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CAPITOLO 1. LA FAMIGLIA DELLA PERSONA DISABILE
1.1 LA FAMIGLIA: DEFINIZIONE
Sorrentino (2006, p. 31) definisce la famiglia “una struttura complessa e articolata,
presente in tutti i sistemi sociali conosciuti; in maniera assai generica può essere definita
come una unità di cooperazione, basata sulla convivenza, avente lo scopo di garantire ai
suoi membri lo sviluppo e la protezione fisica e socioeconomica, la stabilità emotiva e il
sostegno nei momenti difficili. Fondata su un’alleanza di adulti, la famiglia ha, tra i suoi
compiti cardinali, la generazione e l’allevamento della prole; questo comprende sia le
cure fisiche e sia la trasmissione del patrimonio culturale e delle norme sociali della
comunità di appartenenza”.
Al suo interno vige una gerarchia ed una determinata struttura di ruoli che determinano i
rapporti reciproci, le modalità decisionali, la natura del potere e la distribuzione delle
responsabilità. Questa struttura e queste relazioni sono variabili nel tempo, anche in
funzione della fase che sta attraversando il nucleo famigliare; la struttura e la sua
configurazione nascono dalla contrattazione esplicita ed implicita tra i vari componenti
della stessa (Sorrentino, 2006).
Una variabile importante è rappresentata dalla presenza o meno di figli ed in particolare
di figli con disabilità
1
, poiché alla complessità insita nella sua natura se ne aggiunge una
ulteriore: diversi studi ritengono che laddove è presente un figlio disabile la famiglia
divenga patologica. È altresì vero che disadattamento e stress non sono conseguenze
inevitabili per le famiglie di bambini disabili (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).
1.2 IL CICLO DI VITA DELLA FAMIGLIA CON UN FIGLIO DISABILE
La vita della famiglia si svolge lungo un determinato ciclo e ciascuna fase di questo
ciclo di vita impone ai soggetti che la stanno attraversando ruoli caratterizzati
dall’assunzione di responsabilità secondo patti socialmente riconosciuti, libertà e
vincoli, diritti e doveri. Il ciclo di vita di una famiglia è lo svilupparsi di queste continue
1
Nella tesi ho deciso di utilizzare i termini persona disabile, disabile o persona con disabilità, poiché nei
testi consultati e menzionati in bibliografia questa è la terminologia più frequentemente utilizzata. Anche
all’interno della Convenzione dei diritti Umani promulgata nel 2007 dall’OMS vengono utilizzati
indistintamente i termini persona con disabilità, persona disabile o semplicemente disabile.
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evoluzioni, evoluzione che possono scorrere senza particolari problemi oppure fare i
conti con eventi della vita particolarmente stressanti.
Ciascuna famiglia ha delle aspettative su come sarà il proprio ciclo di vita e queste
immagini abiteranno sempre le menti dei componenti della famiglia e diverranno dei
modelli a cui riferirsi e da seguire. La nascita di un figlio disabile, inevitabilmente
comporterà riaggiustamenti e modificazioni nel ciclo di vita immaginato (Pavone,
2009).
1.2.1 La nascita di un figlio disabile
La disabilità di un figlio, ha un forte impatto sui genitori e sulla famiglia in generale, sia
che essa si manifesti sin dalla nascita e sia che essa si manifesti successivamente. Molta
letteratura ha considerato gli effetti dirompenti di questo evento sugli equilibri familiari
e ancor più personali, associandola ad una situazione di lutto, poiché il bambino tanto
atteso e desiderato non è come era stato sognato. La nascita di un figlio disabile quindi
disturba gravemente il ciclo vitale di una famiglia, mutandone il naturale dispiegarsi
(Zanobini, Usai, 2005).
Una madre di un ragazzo Down che frequenta il centro diurno in cui lavoro, mi ha
raccontato la reazione del padre quando è nato il loro figlio; non erano a conoscenza del
fatto che fosse affetto dalla sindrome di Down, ma appena nato i dottori hanno
riscontrato dei problemi ed il padre, presente in sala parto, ha notato egli stesso che
c’erano delle difficoltà. Alcuni mesi dopo il padre ha confidato alla moglie che il
momento della nascita del figlio è stato il momento più felice della sua vita, con il
rammarico però che sia durato solo pochi minuti.
Sorrentino (2006) afferma che il momento della gestazione, vissuto oggi in un ambito
che dà risalto agli aspetti sanitari del processo, alimenta nei coniugi ansie multiformi;
nel caso in cui i genitori decidano di portare a termine la gravidanza, è possibile
assistere, dopo che i genitori hanno avuto una prima diagnosi, a vissuti di profonda
angoscia, con reazioni simili a quelle da choc. Alla disperazione si alterna l’apatia a cui
possono seguire momenti di negazione idealizzata, dove la madre si sente impegnata in
un vissuto eroico di difesa del bambino contro il mondo, preludio di scompensi suoi e
del sistema familiare (Montobbio, 2002).
Quando al termine della gravidanza il figlio nasce, i vissuti che emergono possono
essere vari: ci sono momenti in cui si accusano i medici di incompetenza ed altri
momenti in cui la madre si sente in colpa, poiché non è riuscita a crescere un figlio sano
nel proprio corpo (Sorrentino, 2006).
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Come affermato in precedenza, la nascita di un figlio con disabilità può essere associata
ad una situazione di lutto. Secondo Bicknell (cit. in Zanobini, Usai 2005) è
fondamentale elaborare il lutto e per farlo è necessario compiere il seguente percorso:
dallo shock e dolore iniziali, in cui si manifestano sensi di colpa e rabbia, è
fondamentale giungere ad una fase di trattativa che sfocia successivamente in
un’accettazione del problema e nell’elaborazione di un progetto di vita sia per la
famiglia e sia per il bambino.
La disabilità che colpisce un bambino può manifestarsi in molti modi; a volte entra nella
vita della famiglia in modo subdolo e per molto tempo i genitori neppure se ne
accorgono (Franchini, 2007). Una madre di una ragazza che frequenta il centro in cui
lavoro, ha avuto i primi sentori del fatto che la figlia fosse disabile dopo alcune
settimane, osservando che la bambina non sorrideva; successivamente i medici le hanno
comunicato che la bambina era affetta da autismo e da ritardo mentale.
La nascita di un figlio disabile spesso frantuma le aspettative, i progetti e gli obiettivi
della famiglia, creando incertezza e ambiguità. I genitori posti di fronte a questa
situazione dovranno necessariamente ridisegnare la propria visione del mondo;
dovranno relazionarsi con strutture sanitarie e riabilitative, imparare cose nuove rispetto
ai bisogni del bambino e alle sue necessità in campo educativo. Tutto questo può
generare una situazione di difficoltà e di incertezza e nel caso in cui i genitori non
incontrino un contesto sociale favorevole, potranno percepire un senso di isolamento e
alienazione (Pavone, 2009).
Secondo Myers (cit. in Zanobini, Manetti, Usai, 2002) la forza dell’impatto di questo
evento muta a seconda della gravità e della tipologia della menomazione, oltre che in
rapporto alla situazione personale, familiare e sociale dei genitori; in questa fase
assumono notevole importanza i legami familiari e la loro funzione di contenimento e
rassicurazione.
Nelle fasi di elaborazione non è opportuno introdurre troppo rapidamente un progetto
riabilitativo prima che un qualche equilibrio emotivo nel sistema genitoriale sia stato
raggiunto, dovendosi consentire un’elaborazione del lutto del figlio sognato e
un’accomodazione al figlio reale, accomodazione difficile, ma possibile e a volte
tenerissima. Solo così si potranno ridurre al minimo le interferenze con il sistema
dell’attaccamento tra il bambino e la madre gravemente turbata (Zanobini, Usai 2005).
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1.2.2 La comunicazione della diagnosi
Il momento della consegna della diagnosi rappresenta un momento importante,
cardinale nella vita della famiglia; è un momento caratterizzato da forti emozioni e
queste sensazioni accompagneranno i famigliari in ogni istante della loro vita
rimanendo immagine indelebile con cui convivere (Zanobini, Manetti, Usai, 2002). La
diagnosi rappresenta una frattura nell’evoluzione della storia familiare suscitando grave
angoscia; di fronte ad essa le reazioni sono le più disparate e muteranno anche in
funzione dell’età della coppia, del fatto se il figlio disabile è il primogenito e della
gravità della diagnosi, ma non solo da essa.
Le modalità utilizzate dai medici hanno un valore estremamente importante: essere
empatici, chiari e mostrarsi disponibili verso i genitori non può impedire la sofferenza,
ma può rappresentare un buon inizio di un percorso che non sarà facile. Secondo Hasnat
e Graeves (cit. in Zanobini, Manetti, Usai, 2002) le famiglie che, al momento della
nascita, ricevono molte informazioni, sono più soddisfatte rispetto alle famiglie che, al
contrario, hanno ricevuto poche informazioni; i genitori, presi dallo sconforto, dalla
difficoltà del momento, desiderano avere molte informazioni nonostante queste talvolta
non siano così chiare e così facilmente comprensibili o addirittura possano essere
irritanti. Spesso accade che le informazioni fornite dai medici siano scarne o addirittura
assenti, lasciando così i genitori in balia di loro stessi al momento dell’inizio di questo
difficile percorso.
Tali modalità poco partecipative possono aggravare la situazione ed acuire
ulteriormente quel senso di solitudine che assale i genitori ed in particolare la madre
quando prendono coscienza che il loro figlio non è “normale” (Cervellin, 2003). Le
stesse istituzioni fanno fatica a farsi carico del bisogno affettivo e di vicinanza di queste
famiglie; i genitori spesso lamentano il fatto di essere stati lasciati soli di fronte alla
diagnosi, spesso comunicata in modo freddo e distaccato da un medico che si trincera
dietro il proprio ruolo professionale in un momento in cui i genitori vorrebbero che
smettesse il camicie per fornire loro vicinanza e attenzione, dando loro la possibilità di
poter esternare le innumerevoli domande e i numerosi interrogativi che affollano i loro
pensieri nel momento in cui viene comunicata la diagnosi.
Un errore a volte compiuto in questa fase così delicata è stato quello di consegnare la
diagnosi ad un solo membro della coppia: separare i coniugi nel momento iniziale del
trauma li priva del reciproco sostegno, negando così una prima possibilità per favorire
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l’instaurarsi di un’alleanza che sarà fondamentale per tutto il corso della vita
(Sorrentino, 1999).
L’esperienza di solitudine è una situazione che caratterizza molti momenti del ciclo di
vita della famiglia di un bambino con disabilità e viene ancor più incrementata
dall’inefficacia delle politiche sociali e dal scarso dialogo tra i vari servizi che prendono
in carico il figlio (Zanobini, Usai 2005).
Sorrentino (2006) pone in evidenza come il progresso scientifico, e della medicina in
particolare, abbia permesso di ridurre le incidenze negative della malattia su tutta la
popolazione. Tuttavia i professionisti talvolta tendono ad attribuire eccessiva enfasi alla
necessità di nuovi approfondimenti diagnostici, quasi si ricorresse in modo difensivo a
ripararsi dietro questa necessità di capire, senza lasciare il tempo necessario ai genitori
di poter metabolizzare questo evento molto critico. La sensazione è quella che non ci sia
tempo per il dolore, per l’ascolto; sembra che ogni perdita di tempo possa causare un
ulteriore danno al bambino. Si deve reagire, i professionisti ci chiedono di farlo poiché
proporre e realizzare nuove indagini diagnostiche è molto più semplice di ascoltare e
fornire sostegno a genitori a cui è crollato il mondo addosso.
I genitori in questi momenti vanno sostenuti e necessitano di interlocutori forti, come i
membri anziani della famiglia e i medici, soggetti che si suppone esperti e che possano
accompagnare e rassicurare la coppia in questo momento delicato (Ianes, 1991).
1.2.3 La reazione dei genitori quando viene comunicata la diagnosi
Quando i medici informano la famiglia, il progetto esistenziale di questa va in crisi
poiché si sentono genitori di un bambino non sano, coniugi di un partner ferito,
responsabili, se presenti, di altri figli coinvolti in un comune dolore. Le reazioni da parte
dei genitori saranno determinate dalla diversa combinazione di vari fattori quali la
personalità e le sue caratteristiche, le risorse soggettive, la natura dei legami creati in
precedenza e le esperienze di vita (Zanobini, Usai, 2005).
Una famiglia che si trova a dover affrontare questo evento dovrebbe cercare di mettere
in atto un processo di accomodazione; raramente accade che i componenti giungano allo
stesso momento ad attuarlo. I genitori necessitano di tempo prima di poter affrontare la
situazione; tale tempo serve per poter attivare le proprie risorse affettive, emotive,
cognitive ed organizzative e non solamente per accettare il figlio disabile. Si
intrecceranno momenti in cui la famiglia viene colta dall’ansia ad altri in cui tenderà a
minimizzare i problemi; entrambe queste sensazioni possono avere valenze positive in
quanto l’ansia potrà indurre i genitori ad attivarsi quando sono colti dallo scoramento,
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mentre la tendenza a minimizzare potrà indurre la famiglia ad assumere nuove
informazioni e limitare l’effetto traumatico della notizia. Nel cammino che coinvolgerà
la famiglia vi sarà un continuo oscillare tra momenti negativi e momenti positivi in
continuo divenire (Pavone, 2009).
Accade che la famiglia dia vita a modalità difensive improprie, ad esempio attraverso
processi di misconoscimento sia del deficit del figlio, sia dello stress subito dal partner e
sia della costrizione imposta dalle circostanze sulle esigenze naturali dei figli sani.
Questi misconoscimenti generano intenso disagio nel figlio disabile, spesso usato come
capro espiatorio delle insoddisfazioni del genitore; in questo processo di
misconoscimento, talvolta vengono negate le abilità del figlio, il quale diviene
impossibilitato ad esprimersi. È iperprotetto, ma questa iperprotezione spesso rischia di
essere finalizzata all’evitare l’imbarazzo del genitore (Montobbio, 2002).
1.2.4 La fase adulta
Con il trascorrere degli anni la famiglia si scontra con la consapevolezza che la
menomazione
2
del figlio è immodificabile; la disabilità nonostante gli sforzi e
l’impegno rimane nel tempo e questo sul piano emotivo appare piuttosto difficile da
accettare per i genitori. Questa sensazione è ancor più presente nei momenti di
passaggio tra una fase e l’altra del ciclo di vita, soprattutto se si paragona il proprio
figlio ai suoi coetanei (Sorrentino, 2006).
Un momento delicato è rappresentato dall’adolescenza; i genitori osservano che mentre
i figli di parenti o amici o conoscenti si stanno progressivamente rendendo indipendenti,
il proprio invece continua ad essere dipendente da loro; inoltre può accadere che
emergano problemi comportamentali ancor più gravi, problemi che causano ulteriore
isolamento sociale e ulteriore stress all’interno del nucleo famigliare. È nell’adolescenza
che spesso emerge anche in modo evidente la vita affettiva e sessuale dei figli disabili
(Marocco Mattini, 2009). La sfera della sessualità vissuta in genere come un tabù lo è
ancor di più quando coinvolge soggetti disabili; non tutte le famiglie riescono ad
affrontare l’argomento, anche perché negano che il proprio figlio, spesso trattato e
2
Nel contesto delle conoscenze e delle opere sanitarie, si intende per menomazione qualsiasi perdita o
anomalia a carico di strutture o funzioni psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Tali perdite o anomalie
possono avere carattere transitorio o permanente e possono essere a carico di arti, organi, tessuti o altre
strutture del corpo, incluso il sistema delle funzioni mentali. La menomazione rappresenta
l'esteriorizzazione di uno stato patologico e in genere, vengono suddivise in quattro categorie:
menomazioni di tipo motorio, menomazioni uditive, menomazioni visive e menomazioni organiche.
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considerato come un eterno bambino, possa avere esigenze di questo genere e
manifestare tali bisogni (Magrini 2004).
Infine un altro momento cruciale è rappresentato dal diventare adulto. Il diventare
adulto della persona con disabilità spesso si scontra nuovamente con la tendenza, da
parte dei genitori e degli operatori dei servizi, a considerare il ragazzo come un eterno
bambino, non investendo, né a livello di immaginario, né attraverso concrete azioni
educative sulla sua emancipazione (Montobbio e Lepri, 2000). Vi sono famiglie che
riescono a programmare quello che viene definito “il dopo di noi” attraverso un
graduale percorso volto all’inserimento presso una comunità, altre invece che si trovano
a gestire questa transizione in modo del tutto improvvisato, a causa di un lutto o di una
malattia di un famigliare, causando problemi a sé, con l’emergere di vissuti di
abbandono, senso di colpa e inadeguatezza, e soprattutto al proprio figlio in cui possono
emergere sensazioni di esclusione.
1.3 VIVERE CON UN FIGLIO DISABILE: LE POSSIBILI CONSEGUENZE
La nascita di un figlio disabile è un momento molto difficile e costringe in modo
innaturale a pensare al futuro del figlio, futuro che si presenta nebuloso e privo di
certezze. Questo pensiero è innaturale, poiché mai come quando nasce un figlio una
famiglia è ancorata al presente; i genitori sono tutti intenti a soddisfare i bisogni e le
esigenze del bambino e quando è tranquillo a godersi il nuovo arrivato: non c’è tempo
di pensarlo a quando andrà a scuola o a cosa farà quando sarà adulto. Invece la nascita
di un figlio disabile obbliga a pensare al futuro, nonostante siano scarsi gli strumenti e
le risorse per poterlo fare; i genitori si porranno delle domande senza che nessuno possa
dare loro delle risposte (Zanobini, Manetti, Usai, 2002).
I figli disabili non sono solo fonte di preoccupazione o di difficoltà, ma possono essere
in molti modi fonte di soddisfazione per i genitori (Zanobini, Usai, 2005); un primo
motivo di gratificazione è l’esistenza stessa del figlio e l’esperienza genitoriale in sé. Un
altro elemento di soddisfazione sono i risultati educativi raggiunti dal proprio figlio,
risultati ottenuti spesso spendendo numerose risorse ed energie e per questo motivo
ancora più apprezzati e soddisfacenti. Una madre di un ragazzo che frequenta il centro
in cui lavoro, non smette di ringraziare gli educatori e di gioire per il fatto che
finalmente può andare, assieme al marito, a mangiare la pizza con il proprio figlio senza
che questi assuma comportamenti inadeguati. Ulteriore fonte di appagamento è la
sensazione di cambiamento personale, talvolta di rinascita, legata all’esperienza della
disabilità. I genitori mutano l’ordine dei valori delle cose e le stesse priorità della
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famiglia cambiano; diventano meno esigenti, meno giudicanti e più equilibrati
nell’attribuire peso e significato agli eventi quotidiani. Questa forma di gratificazione,
tuttavia, non sempre si manifesta, poiché talvolta accade che alcune famiglie diventino
tutt’altro che equilibrate nel valutare gli eventi della quotidianità. Le fonti di
gratificazioni possono essere quindi molteplici e talvolta a creare le difficoltà maggiori
non sono tanto le difficoltà del figlio a raggiungere determinati traguardi, ma lo sguardo
pietistico o il giudizio negativo delle altre persone circa le scelte educative fatte per il
proprio figlio.
Erikson e Upshur (cit. in Zanobini, Manetti, Usai, 2002) affermano che le famiglie delle
persone con disabilità si differenziano per tre caratteristiche: compiti di cura più
difficoltosi, isolamento sociale, diverso ruolo del padre. Rispetto al primo punto è
possibile affermare che i tempi di cura dedicati al figlio disabile mutano in base all’età
del figlio, alla gravità e alla tipologia della disabilità, alle caratteristiche
comportamentali oltre che dalla personalità dei genitori. In generale si può osservare nel
bambino disabile un ridotto bagaglio di autonomia che implica maggiori tempi di cura
da parte dei genitori: i tempi dedicati all’alimentazione o all’igiene personale sono più
lunghi e talvolta anche il dispendio fisico è elevato, soprattutto se il figlio presenta
menomazioni motorie (Zanobini, Manetti, Usai, 2002). Deficit linguistici o problemi
sensoriali possono rendere più difficile la comunicazione o rendere necessaria la
costruzione di codici comunicativi nuovi; inoltre possono essere presenti problemi
cognitivi che rendono difficile l’adattamento all’ambiente. Infine possono essere
presenti disturbi comportamentali che richiedono ai genitori ulteriori sforzi per
affrontare i bisogni emergenti da questi disturbi, come ad esempio la necessità di fornire
contenimento ai figli (Carr, Levin, McConnachie, Carlson, Kemp, Smith, 1998).
L’isolamento sociale può scaturire dal fatto che per poter accudire il proprio figlio, i
genitori e la madre in particolare, necessitano di tempo e quindi sono costretti a
ridimensionare i propri impegni lavorativi e/o ricreativi (Sorrentino, 1987). La nascita di
un bambino disabile pone la madre-lavoratrice di fronte ad un bivio: scegliere se
rinunciare al proprio lavoro e alla propria realizzazione personale per il bene del figlio o
cercare soluzioni per conciliare entrambe le cose, rischiando di essere additata come una
cattiva madre. In genere la comunità, e anche il padre, spinge verso il “sacrificio” della
madre, dimenticandosi di “ricompensarla” e lasciandola sola ad affrontare le difficoltà
che emergono da questa situazione. Questa scelta rischia di avere effetti negativi sulla
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relazione madre-bambino, perché una madre insoddisfatta è una madre che non riuscirà
a rispondere adeguatamente alle richieste e alle esigenze del proprio figlio.
Nel tempo si è diffuso il mito dell’assenza paterna, presentato come un uomo incapace
di trovare, di fronte ad un problema, soluzioni diverse dalla fuga nel lavoro e
dall’apatia; esso assume un ruolo più marginale e di natura economica. La
consapevolezza del problema del proprio figlio mette in atto dinamismi di accettazione
e di rifiuto, di rassegnazione e di rabbia, di incertezza e di speranza; tutte queste
emozioni e sensazioni sembrano convivere nei padri che raccontano la loro storia,
caratterizzando in modo alterno la loro vicenda e quella della loro famiglia (Zanobini,
Manetti, Usai, 2002).
La situazione di disabilità del figlio, con il trascorrere del tempo potrà causare
sconvolgimenti all’identità della famiglia e quindi sarà necessario sviluppare nuovi
rituali e nuove regole per poter gestire al meglio i problemi che eventualmente
emergeranno. La disabilità crea una situazione critica, che può diventare persistente e
distruttiva quando i genitori non riescono ad adeguarsi alle nuove domande poste dalla
situazione. L’identità e gli stessi obiettivi di vita mutano; può accadere che la famiglia
dedichi una misura sproporzionata ed eccessiva di risorse a contrastare questo evento,
riducendo notevolmente quelle dedicate alla quotidianità. Questo squilibrio potrebbe
portare secondo Zanobini, Manetti e Usai (2002) alla costruzione di una “identità
malata”: la famiglia focalizza la propria attenzione sulla patologia e la disabilità diventa
un evento pervasivo. Altri nuclei invece focalizzeranno la loro attenzione sui possibili
processi di salute dando vita alla costruzione di una nuova identità: in questo caso la
disabilità rappresenta un evento importante, ma non tutte le risorse saranno investite su
questo evento e comunque non tutte le sfere della vita verranno condizionate da questa
situazione.
Potrà accadere che i familiari non condividano lo stesso modello di riferimento; quando
queste divergenze sono ampie, si può giungere alla dissoluzione del sistema familiare,
quando invece il sistema famigliare riesce a strutturarsi secondo nuove norme, tende a
divenire più forte e coeso e gli stessi membri della famiglia troveranno giovamento dal
modo in cui hanno reagito alla situazione avversa (Sorrentino, 2006).
Concludendo possiamo affermare che il rischio per la coppia è quello di viversi solo ed
esclusivamente come genitori di un bambino disabile e non più come coppia. Tuttavia
non sono i genitori gli unici elementi a subire gli effetti della presenza, all’interno della
famiglia, di una persona con disabilità.
22
1.4 VIVERE CON UN FRATELLO DISABILE
Nella crescita di una persona, e all’interno della famiglia, un ruolo importante viene
assunto dai fratelli; i siblings
3
(Marozzi, 2007, p. 100) sono componenti importanti
all’interno della famiglia in cui vive una persona disabile, perché possono assumere
ruoli e compiti tipici dei genitori in modo da alleggerire il peso della gestione del
fratello.
In genere accade che i fratelli, verso un fratello con disabilità, assumano un
comportamento analogo a quello dei genitori; se i genitori tenderanno ad essere
iperprotettivi, lo saranno anche i fratelli, che lasceranno quindi pochi spazi di crescita al
fratello. Se invece i genitori assumeranno un atteggiamento distaccato o di rifiuto,
autorizzeranno gli altri figli a comportarsi nella stessa maniera; può accadere, come
narra Pontiggia (2002), che il fratello disabile diventi un nemico
4
.
Sorrentino (2006) afferma che spesso accade che i genitori giustifichino la mancanza di
attenzione verso gli altri figli con il fatto che il fratello disabile necessita di cure
continue; talvolta l’assistenza si allarga a tutti i momenti della vita. Questo si ripercuote
negativamente sia sul figlio disabile, al quale non viene data la possibilità di crescere e
sperimentarsi nei vari contesti di vita, e sia sui figli sani, poiché ricevono
prematuramente la patente di maturi, di grandi, prima di averla meritata e soprattutto di
averla desiderata, in quanto vorrebbero ancora che i genitori si prendessero cura anche
di loro. Capita inoltre che vengano privati di attenzioni, dando vita a comportamenti
inaccettabili, quali l’emulazione e disturbi psicosomatici, e quindi a ulteriori
preoccupazioni per i genitori, i quali spesso non riescono ad attribuire un corretto
significato a questi comportamenti, dando vita a rimproveri severi, chiedendo al figlio
sano di capire la situazione, ma non sforzandosi loro stessi di capire le loro emozioni e
il loro stato d’animo. Questi rimproveri se da un lato intimoriscono, dall’altro
confermano nuovamente la preferenza per il fratello; quindi per i genitori di un bambino
disabile diventa talvolta difficile crescere in modo equilibrato gli altri figli, generando in
loro alcuni problemi e talvolta il desiderio di fuga dalla famiglia, appena questo è
3
Sibling è il termine inglese neutro in riferimento all’essere fratello o sorella; nella nostra lingua questo
vocabolo non esiste e viene sostituito dal sostantivo maschile “fratello”. Tuttavia la parola inglese viene
preferita al corrispettivo italiano quando si vuole indicare la condizione di vita di quei fratelli e sorelle di
persone con disabilità.
4
Nel suo romanzo Nati due volte, l’autore riporta un dialogo tra un medico e il protagonista del romanzo:
«Pura invidia per il fratello minore» aveva spiegato, «coccolato dai genitori e al centro dell’attenzione.»
«Si, ma per i suoi problemi.» «Che importanza ha?» aveva replicato:«lui ha finito di essere il sole per
diventare un satellite. Non potrà mai perdonarglielo. Sono ferite che non si rimarginano» (Mondadori,
2002, p. 67).