle nuove esigenze dei cittadini,
e decretato da più del 95 % dei votanti il successo del movimento referendario
16
,
10
Cossiga giunse al punto di inviare alle Camere un messaggio
17
nel quale sollecitava le
forze presenti in Parlamento ad occuparsi di una incisiva riforma costituzionale.
Messo in stato d’accusa da parte della sinistra, il celebre “Esternatore” proseguì
tuttavia nel suo mandato fin quasi alla naturale scadenza, da lui anticipata con
dimissioni in diretta televisiva
18
.
Il quadro politico era cambiato totalmente. Le elezioni del 1992, giunte con un
insignificante anticipo nonostante la rottura del patto di governo ad opera del PRI, non
consegnarono al quadripartito la maggioranza, segnando, tra l’altro, l’affermazione
clamorosa della Lega Nord, che, con il suo 8.7 %, si propose come la vera novità
destabilizzante.
L’estrema fluidità della situazione, nella quale si preannunciavano quotidianamente
rese dei conti all’interno dei partiti, fu portata a livelli di totale instabilità
dall’esplosione dello scandalo di Mani Pulite
19
, anch’esso accompagnato da una
martellante campagna d’opinione contro il regime oligarchico della Prima Repubblica.
Quei giorni convulsi ed interminabili, nei quali ogni edizione dei TG dava conto di
qualche nuovo avviso di garanzia, concentrarono l’attenzione generale sulla riforma dei
partiti, sulla ridefinizione del ruolo di questi strumenti di democrazia nel campo delle
istituzioni e sulla creazione di sistemi in grado di garantire finalmente la governabilità
del Paese, che, avuta la lieta notizia del fallimento del piano di occupazione dei posti di
potere da parte del CAF, verificò tragicamente la propria debolezza con l’attacco
mosso dalla Mafia (ma fu solamente Cosa Nostra ?) ai giudici Falcone e Borsellino,
fino a giungere, nel settembre del ’92, con Amato alla Presidenza del Consiglio dei
Ministri, all’uscita dallo SME.
In un continuo turbinio di teste rotolanti, il Parlamento diede comunque vita ad una
nuova Commissione bicamerale
20
, inizialmente presieduta da De Mita e
successivamente, a causa dei problemi giudiziari che colpirono il fratello del leader
democristiano, da Nilde Iotti, figura di prestigio, nonché punto di congiunzione tra il
lavoro dell’Assemblea Costituente - di cui aveva fatto parte - e quello di una
11
Commissione nata da un Parlamento che nessuno poteva difendere e che, infatti, fu
sciolto nel 1994, in una situazione politica inedita, ma, soprattutto, senza aver
terminato il percorso di revisione (che in molti giudicavano politicamente illegittimo,
dal momento che non si riteneva corretto che l’ultimo Parlamento della Prima
Repubblica - perché tale appariva - disegnasse la Seconda).
Le elezioni del 27 e 28 marzo, con il nuovo sistema elettorale, maggioritario con
recupero proporzionale, segnarono la vittoria di una coalizione composita, F.It - CCD
con AN al Sud e F.It - CCD con la Lega al Nord, perita sotto il peso delle proprie
contraddizioni e degli attacchi sferrati a tutto campo contro i magistrati, i pensionati, la
TV pubblica ecc., e soprattutto contro la Costituzione, considerata dal Cavalier
Berlusconi - uno degli affiliati alla P2 - un bene a completa disposizione della
maggioranza (parlamentare).
Il pericolo corso dalla democrazia, già ferita a causa della presenza dei missini al
Governo, sollecitò la ripresa dell’impegno di Don Dossetti
21
, figura intorno alla quale
si raccolsero decine di politici, magistrati, cittadini, associazioni per dare vita ai
Comitati per la Costituzione, erettisi a protezione della stessa, ma al contempo divenuti
centro di assemblaggio delle proposte, provenienti dal centro - sinistra, di
cambiamento, al fine di non lasciare l’offensiva nelle mani di una destra decisa a
recidere ogni legame con i fondamenti antifascisti, lavoristici, egalitari e solidaristici
presenti nella Costituzione del 1948.
Tali Comitati servirono altresì da collante al progetto politico poi sfociato nell’Ulivo
e nella candidatura di Romano Prodi
22
.
Il dibattito sulle riforme, dopo il ribaltamento delle parti in un Parlamento che offrì a
Dini una nuova maggioranza
23
, riprese con uno spirito ben diverso, ma soprattutto con
una forte spinta a “fare sul serio” esercitata, in forme di gruppi di pressione, da più
parti.
Nonostante le resistenze strenue delle compagini che maggiormente hanno
idealizzato la Costituzione (sinistra radicale) e che in tutti i modi hanno cercato di
12
rinviare il momento della revisione, il centro - sinistra, pur diviso sulle concrete
modalità di revisione, nonché su alcuni progetti, si fece carico di avviare - con quella
destra, che rappresenta tanta parte dell’elettorato - un dialogo volto a ricondurre le
spinte plebiscitarie nel solco della tradizione più squisitamente parlamentare del Paese.
In particolare D’Alema, in ciò incarnando lo spirito di responsabilità del PDS, si è
fatto tessitore del dialogo, riconducendo Berlusconi a più miti e ragionevoli propositi,
ma, soprattutto, guidando l’intero schieramento di centro - sinistra, il più restio e
timoroso a modificare il patto originario, verso una comune riflessione circa
l’opportunità di dare finalmente uno sbocco a quello che tutti hanno col tempo
riconosciuto essere un vero e proprio processo costituente, affinché questa transizione
lunga
24
, durante la quale la parola “crisi” ha dominato incontrastata e senza mai
apparire obsoleta o inadeguata, avesse fine.
Come in tutti i progetti che inizialmente appaiono a somma zero, le resistenze di
stampo corporativo sono state innumerevoli, comprensibilmente volte per lo meno a
creare le condizioni più favorevoli alla propria parte prima di sedersi al tavolo delle
trattative.
È, ad esempio, in quest’ottica che Fini pose il veto al tentativo di Maccanico
25
, nella
speranza di vincere le elezioni resesi necessarie e quindi di avere la forza di rilanciare
la proposta di Assemblea Costituente, dal suo partito caldeggiata insieme ai CobaC di
Segni, Cossiga e Scognamiglio. Il calcolo si è rivelato totalmente errato e la vittoria
dell’Ulivo, scampato al rischio di non avere la maggioranza nonostante le speranze
nutrite in tal senso dalla Lega, che aveva deciso di correre da sola credendo di risultare,
a conti fatti, l’ago della bilancia (qualunque fosse stato il vincitore), ha permesso al
processo costituente di giungere ad un approdo che ci si augura possa essere definitivo.
La strada scelta per procedere alla revisione costituzionale è stata imboccata dopo
infinite pressioni nelle più diverse direzioni, anche se è stata la proposta di una nuova
Assemblea Costituente la prima a raccogliere i maggiori consensi.
13
Anche da sinistra si era teorizzata questa soluzione come la più opportuna e
trasparente, salvo accorgersi in breve che le insidie sarebbero risultate senz’altro
superiori alle aspettative
26
.
Anche Berlusconi, nonostante la propria inclinazione ad evocare continuamente la
necessità di pronunce dirette del popolo, ha dovuto prendere atto delle difficoltà di
condurre in porto un’operazione costruita in questo modo e, sebbene ci fosse una
concreta possibilità di ottenere una maggioranza di centro - destra in una Costituente
eletta con il metodo proporzionale, ha ceduto alla proposta sostenuta dagli avversari,
anche perché ha reputato possibile essere meno condizionato dagli alleati più deboli.
È così nata la terza Bicamerale - anche per le resistenze sempre più flebili opposte a
questo disegno da Rifondazione e dai Verdi - la cui salute è però stata subito
minacciata dalla valanga di polemiche rotolata sull’art.4 della legge costituzionale
27
,
nel quale è previsto, con una forte ma a quel punto inevitabile deroga all’art.138, un
referendum finale unico sull’intero pacchetto di riforme, che sono state circoscritte
(come concessione a coloro che temevano - in maniera non del tutto infondata vista
l’esperienza del Comitato Speroni - addirittura tentativi di stravolgimento dei princìpi
generali) alla seconda parte, cioè agli articoli che vanno dal 55 al 139.
Per la verità, lo scoglio che il 138 ha rappresentato sulla strada delle riforme è stato
di notevole mole
28
, poiché proprio intorno alla necessità di rivedere i quorum da esso
stabiliti per le modifiche - esigenza resa più che mai attuale dallo stravolgimento
indotto dal nuovo sistema maggioritario, con il quale sono possibili maggioranze
vastissime in Parlamento pur a fronte di un consenso minoritario nel Paese - si è
concentrata l’attenzione e il timore di non trascurabili settori della società civile e della
politica.
Eppure, la contestazione mossa al referendum unico appare quanto meno eccessiva
29
(anche se non può eludersi la questione del precedente che esso costituisce):
14
1) perché la previsione di un referendum dotato del requisito della necessità è un
passo avanti rispetto all’attuale disposizione costituzionale che lo prospetta soltanto
come eventuale;
2) perché tale soluzione compensa parzialmente la presenza di un quorum cui non si
è messa mano e che quindi mantiene i limiti cui si è fatto cenno;
3) perché rimette ai cittadini la decisione finale circa un processo che non può
rimanere nel chiuso delle stanze romane;
4) perché non avrebbe assolutamente senso chiedere delle pronunce per argomenti (e
perché non per articoli ?), in quanto si correrebbe il rischio di risultati discordanti che
lascerebbero aperte ferite insanabili, essendo i titoli di una Costituzione tra di loro
strettamente uniti (forse soltanto quello inerente “la Giustizia” è isolato dagli altri).
Si aggraverebbe, anzi, la scucitura già provocata dalla decisione di non toccare
articoli che sono invece strettamente connessi a quelli che, solo con superficialità,
possono essere reputati meramente “organizzativi” e “tecnici”
30
.
Con la volontà di sottrarre alle furiose sciabolate di alcuni i primi articoli della
nostra Carta, si è contemporaneamente tolta la possibilità di implementare la portata
universalistica del Patto nazionale a chi, con più pacifiche velleità, avrebbe cercato di
lavorare in favore di un adeguamento di alcune norme alla realtà di una nazione
proiettata in un mondo nuovo
31
.
Questa chiusura, queste resistenze sembrano giungere per l’azione di dubbi inerenti
l’opportunità di una revisione costituzionale, che in molti si sono sforzati di respingere
in omaggio ad un’interpretazione costituzionale inarcata all’indietro, ad un passato in
cui il Patto Supremo regolava l’orologio di civiltà sconvolte con cadenze secolari da
drammi quali guerre e carestie
32
.
Ma altri tentennamenti sono giunti durante il lavoro, più che per una mai dissolta
predilezione per l’Assemblea Costituente, a causa di una insoddisfazione sui contenuti
che ha rallentato il dialogo, delimitando i confini dei territori nemici, e, soprattutto,
rigettando la più savia riflessività di chi ha spiegato debba procedersi «per prova ed
15
errore»
33
, ricercando continuamente equilibri che, scaturendo da una atomizzata
pluralità, lasciano da canto la vieta geometria delle proporzioni semplici, e necessitano
una predisposizione alla prosecuzione di un processo (appunto) che non si è esaurito il
4 novembre 1997 e che non conoscerà fine neanche nel caso in cui il Parlamento
completi la propria opera in senso positivo.
Non si tratta solamente di disporsi a ricercare soluzioni più adeguate e più avanzate
di quelle che capricci ed interessi di parte bruciano in partenza, ma di allargare la
propria capacità di venirsi incontro di continuo, senza credere che mettere mano alla
Costituzione possa, come in passato, rappresentare un episodio eccezionale che si
colloca in una frattura temporale sgorgante da qualche evento di irripetibile portata.
Non soltanto perché la vecchia casistica (guerre ecc.) segna il passo in un’era in cui
ben altre e con differenti maschere sono le trasformazioni, ma perché, se è vero che una
Costituzione deve rappresentare i valori più profondi sui quali si fonda la convivenza di
un popolo, è innegabile che non si sia più in presenza di un omogeneo paradigma più o
meno condiviso.
Ciò non può significare la riduzione della Carta a Codice Civile, cioè ad un
adattamento continuo ed ondeggiante alle inclinazioni della maggioranza di turno, ma
non può neanche significare abbandonare ogni speranza di adeguamento ad una
dimensione mondializzata che facciamo fatica ad interpretare, non soltanto per la
vicinanza che ci priva della “prospettiva dello storico”, ma perché la mondializzazione,
nonostante la presenza di caratteri dominanti, e fortemente occidentalizzati ed
occidentalizzanti, traduce una apertura alla pluralità che rimette in discussione i cardini
della contemporaneità, a partire dallo Stato - nazione
34
.
La sua crisi, ampiamente diffusa in Occidente, può simboleggiare vari fenomeni e
può anche essere interpretata come prodotto di una perturbazione che lo lambisce di
riflesso, perché originata altrove.
Il risultato è, però, sotto gli occhi di tutti: una lievitazione delle richieste federaliste
ed indipendentiste, che bruscamente costringono a ripensare i modi ed i tempi
16
dell’unificazione europea, lanciando la sfida della garanzia dei diritti universali e di
standards di vita rispettosi di tali conquiste, che evitino la vertiginosa riproposizione di
quella scollatura già presente a livello planetario tra i 2/3 di benestanti e il terzo di
nullatenenti, e che, invece, vediamo allargarsi in questa fine secolo, in cui il lavoro sta
cambiando forma ed ancoraggio territoriale, collocandosi alla mercé dello strapotere
della finanza mondiale, annidata nei meandri di capitali soggetti ad un’impressionante
transnazionalità e volatilità.
Cercare di indossare lenti opportunamente graduate per avere una vista nitida di
tutto ciò è un compito nel compito: una difficoltà interna alla difficoltà di rispondere
alle paure che si tramutano in episodi irrazionali, in una ricerca del benessere
immediato, in forme di rigetto della multiculturalità e della multirazzialità, in crescita
delle economie e delle società (nelle società) illegali, che forniscono un volto nuovo
alle organizzazioni criminali, sempre meno localizzabili in territori circoscritti.
Non si può pensare che di fronte ad un mondo che cambia così radicalmente anche il
patto da stringersi tra gli attori della nostra precaria identità nazionale possa restare
fermo a mezzo secolo fa.
Leggendo il risultato del lavoro finora compiuto non è poi così strano nutrire un
rancoroso disprezzo verso certe superficialità e certi arretramenti.
Anzi, vi sono interi capitoli - come quello sulla giustizia
35
- che meriterebbero il
pollice verso quasi in ogni comma.
La questione non risiede, come pure si vorrebbe far credere ancora a fine marzo ’98,
nella maggiore opportunità di rimandare il tutto a leggi ordinarie.
Si è assistito alla costituzionalizzazione di norme di secondaria importanza, che
meglio sarebbe stato (appunto perché la Costituzione non è un Codice) affidare al
legislatore ordinario, ma non è questo il nodo gordiano.
Declamare, come se si trattasse di un concorso di poesia, versi con i quali si implora
la sottrazione alle grinfie del “Costituente” della tanto delicata materia, significa voler
far credere che la rinuncia alla composizione del conflitto durante la riscrittura della
17
Costituzione possa trovarsi nella attività ordinaria del Parlamento, trascurando di
rilevare che è sempre questo il protagonista dei due momenti.
Occultare questa verità rimanda solamente il momento di ricerca di quel punto di
unione il cui valore e la cui qualità politica sarebbero più alti in sede di riforme
costituzionali.
Ma anche chi spende le proprie energie, la propria forza di interdizione sul tema del
semipresidenzialismo o su quello federale, si impegna alla ricerca di un mastice
infallibile o sonda più semplicemente il terreno per poi chiamare gli amici alla rivolta ?
È sorprendente che nessuno si sia adoperato per creare le premesse per la
continuazione della ricerca di nuovi valori anche nel caso di fallimento del tentativo in
corso, a maggior ragione oggi che non si ha più la spericolatezza di indicare
l’Assemblea Costituente come rimedio al quale ricorrere immediatamente.
Non credo che il motivo di ciò vada rintracciato nella presa d’atto che la
frantumazione che colà si verificherebbe renderebbe ancora più arduo il tentativo di
trovare un ponte tra tutti gli eletti.
Mi sembra che stia iniziando ad incrinarsi la baldanza con la quale la politica aveva
orgogliosamente manifestato la volontà di riappropriarsi della centralità sottrattale
dall’economia e da altri poteri più o meno forti, erettisi a suoi supplenti durante
l’accartocciamento di un sistema politico bersagliato dai cittadini e dalla magistratura
con esiti immediatamente fruttuosi, sintomo della sua incapacità ed inadeguatezza a
reggere le fila di un mondo senza muri.
In molti frangenti dell’opera della Commissione prima e delle due Camere poi, è
apparsa palese l’intenzione di rifarsi un prestigio a danno altrui, non esibendo le
auspicate capacità di riprendere in mano le redini della gestione politica del territorio,
inclinando verso una scelta presidenziale che, se anche opportuna in una realtà federale
e di ancora indefinito bilanciamento tra Comuni e Regioni, non può ritenersi una svolta
risolutrice, perché istituisce una carica che sarà conquistata da chi, in altra veste, non si
è dimostrato capace di coagulare un compatto fronte riformatore.
18
********
Non so se le pagine precedenti siano bastevoli a fornire qualche giustificazione circa
la scelta del titolo; sono però sicuro che il resto dello scritto possa gettare un po’ di luce
su altri elementi che contribuiscano a fare piena giustizia dell’aggettivo IRTO e del
sostantivo CAMMINO.
IRTO usualmente rimanda l’immaginazione a sentieri di montagna gravidi di
insidie, mentre CAMMINO trasmette una sensazione di lentezza, di processualità, ma
anche di difficoltà.
Lungi dal voler connotare negativamente la storia che cercherò di ricostruire e
commentare, l’immagine dell’IRTO CAMMINO vuole offrirsi alla mente del lettore
con una significazione duplice ma unitaria al tempo stesso:
a) letteralmente, come cammino disseminato di insidie, anche mortali, e di lunga
durata;
b) ma anche alla stregua dell’immagine vera di ciò che è la democrazia: convivenza
comune che richiede aperture, concessioni, rinunce, sforzi comuni per superare gli
ostacoli violentemente messi in campo da chi gioca solo scorrettamente e da chi si
adopera in tutti i modi affinché sul terreno del leale confronto non si metta piede (senza
dimenticare chi vorrebbe, agendo nelle tenebre antidemocratiche, predeterminare il
risultato con l’uso di subdoli strumenti).
È nella somma dei succitati punti, nel loro intreccio, nella loro equilibrata miscela
che, ancora oggi, in un’epoca di velocità supersoniche e di ripudio della virtù del
dialogo, misureremo la portata di una democrazia che voglia non solamente rendere il
nostro Paese una realtà “normale”, ma anche contribuire a dimostrare pubblicamente
che ogni arretramento dalle pratiche democratiche è un salto indietro nell’oscurantismo
di passati, che talvolta si riaffacciano quando non si è capaci di illuminare le virtù di
questo sistema di convivenza, il cui nome, oramai ultramillenario, deve rappresentare
19
uno sprone incessante alla creazione di un mondo migliore, anche se in tanti si
spendono per convincere i popoli a non volgere mai lo sguardo verso l’orizzonte.