Regola 1
“L’autobiografo svolge un doppio ruolo, in quanto si trova all’origine sia del contenuto, sia della
struttura del testo”.
Regola 2
“Le informazioni e i fatti riportati in rapporto all’autobiografo sono stati, sono o possono essere
reali”.
Regola 3
“L’autobiografo deve credere in ciò che afferma, sia che il contenuto del suo racconto possa venir
messo in dubbio o meno, sia che esso possa essere espresso in un altro modo ed in una forma più
accettabile da un altro punto di vista.
Risulta chiaro come la prima regola dettata dalla Bruss ben si adatti al quadro teorico proposto dal
patto autobiografico di Lejeune che individua, nella corrispondenza tra
autore/narratore/personaggio, il principio cardine mediante il quale è possibile distinguere ciò che è
autobiografia da ciò che non lo è. Una gabbia di definizione molto forte che si contrappone all’idea
di Paul de Man di una ontogenesi della scrittura autobiografica che ci conduce all’impossibilità di
tracciare confini ideali per una composizione che sfuma sempre verso altri paradigmi letterari.
Aggiunge inoltre che la sua visione non può essere limitata al Genere ma si configura piuttosto
come “comprensione” che il soggetto-Autore realizza nella dialettica con il Soggetto-Personaggio.
Il dialogo tra i due si instaura sul rapporto tra analogie e differenze ed entrambe beneficiano delle
“verità”, emerse durante la rimemorazione, che concorrono al processo di costruzione dell’identità
individuale.
Una dimensione intermedia, che mi trova sufficientemente d’accordo rispetto ad una tonalità forte o
totalmente assente, viene proposta da Georges May
4
che opera una sostituzione del termine
“definizione” con quello più appropriato di “tendenza”. Lo studioso ci avvisa che “Ciò che si perde
in precisione, dall’altro lo si guadagna in esattezza. Se ad esempio, per scrupolo di definire,
decidessimo che l’autobiografia è un’opera in prosa, intenderemo dire che tutte le autobiografie
sono in prosa (condizione richiesta dal Patto Autobiografico): affermazione che è certamente
precisa, ma implica che tutte le autobiografie scritte in versi (tra cui il “Prelude” di Wordsworth che
il suo stesso autore indica come poema autobiografico) non sarebbero autobiografie.
Mentre se, al contrario, diciamo che l’autobiografia tende ad essere composta in prosa, intendiamo
dire che la maggior parte delle autobiografie lo sono : affermazione che è esatta.” La stessa scala di
valori progressiva potrebbe essere adottata per tutte le tematiche relative alla carta di identità
dell’elaborato autobiografico : Veridicità/Falsità, Completezza/Omissione, Età media dei soggetti,
Rapporto di coerenza tra Autore e Personaggio, etc.
J.V. Gunn
5
ci presenta invece, una condizioni diversa rispetto agli altri autori poiché si posiziona
sul ruolo di chi legge. Sia l’autore che il lettore condividono un universo storico predefinito ciò che
Gadamer definisce come orizzonte previo (Iannotta, 2000). La necessità diviene allora quella di
interpretare la produzione autobiografica alla luce di quella collocazione spazio-temporale nella
quale entrambe gli interessati, produttore e fruitore, appartengono. L’esperienza umana
costituirebbe sia l’incipit che il telos autobiografico, e quando decidiamo di tradurla in linguaggio
non possiamo fare a meno di inserirla in un contesto intelligibile. Per la Gunn infatti non si
dovrebbe partire da una definizione che tenga conto della scrittura privata dell’Io, quanto semmai
da un processo di ermeneusi al quale è sottoposto sia l’autobiografo (che rilegge la propria vita) che
il lettore in senso stretto. Il rapporto con il Tempo non è di fuga ma di immersione. Questo ci
consente di assumere, secondo la Gunn, un contatto diretto con quel Mondo che siamo stati abituati
4
May G., Op. Cit.,pagg. 61 e ss
5
Gunn J.V., Op. Cit., pag.74
a dare per scontato, per esistente; ci ricorda l’affermazione di Kierkegaard il quale annuncia che
“esistere è, in verità, penetrare la propria esistenza con coscienza”
6
.
Un risveglio dalla caverna Platonica, che comprende un traslazione da ombra a substantia.
“Solo se è dentro il tempo e si manifesta nel mondo, l’Io può essere partecipe della profondità”
7
. Si
potrebbe riassumere il punto di vista della Gunn asserendo che nella dimensione temporale
l’individuo ri-scopre la sua finitudine, e questa temporalità è possibile coglierla soltanto all’interno
di un quadro culturale nel quale l’individuo stesso nasce, si sviluppa e muore.
Consentendomi di mutuare il termine dall’informatica, il processo narrativo si potrebbe definire
quale deframmentazione dell’unità di disco rigido che è la nostra memoria. Ogni singolo vuoto
generato dall’oblio finisce col riprendersi il suo giusto spazio, ottimizzando i percorsi di
elaborazione del ricordo e giustificando una coerenza sintattica dei vari engrammi che si
restituiscono al soggetto come un unicum della propria identità.
6
Demetrio D., Op. Cit. pag. 5
7
Gunn J.V., Op. Cit. 75
Cos’è il Pensiero narrativo?
La capacità di attribuire significati e senso a ciò che ci circonda si manifesta attraverso il pensiero
narrativo.
Per comprendere meglio questa modalità o attitudine del genere umano dobbiamo partire dal
binomio canonicità/violazione.
Umberto Eco ci fa notare come il termine “Libro” abbia una definizione precisa ed inequivocabile
sul dizionario della lingua italiana : “insieme di fogli stampati, rilegati e raccolti entro la
copertina”
8
. Appare lecito domandarsi quindi se il suo dizionario di latino oramai datato, con fogli
staccati e senza copertina possa essere incluso nella definizione di cui sopra. La questione dunque
rileva un problema fondante del pensiero narrativo : cosa mi consente di accomunare un oggetto
pensato e classificato entro certe caratteristiche spazio-temporali traslandolo su un piano descrittivo
capace di restituirmi la stessa categoria iniziale? Per dirla in modo semplice: cosa mi consente di
ritenere il mio dizionario di latino ancora un libro e non qualcosa di diverso? Per tentare una
spiegazione di questo dobbiamo attraversare quell’asse verticale che presenta alle sue estremità due
modalità di pensiero : uno paradigmatico e l’altro sintagmatico.
Le norme sociali, le conoscenze in genere, le parole, le intenzioni, etc. Possono essere pensate
attraverso queste due modalità distinte
9
.
La prima, quella paradigmatica, assembla le varie tassonomie nella concezione di A>Non-A ,
quello che può essere definito libro e tutto ciò che non lo è. Il suo processo avviene mediante una
stratificazione culturale che comporta una serie di connotati e parametri di riferimento che ci fanno
partire da A ed escludere automaticamente tutto quello che risulta Non-A. Tale modalità
presuppone dei confini forti atti a delimitare i vari campi categoriali che interessano proprietà
specifiche di un oggetto.
8
Smorti A. Narrazioni, Ed. Giunti, 2007, pag. 160
9
Smorti A. Op. Cit. pagg. 162 e ss
Se l’intero sistema universale fosse codificabile in maniera così semplice, ogni rappresentazione
troverebbe il suo corrispondente nella definizione che la interessa.. Tutti noi sappiamo però che
questo non è assolutamente possibile perché ciascun individuo nel valutare la realtà circostante, pur
richiamandosi a principi percettivi generali, mostra un qualità individuale che siamo soliti chiamare
“punto di vista”. Apparirà lecito quindi ritenere il dizionario di Eco un libro nonostante non
corrisponda alla formula che la società ha inventato per descrivere i presupposti fisici di questo
oggetto. Ecco allora che fa il suo ingresso il pensiero sintagmatico. A differenza del primo calibra le
sue valutazioni in rapporto al contesto, a quei mondi possibili bruneriani che si danno per veri in
quanto corrispondenti ad una esplicita o implicita preordinarzione. Si costruiscono i significati a
partire da ciò che è possibile entro un dato quadro . Pensiamo ad esempio a quelle situazioni che ci
richiedono un urgente valutazione di quanto accade. Se mi trovo alla guida di un veicolo e dietro di
me c’è un altro conducente che strombazza per sorpassarmi, dovrò necessariamente prendere una
decisione nel giro di pochi secondi e pur essendo a conoscenza delle norme stradali, mi verrà
spontaneo lasciarlo passare spiegandomi la situazione con diverse ipotesi (potrebbe avere una
persona in macchina che si sente male; è stato avvertito all’improvviso di un parente ricoverato
all’ospedale; sta facendo tardi ad un appuntamento di lavoro , etc.) . Quello che accade è quindi
l’applicazione di una euristica confacente all’evento che si verifica in un determinato contesto. In
questo caso sarò ricorso al pensiero sintagmatico che amplia il concetto di enciclopedie e dizionari
mentali per includere tutte quelle situazioni che non rispecchiano la definizione canonica degli
eventi. Smorti individua questa modalità come “pensiero acrobatico”
10
perché capace di farci saltare
ogni processo sequenziale che normalmente attuiamo. Tornando quindi all’ipotesi di A dobbiamo
concludere che, in questa seconda veste, ciò che non è A corrisponde a qualcosa di diverso e non di
opposto.
10
Smorti A. Op. Cit. pagg. 151-162
La classificazione di oggetti rientranti nell’una o nell’altra modalità di pensiero si riferisce
costantemente a quei processi di negoziazione che sono insiti in qualunque cultura. La capacità di
attribuire il significato ad un evento o ad un oggetto, deriverebbe su larga scala da una
protolinguistica dei significati. Per Bruner si potrebbe parlare addirittura di una “biologia del
significato”
11
intesa come capacità da parte dell’uomo di istituire una relazione primordiale tra un
segno e un referente, guidati nella rappresentazione da un Interpretante. “Il significato simbolico,
dunque, dipende in qualche modo … dalla capacità umana di interiorizzare un tale linguaggio e di
usare il suo sistema di segni come un interpretante in questa relazione <rappresentativa>”. Questa
piccola digressione si è ritenuta necessaria per comprendere la genesi delle due modalità di pensiero
umano che traggono la loro origine da un medesimo humus comune, che nel tempo si sono poi
affinati, secondo gli scopi ai quali erano preposti.
Negli studi compiuti da Smorti
12
si è potuto rilevare che i bambini usano entrambe le modalità sin
dal loro ingresso nella scuola. Gli esperimenti condotti sulla base di figure (animali, persone, cibi,
alberi etc.) che dovevano essere classificate secondo una direttiva ambigua (“suddividere quelli che
stanno bene insieme”) hanno mostrato il ricorso al pensiero paradigmatico in alcuni casi, e al
pensiero sintagmatico in altri.
La curva evolutiva ha contrassegnato una certa predominanza del secondo nella prima fase della
scolarizzazione, quando ancora non sono state introiettate le regole del pensiero logico che
caratterizzano la didattica elementare. Infatti a partire dai 6 agli 8/9 anni la scelta di classificare gli
eventi secondo la prospettiva paradigmatica comincia a decrescere sensibilmente fino al
raggiungimento di una sostanziale parità tra i due sistemi intorno ai 10 anni.
E’ lecito supporre, come lo stesso Bruner afferma, che il principio di una storia nasce sempre da una
violazione della canonicità, di quel sistema di regole che l’essere umano comincia ad introiettare sin
dalle prime esperienze di relazione materna. Laddove una determinata situazione non corrisponde a
11
Bruner J. La ricerca del significato Ed. Bollati Boringhieri, 1992, pag. 74
12
Smorti A., Op. Cit. pagg.177-186
tali principi si verifica una frattura tra le attese ed il reale. Questa dissonanza necessita di una
ristrutturazione cognitiva. E’ abbastanza insolito che rispetto a queste intuizioni, la saggistica non
faccia alcun riferimento (Se non forse per un minimo accenno di Bruner) alla teoria dei campi di
Lewin
13
o a Festinger
14
. Gli studi condotti sul comportamento dei soggetti in relazione alla
corrispondenza o meno delle loro aspettative, sembrerebbe a mio avviso il cavallo di troia della
teoria cognitivista dedita alla psicologia culturale.
Lewin infatti aveva individuato un campo di forze entro le quali i sistemi giocano il loro equilibrio
sulla base di negoziazioni. Sono presenti al loro interno forze che spingono (Caos polisemico) e
forze che trattengono (Classificazione categoriale) . Per poter procedere ad un mutamento della
situazione iniziale occorre che le prime siano superiori alle seconde. Quando accade questo nel
pensiero narrativo ? Praticamente ogni qualvolta decidiamo di attribuire un significato soggettivo
che ampli lo spettro di quelle definizioni appartenenti a norme condivise. Quando scegliamo di
“abitare” un Mondo tra i tanti “Possibili”.E’ il principio primo della violazione della canonicità
delle storie che adesso andremo ad analizzare .
13
Sito http://www.12manage.com/methods_lewin_force_field_analysis_it.html visitato il giorno 21 Luglio 2008
14
Festinger L., Teoria della dissonanza cognitiva, Ed. Franco Angeli, 1997
La narrazione e le sue caratteristiche
“La narrazione diventa il contesto che fornisce i pretesti per lo sviluppo dell’intelligenza retrospettiva e dell’alfabeto emotivo ,per ripercorrere i luoghi
e i non luoghi del Sé”. M.A. De Carlo (Narrazione ed empowerment, ed. Zona collana Magma 2007)
Un primo tentativo di classificazione dei processi narrativi viene operato da Bruner per definire
alcuni aspetti costanti della modalità di ricorrere alle storie per spiegare determinati eventi
15
. Le
carattestiche del pensiero narrativo sono :
1) La Sequenzialità.
Ogni evento presente in una storia comporta una durata temporale. Il succedersi dei fatti può
essere esposto sia in termini oridinari e cronologici, ma può anche compiere dei balzi avanti
e indientro nel tempo per il tramite di flashback o flashforward.
2) Particolarità e concretezza
La narrazione riguarda sempre l’Uomo anche laddove interviene l’utilizzo della metafora
come accade nella favole di Fedro o nella mitologia animale. La sua concretezza si riferisce
ad un soggetto tangibile intendendo per ciò non la figura fisica presente del personaggio
principale quanto piuttosto il referente o l’emittente della storia. La descrizione di una storia
è sempre contestualizzata nel Tempo e riguarda un soggetto concreto.
3) Intenzionalità.
15
Smorti A. Il pensiero narrativo, Ed. Giunti, 1994, pagg. 78 e ss
Riguarda la capacità, da parte dei protagonisti della storia, di “possedere degli stati mentali”.
I personaggi interni al racconto sono sempre mossi da scopi, valutazioni, credenze e
opinioni. Nel loro campo di azione è predominante l’intenzionalità.
4) Opacità referenziale.
Il problema che sin dalla nascita assilla la saggistica dedicata all’autobiografia riguarda il
concetto di veridicità. A tal proposito un intervista di F.Crisi
16
sul semestrale dell’archivio
diaristico di Pieve Santo Stefano, affronta la tematica del vero autobiografico rileggendola
in una chiave possibilista. Una narratrice decide, durante la raccolta della propria storia di
vita, di riformulare la sua esistenza a partire da una fantasia. L’evento in questione riguarda
una notte passata nel collegio dove ella ricorda che avrebbe voluto con tutta se stessa entrare
nel letto di una suora, per ricevere un gesto di affetto e di riconoscenza. Un desiderio che
non trovava riscontro nella pura sequenza dei fatti. Di comune accordo con la sua biografa,
decide allora di modificare il corso della propria vicenda e di narrare la “possibilità”, quella
rappresentazione necessaria che il suo Ego desiderava accadesse e che non è mai avvenuta.
In questo frangente tra il reale e il possibile si dispiega l’opacità referenziale. Quando
raccontiamo di qualcosa non è importante che gli eventi, i personaggi o le situazioni
corrispondano esattamente al mondo fisico. Se decidiamo di leggere una fiaba o
un romanzo sappiamo benissimo che si tratta di finzione, ma quello che genera un
mutamento profondo in noi è la loro verosimiglianza, ossia il modo in cui il Reale viene
rappresentato dal soggetto che edita la storia. D’altronde anche nei processi ludici dei
bambini questo avviene frequentemente quando decidono di emulare il mondo degli adulti
arricchendolo con quegli aspetti innovativi e creativi che ancora abitano nei loro spazi
interiori, dove la convenzionalità non ha
16
Mangiameli F., PrimaPersona n. 14, 2005, pag. 53