Primum non nocere ”
Ippocrate
INTRODUZIONE
Uno degli argomenti più dibattuti nell‟ambito delle problematiche medico-legali poste
dall‟attività sanitaria è certamente costituito dal tema del consenso del paziente al
trattamento medico-chirurgico.
Sino a due secoli fa, il medico era il soggetto deputato all‟assistenza del malato con il
dichiarato obiettivo, non tanto di guarirlo, quanto di alleviarne le sofferenze.
1
Il malato
era, invece, un corpo afflitto da morbo, centro di sofferenza. Il problema
dell‟acquisizione della volontà dell‟individuo non si poneva poiché era impensabile
mettere in discussione l‟esplicazione di un‟attività professionale concepita come argine
alla sofferenza più che come strumento di difesa della vita e della salute.
2
Dalla seconda metà del secolo scorso questo atteggiamento è mutato ed oggi si pone in
primo piano la persona del malato e il suo rapporto con il medico rispetto al processo
morboso quale esclusi ovo oggetto di studio dell‟azione sanitaria. Si crea un rapporto
interpersonale fondato sulla fiducia e sul consenso che permette al medico di operare
senza porre in essere un‟attività contra legem, offrendo una prestazione limitata dai diritti
del paziente e dal rispetto della vita umana.
È, dunque, comune acquisizione, ormai, che il medico non possa intervenire,
ordinariamente, sul paziente senza, prima, averne ricevuto il consenso, il quale diventa
così presupposto indefettibile dell‟intervento medico; d‟altra parte, negare rilevanza alla
volontà del paziente significherebbe riconoscere al medico un potere quasi dispotico sul
malato, il quale verrebbe a trovarsi in posizione di assoluta soggezione ed esposizione
all‟arbitrio del sanitario. È per questo che la più autorevole dottrina medico-legale è
avversa ad un riconoscimento del “diritto di curare”, ritenendo corretto, invece, parlare di
“potestà” e “facoltà” di curare, esercitabili in concreto solo a seguito di richiesta del
paziente, a meno che non ricorra il caso in cui il medico abbia l‟obbligo giuridico
d‟intervenire. Questa impostazione è espressione di un rapporto medico-paziente vivo e
reale, in cui il sanitario ha il dovere di raccogliere un‟adesione effettiva e partecipata, e
non solo cartacea, alla terapia, frutto di una vicinanza reale e di un colloquio fiduciario.
Perché la volontà del paziente possa integrare un valido presupposto dell‟esercizio
dell‟attività medica, occorre che essa si sia correttamente formata e sia validamente
espressa; a riguardo rilevano i requisiti di età del soggetto, l‟assenza di vizi di formazione
della volontà e l‟informazione preventiva del paziente.
Cosi connotandosi, il consenso del paziente, recupera la sua dimensione più autentica:
quella di «vincolo di solidarietà sociale e suggello di “alleanza terapeutica” tra il malato e
il suo medico»
3
, rifiutandosi decisamente l‟approccio paternalistico.
1
FRESIA, Luci ed ombre del consenso informato, in Riv. it. med. leg., 1994, p. 895, il quale
sottolinea la riscoperta da parte della medicina italiana di concetti medievali e rinascimentali che
guardano al malato come una persona umana e non solo come la vittima di una malattia o «il luogo
i cui una malattia agisce».
2
COLOMBO, PARISI, Profili penalistici del rapporto medico-paziente, in Riv. pen., 2001, p. 877.
3
IADECOLA, Potestà di curare e consenso del paziente, Padova, 1998, p. XVI
L‟assenza, tuttavia, di una disciplina specifica della tematica del consenso e
dell‟attività medico-chirurgica, nel nostro ordinamento, rende accidentato il terreno di
discussione e necessaria la ricerca delle linee di condotta “legali” dell‟attività del medico
risalendo alle indicazioni generali fornite dall‟ordinamento. Da ciò deriva il margine di
opinabilità delle soluzioni che vengono proposte, complice, senza dubbio, una non
univoca, quanto piuttosto altalenante giurisprudenza.
3
CAPITOLO PRIMO
IL TRATTAMENTO MEDICO-CHIRURGICO:
DEFINIZIONE E FONDAMENTO DI LICEITA‟
SOMMARIO: 1. La definizione di trattamento medico-chirurgico.-1.1. La
nutrizione e l‟idratazione artificiale.- 1.2. Conclusione.- 2. Il fondamento di
liceità penale del trattamento medico-chirurgico.- 2.1. Azione socialmente
adeguata.- 2.2. Carenza dell‟elemento soggettivo.- 2.3. Assenza del fatto
tipico di reato.- 2.4. Lo scopo riconosciuto dallo Stato.- 2.5. Causa di
giustificazione non codificata.- 2.6. Causa di giustificazione codificata.-
2.6.1. Attività autorizzata dall‟ordinamento.- 2.7. Conclusioni.
1.La definizione di trattamento medico-chirurgico
L‟indagine sul fondamento della liceità penale del trattamento medico-chirurgico
presuppone la corretta definizione dello stesso e, quindi, la individuazione delle attività
mediche che posso rientrarvi.
La dottrina ha tradizionalmente dedicato attenzione a tale aspetto, pervenendo a
definizioni diverse più o meno restrittive di trattamento medico-chirurgico.
Iadecola ne dà una definizione alquanto generica ricomprendendovi «ogni condotta di
chi eserciti un‟attività sanitaria sul corpo umano, a scopo terapeutico …, non terapeutico
…., o a scopo diagnostico»
1
; altri invece asseriscono che «il trattamento medico-
chirurgico si risolve in un intervento volto al miglioramento della salute del paziente o,
quantomeno, al recupero di un grado di salute maggiore rispetto a quello presentato,
attraverso l‟adozione di tecniche e mezzi indicati per sortire il risultato più appagante, e
per ridurre al minimo i rischi».
2
Talora esso viene qualificato come «una modificazione dell‟organismo altrui compiuta
secondo le norme della scienza, per migliorare la salute fisica e psichica della persona, o
la bellezza della medesima»
3
, rendendone, in tal modo, limitato l‟ambito al solo
intervento avente finalità terapeutiche ed eseguito nel rispetto delle regole dell‟arte. Altra
dottrina ne ha dato una definizione più ampia, qualificando tale qualsiasi azione «posta in
essere da parte di un medico nell‟esercizio della sua attività professionale, diretta al fine
di favorire le condizioni di vita di un essere umano vivente»
4
, è dunque necessario che
1
IADECOLA, Il medico e la legge penale, Padova, 1993, p. 5.
2
ABBAGNANO TRIONE, Contributo allo studio sul fondamento di liceità del trattamento
medico-chirurgico, in Riv. pen., 2000, p. 298.
3
GRISPIGNI, La responsabilità penale per il trattamento medico-chirurgico arbitrario, Milano,
1914, p. 7, nello stesso senso INTRONA, La responsabilità professionale nell’esercizio delle arti
sanitarie, Padova, 1955, p. 15.
4
CRESPI, La responsabilità penale del trattamento medico-chirurgico con esito infausto,
Palermo, 1955, p. 6.
4
oggetto del trattamento sia il copro umano, in modo che se ne influenzino, direttamente o
indirettamente, processi o funzioni vitali compromessi, e che l‟esecuzione di questo sia
tale da «giustificare la speranza in un ripristino della salute dell‟organismo malato o,
comunque, in un‟attenuazione dei disturbi, che l‟efficienza organica ledono o pongono in
pericolo»
5
. Il trattamento medico-chirurgico è dunque quell‟attività volta «ad eliminare o
ad attenuare o a rendere comunque possibile l‟eliminazione od attenuazione di uno stato
abnorme del corpo o della mente di una persona, ovvero il miglioramento dell‟aspetto
esteriore della medesima, mediante procedimenti i quali, posti in essere dal medico-
chirurgo conformemente alla conoscenza ed all‟esercizio della scienza e della prassi
medica siano idonei ad influenzare in modo rilevante l‟integrità del corpo umano o il
decorso dei suoi processi biologici».
6
Dunque non si tratta di un‟attività solamente diretta
a curare, a produrre la restituito in integrum di un organo ma anche di quell‟insieme di
azioni che si pongono l‟obiettivo di diminuire, non potendo del tutto eliminare, le
sofferenze fisiche, di prevenire future malattie oppure di rimediare a difetti che turbino
l‟aspetto esteriore del soggetto.
7
Si fanno rientrare in questa categoria, oltre le operazioni chirurgiche e i rimedi di
medicina interna, anche gli interventi diagnostici, ed, in effetti, se si considera, da un
punto di vista civilistico, che l‟obbligazione del sanitario sia da ritenersi di mezzi e di
diligenza, e non di risultato, bisogna rilevare che tale qualificazione può essere
riconosciuta solo agli atti medici aventi finalità terapeutica e diagnostica.
Altra dottrina propone un‟accezione più ampia del concetto di trattamento medico-
chirurgico, comprendente tutte le azioni ed omissioni che il medico pone in essere per
finalità inerenti l‟attività sanitaria sulla persona del paziente, tra cui rientrano:
a) visita medica;
b) attività preparatorie dirette a fine diagnostico, a fine operatorio, a fine di
preparazione o esecuzione di altri interventi;
c) profilassi;
d) trattamenti antidolorifici;
e) somministrazione di farmaci per le varie vie;
f) interventi terapeutici vari a favore del paziente;
g) interventi a favore di terzi;
h) interventi con finalità non terapeutiche;
1.1 La nutrizione e l’idratazione artificiali
Un‟attenzione particolare deve essere dedicata alla qualificazione dell‟alimentazione e
dell‟idratazione artificiale che interessa, in particolar modo, i soggetti in stato vegetativo
permanente. Per la prima volta il problema è discusso affrontando la questione della
5
CRESPI, op. cit., p. 6. Per l‟Autore è arbitraria la restrizione del concetto di trattamento medico-
chirurgico ai soli interventi chirurgici in senso stretto, dal momento che spesso l‟attività clinica è
rivolta a scopi di ricerca e chiarimento della diagnosi proprio per accertare l‟opportunità o meno
dell‟operazione chirurgica.
6
CRESPI, op. cit., p. 8.
7
CRESPI, op. cit., p. 9.
5
scelta dei trattamenti da effettuare su costoro; l‟interrogativo centrale di cui è investita la
Corte di Appello di Milano
8
è se la cura dell‟interdetto, di cui è onerato il tutore,
comprenda le decisioni sui trattamenti sanitari. Il caso concerne la possibilità del tutore di
soggetto in SVP di richiedere l‟autorizzazione per procedere all‟interruzione della
nutrizione e dell‟idratazione artificiali. La Corte riconosce che costui, sulla base degli
artt. 357 e 424 c.c., ha la cura della persona « con la conseguenza che nell‟interesse del
soggetto è legittimato a esprimere o a rifiutare il consenso al trattamento terapeutico»,
egli è quindi legittimato a proporre ricorso, tuttavia, questo deve essere rigettato
«considerato il dibattito ancora aperto in ambito medico e giuridico in ordine alla
qualificazione del trattamento somministrato», ossia alimentazione ed idratazione
artificiali. Il punto è il seguente: il tutore può essere autorizzato a rifiutare trattamenti,
anche salvavita, purché siano trattamenti terapeutici, mentre, trattandosi di alimentazione
ed idratazione artificiale, vi è il dubbio che possa trattarsi di un normale mezzo di
sostentamento, una cura proporzionata e quindi doverosa.
9
Il provvedimento riporta l‟opinione dell‟American Academy of Neurology e della
British Medical Association, secondo i quali l‟alimentazione e l‟idratazione artificiali
sono forme di trattamento medico, e quella del gruppo «Bioetica e Neurologia» della
Società italiana di neurologia, che, invece, le considera una forma di sostentamento
sempre eticamente doveroso, ma che in concreto non può essere somministrato ai soggetti
in SVP in quanto già morti. Ciò che viene affermato, in quest‟ultima impostazione, è che
l‟alimentazione e l‟idratazione in generale sono sempre doverose, in quanto atti di cura
della persona tesi al sostentamento, ma quanto non detto è che siano tali anche in
riferimento all‟individuo in SVP.
10
Sul punto è intervenuto nell‟ottobre del 2000 il « Gruppo di lavoro su nutrizione e
idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della coscienza», istituito
dall‟allora Ministro della Sanità, Umberto Veronesi.
11
Tale gruppo sottolinea che nella
nutrizione ed idratazione artificiale in individui in SVP «viene somministrato un
nutrimento come composto chimico (una soluzione di sostanze necessarie alla
sopravvivenza), che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di
introdurre nel corpo attraverso una sonda nasogastrica o atra modalità e che solo medici
possono controllare nel suo andamento, anche ove l‟esecuzione sia rimessa a personale
infermieristico o ad altri»
12
. Dati questi presupposti è chiaro che alimentazione ed
idratazione artificiali perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano
quello di trattamento medico in senso ampio.
13
Questo riconoscimento pare, inoltre,
confermato dall‟art. 53 del Codice di Deontologia Medica per il quale « Quando una
persona rifiuta volontariamente di nutrirsi, il medico ha il dovere di informarla sulle
8
Corte d‟Appello, Milano, 30 dicembre 1999, in Foro it.,2000, col. 2022.
9
SANTOSUOSSO, Aperture importanti e remore inspiegabili della Corte d’appello di Milano sul
«caso E.E.» in Bioetica, 2000, fasc. 1, p. 77
10
Gruppo di Bioetica e Neurologia, Documento sullo stato vegetativo persistente, in Bioetica,
1993, fasc. 2, p. 385.
11
Gruppo di lavoro su nutrizione e idratazione nei soggetti in stato di irreversibile perdita della
coscienza, in Bioetica, 2001, fasc. 2, p. 303.
12
Gruppo di lavoro, cit., p. 316: in questa situazione « il beneficiato non solo non può apprezzare
il preparato o i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai più, rendersi conto del fatto di
essere alimentato».
13
Gruppo di lavoro, ibidem
6
gravi conseguenze che un digiuno può comportare sulle sue condizioni di salute. Se la
persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non
deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione
artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla». Imponendo
questo divieto ai medici, si riconosce che nutrizione ed idratazione artificiali sono
trattamenti medici, altrimenti non verrebbe menzionata assoggettandola alle regole
professionali, che impongono per tutti i trattamenti medici il preventivo consenso
informato dell‟avente diritto o, in mancanza, non ricorrendo lo stato di necessità, il
divieto di attuare qualsiasi intervento sulla persona umana.
L‟intervento ministeriale, tuttavia, non ha mutato l‟orientamento giurisprudenziale
sulla possibilità per il tutore di richiedere la sospensione di alimentazione e idratazione
artificiali, le quali continuano a non essere considerate trattamenti medici: « forma
convinzione di questo collegio il fatto che le conclusioni del gruppo di lavoro, pur
rappresentando indubbiamente un valido contributo all‟ambito della spinosa
problematica della qualificazione dei trattamenti di alimentazione e idratazione artificiale,
non possano certamente costituire l‟anello mancante della catena, nel senso, cioè, che non
possono costituire la pronuncia determinante che ponga la parola fine ai dibattiti
qualificatori. L‟elaborato redatto dalla commissione s‟inquadra semplicemente all‟interno
del dibattito sul problema in discorso e rappresenta un elemento in più a favore di una
certa soluzione ma non costituisce - pur nell‟autorevolezza dei componenti - la definitiva
consacrazione dell‟esattezza di quella soluzione».
14
Sulla medesima linea si muove la Corte d‟Appello di Milano, investita del ricorso a
seguito della precedente sentenza di rigetto. Essa afferma che è necessario attendere
ulteriori pronunciamenti da parte della comunità scientifica in relazione alla
qualificazione da dare all‟alimentazione e all‟idratazione artificiale nei soggetti in stato
vegetativo permanente; non è apparso sufficiente agli organi giudicanti il giudizio offerto
dal gruppo di lavoro istituito dal Ministro della Sanità che ha qualificato tali interventi
come trattamenti medici.
15
14
Trib. Lecco, 15 luglio 2002, in Bioetica, 2004, fasc. 1, p. 88.
15
Corte d‟Appello Milano, 10 dicembre 2003, in Bioetica, 2004, fasc. 1, p. 89. FRANCOLINI,
Eutanasia e tutela penale della persona:orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, in Riv. pen.,
2005, p. 1149: la giurisprudenza, nel pronunciarsi, non ha tenuto conto di due significativi
precedenti stranieri, l‟uno statunitense e l‟altro inglese: il caso Cruzan e il caso Bland. Il primo
investe, nel 1990, la Suprema corte federale degli Stati Uniti, la quale, per la prima volta si
pronuncia sul rifiuto di trattamenti la cui interruzione può condurre alla morte del soggetto. Nella
specie i genitori di una giovane donna in SVP chiedono di interrompere la nutrizione ed
idratazione artificiali, ricevendo un netto rifiuto da parte dei medici. Seguono due giudizi: la trial
court autorizza l‟interruzione, ma la Corte suprema del Missouri la nega. I genitori prospettano la
questione alla Corte federale in questi termini: un paziente non perde il suo diritto a decidere sui
trattamenti medici sulla propria persona per il solo fatto che è in stato di incapacità; se non vi sono
state direttive anticipate, si deve far riferimento ai desideri manifestati in precedenza, anche
indirettamente, o si deve riconoscere ai familiari il potere di far valere il diritto a non subire
trattamenti sanitari indesiderati. La Corte si richiama alla nozione di integrità fisica (body
integrity) e afferma che il consenso informato ne costituisce il riflesso nel campo dei trattamenti
sanitari, di qui il diritto del paziente di consentire e non consentire ad essi. La Costituzione
riconosce alla persona capace il diritto di rifiutare l‟idratazione e la nutrizione, anche se life
saving.
Nel caso Bland (1993), la House of Lords si trova a rispondere al quesito «se l‟alimentazione
artificiale e i farmaci antibiotici possano legalmente non essere somministrati a un paziente in stato
7
A dimostrazione della divergenza di opinioni sul tema e dell‟ancora aperto dibattito
dottrinale soggiunge, nel 2005, un nuovo documento approvato dal Comitato Nazionale
per la Bioetica
16
dove viene ricordato che alle persone in SVP occorre garantire il
sostentamento ordinario di base, ossia la nutrizione e l‟idratazione ; tanto che siano
fornite per via naturale, quanto per via artificiale, esse vanno considerate atti dovuti
eticamente in quanto indispensabili per supportare le condizioni fisiologiche di base per
vivere. Anche se fornite da altre persone è considerato dubbio che possano dirsi atti o
trattamenti medici in senso proprio, «acqua e cibo non diventano, infatti, una terapia
medica soltanto perché vengono somministrati per via artificiale; si tratta di una
procedura che ( pur richiedendo indubbiamente una attenta scelta e valutazione
preliminare del medico), a parte il piccolo intervento iniziale, è gestibile e sorvegliabile
anche dagli stessi familiari del paziente»
17
. La conclusione cui giunge il Comitato è,
dunque, che l‟idratazione e l‟alimentazione dei pazienti in SVP vadano ordinariamente
considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base. Non mancano, però,
all‟interno del Comitato stesso, posizioni dissenzienti. Coloro che hanno votato in senso
contrario all‟adozione del documento sono fermi nell‟affermare che alimentazione ed
idratazione artificiale costituiscono a tutti gli effetti un trattamento medico, in quanto
«sottendono conoscenze di tipo scientifico e che soltanto i medici possono prescrivere,
soltanto i medici possono mettere in atto attraverso l‟introduzione di sondini o altre
modalità anche più complesse, e soltanto i medici possono valutare ed eventualmente
rimodulare nel loro andamento; ciò anche se la parte meramente esecutiva può essere
rimessa al personale infermieristico o in generale a chi assiste il paziente».
18
La Corte di Cassazione con la sentenza dell‟11 novembre 2008
19
respinge il ricorso
della Procura di Milano avverso il decreto del 9 luglio 2008
20
emanato dalla Corte
d‟Appello di Milano con il quale quei giudici, in dichiarata applicazione, in sede di
rinvio, del principio di diritto enunciato dalla precedente sentenza della Corte di
Cassazione, hanno accolto l‟istanza volta ad ottenere l‟autorizzazione ad interrompere la
NIA stabilendo che «Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie oltre quindici)
in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al
mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino naso gastrico che
provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta…il
di incoscienza e senza speranza di recupero, sapendo che, in conseguenza di ciò, il paziente morirà
in breve tempo». Tre dei giudici esprimono l‟opinione che il medico che compie l‟omissione
manifesta una intenzione di uccidere, ma tutti e cinque concordano sul fatto che non comporta
responsabilità, né civile né penale, l‟interruzione dell‟alimentazione o la somministrazione di
antibiotici in casi del genere, nonostante il soggetto sia, per il diritto, ancor a vivo.
La decisione del caso Bland è in linea con quella Cruzan nel riconoscere esplicitamente il diritto di
ogni individuo di rifiutare trattamenti sulla propria persona, anche quando siano life saving , e nel
considerare l‟alimentazione e l‟idratazione di un paziente in SVP come trattamenti medici.
Tuttavia, diverge radicalmente il criterio cardine adottato: i giudici americani si basano sulla
volontà dell‟interessato e cercano un appiglio in una manifestazione di volontà anche remota;
quelli inglesi invece rinunciano a inseguire un‟eventuale volontà espressa prima del coma ed
attribuiscono grande importanza alla valutazione dei medici.
16
Comitato Nazionale per la Bioetica, L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in Stato
Vegetativo Persistente , in Bioetica, 2005, fasc. 2, p. 108.
17
Comitato Nazionale per la Bioetica, cit., p. 109
18
Comitato Nazionale per la Bioetica, cit., p. 114
19
Cass. sez. I, 11 novembre 2008, in Bioetica, 2008, p. 655
20
App. Milano, sez. I, 9 luglio 2008, in Bioetica, 2008, p. 283
8
giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario…unicamente in
presenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base
ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento
medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci
supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della
coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e b) sempre che tale istanza
sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della
voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua
personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di
concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l‟idea stessa di dignità della persona.
ove l‟uno o l‟altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l‟autorizzazione,
dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e volere
del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possono avere, della qualità della vita
stessa»
21
. Secondo la Cassazione la natura di trattamento sanitario dell‟attività di
alimentazione ed idratazione artificiale è fuori discussione e il fatto che i giudici
dedichino solo un breve paragrafo della sentenza è istruttivo e mostra come il punto
cruciale sarebbe se mai quello di interpretarne la funzione. Non basta definire “trattamenti
sanitari” le attività in questione, occorrendo altresì stabilire se si tratti di trattamenti
propriamente “terapeutici”; in caso negativo, come sembra logico concludere, rimarrebbe
letteralmente esclusa la possibilità di qualificare la prosecuzione di tali trattamenti alla
stregua di accanimento terapeutico.
22
1.2. Conclusione
La definizione, così inquadrata, di trattamento medico-chirurgico abbraccia,dunque, ogni
condotta di chi eserciti un‟attività sanitaria sul corpo umano, compresa quella di
accertamento e consente di esaminare l‟azione o l‟omissione del medico in tutti i casi in
cui, per finalità inerenti all‟attività sanitaria, venga a contatto con il corpo di una persona
vivente, o quella in cui vi sia comunque un‟ingerenza nella sfera dei beni personali, che
provoca la lesione di un interesse del paziente, tutelato da norma penale.
23
Pur in una sua accezione così ampia, risulta chiaro che il trattamento medico-
chirurgico non possa farsi coincidere con la più vasta e generale categoria dell‟atto
medico, nella quale rientra qualsiasi prestazione di natura medica riferibile oltre che ad
attività materiale ed esecutiva eseguita sulla persona, anche agli atti medici formali, si
pensi ai pareri orali o scritti, prescrizioni, indicazioni di cura, comunicazioni.
24
21
Cass. sez. I, 16 ottobre 2007, in Riv. it. med. leg., 2008, p. 271.
22
SARTEA, LA MONACA, Lo stato Vegetativo tra norme costituzionali e deontologia: la
Cassazione indica soggetti e oggetti, in Riv. it, med. leg., 2008, p. 583
23
RIZ, Medico (responsabilità penale del medico), in Enc. giur. Treccani, vol. XIX, Roma, 1990,
p. 1.
24
IADECOLA, Potestà di curare, cit., p. 4.
9
2. Il fondamento di liceità penale del trattamento medico-chirurgico
Per comprendere la posizione dell‟attività medico-chirurgica all‟interno del sistema
penale, data l‟assenza di una regolamentazione sistematica della stessa, occorre procedere
ad una disamina delle teorie che ne fondano la liceità, necessaria per orientarsi nella
ricostruzione delle conseguenze penali che possono scaturire dal trattamento sanitario.
Il problema si pone poiché essa implica un‟interferenza nei beni personalissimi e
primari del soggetto, i quali vengono attinti in modo tale da descrivere, almeno in astratto,
il fatto tipico di ipotesi di reato.
25
L‟indagine dottrinale sul fondamento di liceità del trattamento medico-chirurgico si è
snodata attraverso una segmentazione della struttura del reato, ed ha portato ad
individuare le ragioni della liceità nell‟azione socialmente adeguata, nella carenza
dell‟elemento soggettivo, nell‟assenza del fatto tipico, nello scopo riconosciuto dallo
Stato, nell‟attività autorizzata dall‟ordinamento, in una causa di giustificazione non
codificata ed, infine, nelle cause di giustificazione codificate.
2.1 Azione socialmente adeguata
Secondo parte della dottrina il trattamento medico sarebbe lecito in quanto consistente in
un‟attività socialmente diretta ad arrecare utilità: si tratterebbe di una liceità intrinseca al
trattamento medico e posseduta di per sé dallo stesso.
26
L‟adeguatezza sociale è la
dimensione in cui si presenta l‟azione nel suo inserirsi nella convivenza umana, nel suo
intrecciarsi con le molteplici determinazioni dell‟operosità collettiva; essa esprime il
valore che relaziona la condotta all‟offesa. Ove l‟azione si inserisca nel quadro
dell‟ordinamento storicamente dato dalla vita della comunità e sia con esso in armonia, la
sua adeguatezza sociale impedisce il configurarsi del fatto tipico.
27
Il giudizio di
adeguatezza ha l‟effetto di impedire che la provvisoria attribuzione dell‟azione ad una
fattispecie penale si consolidi in una qualificazione definitiva, nel senso della sua effettiva
conformità alla fattispecie legale di un reato. Questa, in realtà, non esisterebbe, dal
momento che non vi è la realizzazione del disvalore di un atto che costituisce , con la
lesione del bene, un momento decisivo per la comprensione del fatto tipico.
28
L‟adeguatezza sociale dell‟azione si coglie nella funzione di promozione dello stesso
bene che costituisce l‟oggetto della protezione normativa, proprio per questa caratteristica
dell‟azione è escluso ogni significato di aggressione del bene e quindi della tipicità
dell‟azione.
29
25
IADECOLA, Potestà di curare, cit, p. 5. Per l‟Autore la questione rileva, nella prassi, non tanto
quando l‟intervento medico abbia avuto esito fausto , quanto più nel momento in cui si sia giunti
ad un esito infausto.
26
CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 221.
27
ABBAGNANO TRIONE, op. cit., p. 303.
28
ABBAGNANO TRIONE, ibidem.
29
ABBAGNANO TRIONE, ibidem.
10
Questa teoria porta a considerare il trattamento medico-chirurgico un‟attività permeata
dall‟alto valore che riveste nella società civile e le azioni ad essa pertinenti, che
corrispondono esteriormente alle fattispecie previste nelle norme incriminatrici, si
reputano al di sotto della soglia del penalmente rilevante, in quanto conformi agli ideali o
agli scopi generalmente riconosciuti da un‟intera società.
30
Ciò nonostante occorrerebbe operare una distinzione: a) nell‟ipotesi in cui il
trattamento medico abbia sortito risultati positivi, non sorgerebbero problemi in quanto,
anche qualora siano state provocate lesioni o mutilazioni, l‟integrità fisica costituisce solo
un aspetto della salute e perciò è quest‟ultima che deve essere presa in considerazione
nella sua globalità; b) nel caso in cui, al contrario, il trattamento si sia concluso con esito
infausto, non sarebbe opportuno ricercare una causa di giustificazione perché, in realtà,
illecito non vi sarebbe stato. Sebbene vi sia stata lesione del bene protetto della vita e
della salute e questa sia causalmente connessa all‟attività del medico, mancherebbe,
comunque, la colpa.
31
Questo orientamento dottrinale non è immune da critiche. Le principali obiezioni,
infatti, riguardano la sua indeterminatezza che si rifletterebbe sulle garanzie espresse dal
principio di stretta legalità e di certezza del diritto.
32
Ad avviso di Bricola , riportando le notazioni di valore alla sfera dell‟azione si svuota
il concetto di bene giuridico, non si evidenzia il significato che il bene giuridico acquista
nel contesto sociale, ma il significato personalistico delle singole condotte integranti le
varie fattispecie; il contenuto psicologico dell‟azione ne condiziona il valore senza
riflettersi sul bene giuridico.
33
È stato replicato, però, che con il concetto di azione socialmente adeguata non si è
inteso introdurre una categoria metagiuridica, quanto piuttosto uno strumento per
contrassegnare la portata di talune azioni sprovviste, dal punto di vista giuridico, di una
carica di aggressività nei confronti dei beni tutelati.
34
Questa dottrina parte da una
revisione del concetto tradizionale di bene giuridico e tende a sostituire ad una nozione
astratta di esso la sua reale funzione, contestualizzata in talune attività che, pur
esponendolo ad una serie di rischi, ne valorizzano il significato in forza del quale il bene è
oggetto di protezione giuridica. Tanto è vero che si tiene conto del significato che assume
l‟azione per colui che la compie, quanto che ciò avviene con riguardo a talune attività che
si svolgono in un quadro di legittimazione socio-istituzionale.
Il rapporto di non contraddizione tra le ragioni dell‟azione ed il valore del bene
aggredito, motiva la non punibilità dell‟autore.
35
30
MANNA, Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico, Milano, 1984, p. 15.
31
CATTANEO, op. cit., p. 221
32
NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova, 1972, p. 24. L‟autore sostiene che la
causa del fallimento della teoria dell‟adeguatezza sociale risieda nella mancata identificazione dei
valori normativi ed extranormativi cui fare riferimento, altro errore fu quello di ritenere che il fatto
tipico appartenesse al mondo dei valori e che gli elementi dai quali desumere l‟esistenza di esso
fossero connessi all‟indagine d una singola norma, quando invece, è necessario integrare con altre
norme , anche appartenenti ad altri rami dell‟ordinamento giuridico.
33
BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it.,vol XIX, Torino, 1973, p. 64.
34
FIORE, L’azione socialmente adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, p. 2
35
ABBAGNANO TRIONE, op. cit., 303, il quale sottolinea l‟inserimento della teoria in questione
nel procedimento di revisione dell‟idea di azione che, nella nozione di illecito penale, sposta
l‟accento dal disvalore di evento al disvalore della condotta. Ciò comporta una svolta decisiva in
termini di responsabilità penale poiché, in base ai postulati della dottrina dell‟illecito personale, la
11
2.2 Carenza dell’elemento soggettivo
Una parte della dottrina
36
individua la ragione della liceità penale del trattamento medico-
chirurgico nel fatto che la condotta del medico, pur configurando obbiettivamente la
materialità del reato descritto dalla norma penale, non è sorretta dall‟elemento soggettivo
del reato stesso. Si afferma, infatti, che l‟operazione chirurgica non costituisce
un‟eccezione alle norme generali, ma solo «un‟applicazione della nozione finalistica di
dolo, per il quale occorre nelle lesioni la finalità di ledere, intaccando la integrità fisica, la
funzionalità fisica o psichica altrui, mentre l‟intervento chirurgico tende a salvare la vita,
sia pure talora mutilando, ed a migliorare le condizioni di salute».
37
Lo scopo dell‟azione
del medico , infatti, non è quello di arrecar male o danno al paziente , bensì di aiutarlo a
migliorarne le condizioni di salute. Pertanto il chirurgo , il quale operando procura una
lesione al paziente, non è punibile in quanto esula dalla sua condotta l‟intenzione
aggressiva e lesiva, ed anzi, egli tende a salvare la vita del paziente ed a giovare alla sua
salute.
Questa impostazione è considerata superata dal momento che il codice penale vigente
non fa rientrare tra gli elementi costitutivi del reato quell‟atteggiamento psichico che
realizza il motivo dell‟azione delittuosa. È,cioè, del tutto irrilevante lo scopo prefissosi
dall‟agente, e, di conseguenza, non costituisce un‟esimente l‟aver agito per fini nobili o
moralmente apprezzabili.
38
È stato ,infatti, sottolineato da Grispigni che, questa teoria, così formulata non può
essere accettata, essa non ha consistenza quando voglia basarsi sul fatto che lo scopo, il
movente di curare elimina il dolo; la volontà basta ad integrare il dolo e lo scopo non può
avere efficacia scriminante, se non nei casi espressamente previsti dalla legge.
39
Ai fini
dell‟applicabilità della norma penale nel nostro ordinamento, non è necessaria una
“intenzione malvagia” nel soggetto agente, ma è sufficiente che questi abbia avuto la
coscienza e volontà del fatto commesso, cosicché la finalità perseguita rimarrebbe
assolutamente irrilevante e non esonererebbe da responsabilità penale. Ai fini
dell‟esistenza del reato basta infatti che il soggetto abbia voluto l‟evento, e sicuramente il
chirurgo prevede e vuole il risultato della sua azione.
40
Non potrebbe pertanto sostenersi
la mancanza dell‟elemento soggettivo necessari per la configurazione del reato.
sola verificazione dell‟evento non è sufficiente per stabilire se, chi lo ha provocato, ha tenuto un
comportamento difforme dalle pretese dell‟ordinamento penale.
36
ALTAVILLA, Consenso dell’avente diritto, in Noviss. dig. it., vol IV, Torino, 1960, p. 118 il
quale riprende la teoria esposta dal CARRARA nel vasto lavoro Programma del corso di diritto
criminale, Firenze 1924.
37
ALTAVILLA, ibidem.
38
AVECONE, op. cit., p. 14
39
GRISPIGNI, La liceità giuridico-penale del trattamento medico-chirurgico, in Riv. dir. e proc.
pen., 1914, p. 467.
40
IADECOLA, Potestà di curare, cit. , p. 9, dove si pone in evidenza come l‟art. 43 c.p. descriva
il delitto doloso come quello in cui «l‟evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell‟azione od
omissione e da cui la legge fa dipenderne l‟essenza del delitto, è dall‟agente preveduto e voluto
come conseguenza della propria azione od omissione». Il nobile motivo perseguito dal medico
solo configurare la circostanza attenuante prevista dall‟art. 62 n. 1 c.p., per cui esso può
comportare una riduzione della pena da irrogarsi per il fatto che il soggetto abbia agito «per motivi
di particolare valore morale o sociale».
12
Egli ritenne che l‟opera del medico è sì lecita per mancanza di dolo, ma non perché,
come sostenuto dal Carrara, manca nella mente dell‟operatore la volontà di nuocere, bensì
per il fatto che «il contenuto, l‟oggetto della volontà di chi compie il trattamento non è
precisamente l‟elemento oggettivo del reato di lesione». Dunque, si afferma la mancanza
di un elemento obiettivo del reato di lesioni personali, e cioè il danno alla persona, e ne fa
derivare come conseguenza anche la mancanza dell‟elemento soggettivo.
41
2.3 Assenza del fatto tipico di reato
È stato anche sostenuto che il fondamento di liceità del trattamento medico-chirurgico
risieda nella mancanza del fatto tipico di reato e quindi sarebbe errato ritenere reato la
lesione chirurgica poiché quel fatto di per sé non lo costituisce. L‟argomentazione di tale
teoria parte da questa considerazione: il trattamento medico-chirurgico non può mai
integrare il reato di lesione personale volontaria poiché manca l‟elemento soggettivo del
reato.
42
Il dolo di ogni reato, inteso come volontà del fatto, può dirsi presente o mancante
se ed in quanto è volontaria quella modificazione del mondo esteriore che costituisce
l‟elemento oggettivo del reato in questione. Questa modificazione rappresenta il
contenuto della volontà e quindi l‟oggetto della volontà stessa, cosicché si può dire che in
ogni fattispecie di reato esista l‟elemento soggettivo di esso, il dolo, se ed in quanto
contenuto ed oggetto della volontà sia quella tale modificazione del mondo esteriore che
la legge prevede e determina come elemento oggettivo del reato.
43
Attraverso queste
premesse si vuol giungere a dimostrare la mancanza di elemento soggettivo solo quale
diretta conseguenza dell‟assenza dell‟ elemento oggettivo. Il trattamento medico-
chirurgico, infatti, produce, per sua natura, il contrario di una lesione e di un danno,
costituendo, invece, il mezzo con cui si accresce e si migliora la salute e perciò deve
escludersi che in caso di esito favorevole possa riscontrarsi l‟elemento oggettivo del
reato di lesione personale e, di conseguenza, manca anche l‟elemento oggettivo dal
momento che la volontà ha per contenuto una modificazione del mondo esteriore diversa
da quella che costituisce l‟oggetto di quel reato.
44
Si giunge alle medesime conclusioni
anche in caso di trattamento medico con esito infausto: «è evidente , infatti, che la volontà
di chi comincia e compie una operazione chirurgica od un trattamento curativo è sempre
la stessa, qualunque sia l‟esito che ,involontariamente, in seguito, potrà verificarsi contro
la volontà dell‟agente»
45
.
A sostegno di questa teoria opera il fatto che quando il codice penale punisce la
lesione, non si riferisce ad ogni tipo di procurata menomazione fisica o psichica della
parte lesa, ma solo a quelle alterazioni che sono poste in essere in senso peggiorativo.
Pertanto, poiché il sanitario opera un miglioramento della salute di chi si sottopone
all‟intervento, non può parlarsi di lesione nel senso ritenuto dal codice penale perché
l‟azione non è, nel suo complesso, dannosa. La lesione chirurgica non costituisce reato
41
GRISPIGNI, La responsabilità penale, cit., p. 37
42
GRISPIGNI, La liceità giuridico-penale, cit., p. 471
43
GRISPIGNI, ibidem.
44
GRISPIGNI, La liceità giuridico-penale, cit., p. 479
45
GRISPIGNI, La liceità giuridico-penale, cit., p. 480
13
essendo diretta al bene del paziente, nonché all‟eliminazione o all‟attenuazione di una
persistente situazione dannosa o pericolosa dell‟organismo.
Della medesima opinione è anche Ondei, il quale ritiene che se le operazioni sono
dirette al vantaggio della salute non può entrare in considerazione il problema degli atti di
disposizione del corpo ex art. 5 c.c., in quanto sarebbe contraddittorio che la legge
volendo vietare i medesimi ed avendo lo scopo di garantire la conservazione della salute,
dovesse poi vietarli anche nei casi in cui sono finalizzati al miglioramento della stessa o
all‟impedimento di futuri pericoli nell‟interesse dello stesso disponente.
46
Questa valutazione non può subire modifiche in caso di esito non positivo del
trattamento, non potendosi muovere alcun addebito al medico che abbia ispirato la sua
opera al pieno rispetto dei dettami della scienza , salvi i casi di dolo e colpa grave,
dovendosi ricercare le cause dell‟insuccesso in altri, imprevedibili, fattori biologici; anche
in questa ipotesi, dunque, l‟attività medica sarebbe «oggettivamente priva di ogni
carattere criminoso».
47
Per parte della dottrina questo modo di ragionare non è in coerenza con le norme del
diritto positivo. Infatti, la teoria si risolve nel dar giuridico rilievo allo scopo dell‟atto e
cioè ai motivi che, per esplicita disposizione di legge, sono del tutto irrilevanti. È pacifico
che il chirurgo che commette un errore grossolano risponde di lesioni colpose, pertanto
non è possibile ritenere che attività identiche costituiscano lesioni in senso tecnico-
giuridico se si è male operato, e non integrino alcuna fattispecie se si è bene operato:
sarebbe più corretto distinguere le due ipotesi in base all‟elemento della colpa, presente
nel primo caso ed assente nel secondo.
48
Le stesse considerazioni sono valide anche a confutare la teoria secondo cui quando il
trattamento medico abbia finalità terapeutiche e sia posto in essere sulla base delle norme
dettate dalla lex artis, costituirebbe un fatto atipico e quindi lecito. Fatti tipici sarebbero,
invece, il trattamento non terapeutico ed il trattamento con esito infausto non seguito
secondo le norme dall‟arte medica.
49
Essendo irrilevanti lo scopo ed i motivi dell‟atto all‟interno del nostro sistema di
diritto positivo rispetto al configurarsi di un‟ipotesi di reato, questi non possono
46
Sull‟ ONDEI vedi AVECONE, op. cit., p. 20
47
SPIEZIA, I limiti della liceità giuridica del trattamento medico-chirurgico, Napoli, 1933, p. 42,
scrive: «il concetto della figura di lesione si riferisce all‟effetto dell‟azione, e tale effetto deve
consistere in un danno arrecato al corpo o alla salute di un uomo…In senso giuridico penale, la
lesione è, cioè, un processo morboso che è cagionato dall‟azione antisociale e antigiuridica di un
soggetto, il quale agisce unicamente per produrre ad altri un male, un dolore, un perturbamento
con tutte le conseguenze dannose che ne possono derivare…onde lesioni e danno sono termini
correlativi ed equivalenti…Per evitare, arrestare il danno che dalla lesione cagionata può derivare,
interviene il medico, il chirurgo, il quale taglia, incide, asporta i tessuti, cuce, cura. Egli svolge,
cioè, un‟azione parallelamente antitetica a quella del feritore; questi ha voluto produrre un male
ed un danno con un consequenziale processo morboso, quello vuol riparare quel male, evitare quel
danno, interrompere quel processo morboso…Il taglio non è lesione ma crea solo lo stato somatico
nuovo, che talora ha potenzialità di sanare il corpo del paziente, tal‟altra tale potenzialità non ha e
il paziente muore… In ogni caso l‟operazione chirurgica tende a reintegrare la integrità fisica non
a lederla…»
48
AVECONE, op. cit., p.21
49
RANIERI, Manuale di diritto penale, parte generale, Padova 1968 p. 155, in nota 1, dove
l‟Autore richiama la dottrina tedesca.
14
certamente essere messi a base di una spiegazione del fondamento di liceità del
trattamento medico.
50
2.4 Lo scopo riconosciuto dallo stato
La dottrina tedesca ha sostenuto che si dovesse escludere l‟antigiuridicità del trattamento
medico-chirurgico in virtù del fatto che esso è diretto al raggiungimento di un fine posto
tra quelli riconosciuti e tutelati dallo stato; la liceità dell‟opera del medico deriva
dall‟interesse che ogni Stato ha per la salute dei cittadini. Tale attività non sarebbe,
pertanto, antigiuridica, poiché lo stato riconosce ed incoraggia, considerandone legittimo
lo scopo, gli atti diretti alla conservazione della salute.
51
Nonostante ciò si è comunque precisato che sia pur sempre necessario il consenso del
malato, ma tale affermazione si pone in netta contraddizione con il riconoscimento dello
scopo da parte dello Stato, delle due una: o si ricerca una scriminante nella sfera privata,
attraverso il consenso, o in quella pubblica, rifacendosi allo scopo riconosciuto dallo
Stato.
52
2.5 Causa di giustificazione non codificata
Autorevole dottrina, in particolar modo Antolisei, individua il fondamento di liceità del
trattamento medico «nel fatto che l‟attività medico-chirurgica corrisponde ad un alto
interesse sociale: la cura degli infermi, interesse che lo Stato riconosce, autorizzando
disciplinando e favorendo l‟attività medesima»
53
. Egli ne distingue i limiti di liceità dal
suo fondamento; i primi consistono nel consenso del paziente e nello stato di necessità, il
secondo però è differente.
54
Si distingue, in conformità a Grispigni
55
, tra esito fausto ed
infausto del trattamento medico-chirurgico eseguito leges artis: nel primo caso
mancherebbe la stessa tipicità del delitto di lesioni, in quanto l‟atto medico ha prodotto un
miglioramento nella salute del malato, perciò non sarebbe necessario ricorrere alle
normali cause di giustificazione; nella seconda ipotesi, sussistendo, invece, un
peggioramento della salute, non è utilizzabile la scriminante del consenso dell‟avente
diritto, data l‟indisponibilità del bene della vita e la disponibilità limitata dell‟integrità
fisica, occorrerebbe, dunque, ricorrere ad una scriminante non codificata. Tale causa di
giustificazione avrebbe ad oggetto lo stesso trattamento medico. Questa tesi gode
dell‟appoggio di Vassalli, il quale si richiama ad una causa di giustificazione de iure
50
IADECOLA, Potestà di curare, cit., p. 11
51
AVECONE, op. cit., p. 17, il quale richiama la teoria elaborata da LISZT.
52
IADECOLA, Potestà di curare, cit., p. 13
53
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 1975, p. 249
54
ANTOLISEI, op. cit., p. 247
55
GRISPIGNI, La liceità giuridico-penale del trattamento medico-chirurgico, Milano, 1914, p.
24.
15
condito non codificata, ma de iure condendo auspicabile.
56
L‟Autore , però, a differenza di
Antolisei, ha cura di precisare che, se si dovesse indicare la scriminante che più
specificamente va estesa al trattamento medico, si dovrebbe propendere per individuarne
più d‟una, tra quelle codificate. Trattasi, cioè, dell‟adempimento di un dovere, una volta
che l‟impegno di curare sia stato assunto, dal consenso dell‟avente diritto e dello stato di
necessità, soprattutto, se allargato alla c.d. necessità medica.
57
In questa concezione, la causa di giustificazione non codificata relativa al trattamento
medico-chirurgico, non deriva tanto dal ricorso al principio generale del bilanciamento
dei beni, e cioè all‟analogia iuris , quanto all‟estensione di specifiche scriminanti
codificate, quali il consenso dell‟avente diritto e lo stato di necessità, e quindi,
dall‟analogia legis. Di diversa opinione è però chi ritiene evidente non il ricorso
all‟analogia legis, ma, semmai, alla iuris poiché si è fatto leva sul principio generale in
tema di cause di giustificazione, ovvero la mancanza di danno sociale derivante dal
bilanciamento dei beni, in quanto, in tali situazioni, l‟azione è necessaria per salvare un
interesse che ha un valore sociale superiore o uguale a quello che si sacrifica
58
: «Così
argomentando, si inserisce tuttavia nel discorso, sia pure forse inconsapevolmente, un
elemento che, a ben vedere, non rinvia al classico bilanciamento dei beni, perché non
opera una valutazione tra il bene da salvare e quello da sacrificare, bensì conduce ad un
giudizio sull‟attività in sé, da un punto di vista generale ed astratto».
59
Ciò porta a
riconoscere che la tesi in questione contiene un evidente rinvio alla teoria
dell‟adeguatezza sociale della condotta.
60
Dall‟analisi delle autorevoli teorie proposte da Antolisei e da Vassalli, deriva,
comunque, il riconoscimento dell‟esistenza di lacune nel vigente sistema delle cause di
giustificazione. Infatti, non essendo stata originariamente prevista una scriminante
relativa al trattamento medico-chirurgico e non essendo idonee quelle codificate a
spiegarne interamente la liceità, si è costretti a ricorrere ad una non codificata.
61
La teoria della causa di giustificazione non codificata trova l‟accordo di chi auspica
una norma espressa di liceità dell‟attività sanitaria. Tuttavia, non si può concordare sulla
ravvisabilità del fondamento della causa di giustificazione nell‟ “alto interesse dello
Stato” , in quanto non è ritenuto sufficiente motivare un comportamento di tale interesse
sociale perché, automaticamente, quel fatto divenga lecito.
62
56
VASSALLI, Alcune considerazioni sul consenso del paziente e lo stato di necessità nel
trattamento medico-chirurgico, in Arch. pen., 1973, p. 94, ove l‟Autore afferma: «Noi pensiamo
che un diritto scritto così manifestamente insufficiente, lacunoso, occasionale, per non dire
inesistente, in una materia di così grande rilevanza umana e sociale non rispecchi la reale volontà
dell‟ordinamento. Pensiamo che, come nel campo dell‟attività sportiva e forse in altri campi,
esistano nel sistema vigente principii positivi, aventi valore normativo, ricavabili per analogia dal
sistema delle cause di giustificazione, in forza del quale il trattamento medico-chirurgico si
impone di per sé stesso, quando sia condotto in vista delle supreme esigenze della salute del
paziente e secondo la lex artis, come una fonte di discriminazione del fatto. A questa conclusione
ci conduce anche la palese insufficienza dei criteri desunti dalle cause di giustificazione
specificamente invocate tutte le volte in cui si tratti di risolvere i gravi conflitti dinanzi ai quali si
trovano prima la coscienza e l‟iniziativa del sanitario e, poi, chi è chiamato a giudicare».
57
VASSALLI, op. cit., p. 95, in nota 18.
58
MANNA, Trattamento medico-chirurgico, in Enc. dir., vol. XLIV, Milano, 1992, p. 1286
59
MANNA, ibidem.
60
MANNA, ibidem.
61
MANNA, Profili penalistici, cit., p. 111.
62
AVECONE, op. cit., p. 24