operativi ibridi”,
4
al fine di «congelare la situazione conflittuale e
favorire il regolamento concordato tra i belligeranti»: le c.d. operazioni
per a p )il m ntenimento della pace (peacekee ing operations .
La caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda
determinarono una svolta nell’ambito della comunità internazionale: la
fine del sistema bipolare creò un clima di grande incertezza, in cui
esistevano buoni presupposti per individuare nelle Nazioni Unite il
cardine del nuovo ordine mondiale. In realtà, due possibili scenari si
prospettavano all’orizzonte: da un lato si sarebbe potuto realizzare un
sistema basato su considerazioni di potenza, in cui gli Stati Uniti
avrebbero svolto un ruolo egemonico; dall’altro si sarebbe potuto
ipotizzare un sistema basato sull’istituzionalismo internazionale, con le
Nazioni Unite al centro. In quest’ottica, liberatasi dai vincoli che per anni
l’avevano costretta a svolgere un ruolo passivo, l’ONU avrebbe
finalmente potuto realizzare quegli obiettivi che si era prefissata mezzo
secolo prima.
Purtroppo i fatti delusero le attese: la cessazione dello scontro
bipolare non rese l’Organizzazione automaticamente protagonista della
politica mondiale. Dovendosi confrontare con una nuova tipologia di
conflitti, quest’ultima cercò di intervenire in modo più incisivo rispetto
al passato, ma le esitazioni e le divergenze tra gli Stati non le permisero,
come dimostrerà l’esempio somalo, di farlo realmente. Il principale
ostacolo, in tal senso, consistette nel fatto che né l’Organizzazione né gli
Stati membri rifletterono seriamente sulle cause profonde dei nuovi
conflitti scoppiati in Asia, Africa, nelle ex Repubbliche Sovietiche e nella
stessa Europa.
La visione ottimistica del potenziale ruolo dell’ONU si basava su due
itutto, la capacità di azione riacquistata dal Consiglio presupposti: innanz
vii
4
Con tale espressione, s’intende la recente prassi riguardante casi di operazioni di
mantenimento della pace in cui l’autorizzazione ad utilizzare la forza armata non è
stata limitata a situazioni di legittima difesa. Cfr. EMANUELLI, Les actions militaires de
l’ONU et le droit international humanitaire, Montreal, 1995
di Sicurezza, grazie alla cooperazione raggiunta tra i Membri
permanenti, avrebbe reso possibile punire le aggressioni e
contestualmente creare un effetto dissuasivo per il futuro (l’intervento
in Iraq rafforzò questa tesi). In secondo luogo, le Nazioni Unite
sarebbero finalmente potute intervenire nei conflitti “regionali”, laddove
in passato ciò era stato impedito dal coinvolgimento delle due
supe orp tenze.
Le operazioni di pace delle Nazioni Unite divennero così, in
particolare dai primi anni novanta, il principale strumento con cui
affrontare le situazioni di crisi. Tuttavia, con la caduta dell’Unione
Sovietica si assistette anche a una frammentazione politica mondiale con
il conseguente moltiplicarsi dei conflitti interni. Questo, come vedremo,
costrinse le Nazioni Unite a modificare il loro approccio, giungendo al
superamento di alcuni caratteri originari delle operazioni di pace e allo
svilu ri p ’ippo di alt ti i d ntervento.
Anzitutto vi fu un’evoluzione dei mandati delle missioni di
peacekeeping (c.d. peacekeeping multifunzionale) e il contestuale
sovrapporsi a quest’ultime delle operazioni di peace enforcement. D’altro
canto, gli evidenti insuccessi che iniziarono a susseguirsi, a partire dalla
stessa operazione in Somalia, spinsero a dubitare dell’effettiva capacità
dell’Organizzazione di gestire tali situazioni di crisi. Per questo motivo
nella prassi recente, soprattutto grazie all’influenza della politica estera
statunitense proiettata verso un approccio unilaterale, si sono
sviluppate altre tipologie d’intervento che prevedono l’uso della forza da
parte di singoli o gruppi di Stati su autorizzazione del Consiglio di
Sicurezza (c.d. coalition of the willing).
Questo lavoro si propone dunque di analizzare con quali strumenti e
quali risultati le Nazioni Unite hanno svolto il compito principale per cui
sono state istituite nel 1945. A tal proposito, è stato scelto come caso
emblematico quello della Somalia.
viii
La vicenda somala, infatti, non solo costituisce un esempio di come e
con quali mezzi le Nazioni Unite possano intervenire nelle zone di
conflitto al fine di garantire la pace e la sicurezza internazionale, ma
presenta anche molti aspetti interessanti sotto il profilo della legittimità
dell’uso della forza da parte di singoli Stati rispetto alla competenza che,
nel suddetto ambito, dovrebbe spettare in via esclusiva al Consiglio di
sicurezza.
L’analisi verrà articolata quindi in due capitoli. Nel primo mi
propongo di tracciare un quadro generale degli strumenti a disposizione
dell’ONU e delle possibili modalità di intervento di quest’ultima nelle
zone di conflitto, affrontando anche il problema inerente a l’uso della
forza autorizzato dal Consiglio di sicurezza e al’attuale tema
dell’intervento umanitario, di cui peraltro le operazioni condotte in
Somalia costituiscono un esempio pratico. Nel secondo capitolo, invece,
sarà esaminata specificatamente l’attività posta in essere dalle Nazioni
Unite e, più in generale, dalla comunità internazionale per risolvere la
situazione somala, cercando di mettere in evidenza gli aspetti più
controversi di una delle crisi più gravi e durature di tutti i tempi.
ix
CAPITOLO 1
GLI STRUMENTI DELLE NAZIONI UNITE PER IL
MANTENIMENTO DELLA PACE E DELLA SICUREZZA
INTERNAZIONALE
1. Il sistema delineato dalla Carta delle Nazioni Unite
Prima di addentrarci specificatamente nell’analisi dei diversi aspetti
della crisi somala, credo sia opportuno illustrare brevemente il quadro
di riferimento nel quale si trova ad operare l’ONU per svolgere il suo
compito principale di mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale. A questo proposito, la Carta di San Francisco si basa
essenzialmente su tre principi e strumenti fondamentali: il divieto della
minaccia e dell’uso della forza ex art. 2 par. 4, la legittima difesa
individuale e collettiva in caso di attacco armato ex art. 51, il sistema di
sicurezza collettiva affidato al Consiglio di Sicurezza ex Capitolo VII.
Quanto al divieto di cui all’art. 2 par. 4, non occorre sottolineare che
si tratta di una disposizione la cui importanza è unanimemente
riconosciuta, soprattutto in quanto espressione della principale
intenzione dei padri fondatori dell’Organizzazione: la messa al bando in
asso l a luto di qua siasi tipo di uso dell forza da parte degli Stati.
5
Essa vieta non solo l’uso, ma anche la semplice minaccia dell’uso
della forza. Ovviamente non è facile stabilire cosa debba intendersi con il
termine “minaccia”, però vi sono alcune ipotesi limite indubbie: ad
esempio, un ultimatum o l’invio di forze militari ai confini di uno Stato
ossimità con intenti non pacifici. straniero o in sua pr
1
5
Peraltro, il divieto dell’uso della forza è stato riaffermato e precisato in molteplici
risoluzioni adottate dall’Assemblea Generale. Vedi, ad esempio, Ris. 2625 (XXV) del 24
ottobre 1970; Ris. 3314 42/22 del 18 novembre 1987.
Il fulcro della disposizione resta comunque il divieto dell’uso della
forza contro l’integrità territoriale di uno Stato e la sua indipendenza,
tanto che la violazione di tale divieto costituirebbe un illecito
internazionale. D’altra parte, la stessa Corte di Giustizia Internazionale,
nella celebre sentenza sulle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e
contro il Nicaragua,
6
ha affermato la natura consuetudinaria del
principio affermato nella suddetta norma,
7
vincolando perciò tutti gli
Stati e gli altri soggetti della comunità internazionale, a prescindere dalla
loro appartenenza alle Nazioni Unite. Non serve ricordare, inoltre, che gli
obblighi derivanti dalla Carta, in virtù del principio stabilito dall’art. 103
della medesima, prevalgono su tutti gli altri obblighi imposti da
eventuali trattati internazionali.
8
Si può affermare, pertanto, che la
norma dell’art. 2 par. 4 rappresenta un vero e proprio esempio di diritto
inte a g rnazion le indero abile (ius cogens).
9
In tale contesto, la disposizione in esame costituisce peraltro un
limite invalicabile all’autotutela, cioè “il farsi giustizia da sé”, intesa come
normale reazione all’illecito internazionale. L’unica eccezione viene
espressamente prevista dall’art. 51 della Carta, laddove si riconosce il
diritto alla legittima difesa individuale e collettiva in caso di attacco
armato. E’ utile rilevare sin da ora il requisito essenziale dell’attacco
armato, per cui si dovrebbe escludere un’interpretazione estensiva della
norma in questione che miri a riconoscere la possibilità di esercitare il
diritto anche come mera misura preventiva, atta ad evitare un futuro,
(anche imminente) attacco armato altrui.
6
e Concerning military and paramilitary activ ainst Nicaragua, I.C.J., Cas ities in and ag
27 giugno 1986.
7
TREVES, Diritto internazionale: Problemi fondamentali, Milano, 2005.
8
Sul rilievo dell’art. 103 nel sistema istituito dalla Carta, cfr. ORAKHELASHVILI, The
A Council: Meaning ck Yearbook of
2
ct of the Security and Standards of Review, in Max Plan
UN Law, 2007‐11
9
Cfr. CONFORTI, Le Nazioni Unite, VII ed., Padova, 2005 e MARCHISIO, L’ONU, Il diritto
delle Nazioni Unite, Bologna, 2000.
L’oggetto dell’attacco deve essere il territorio dello Stato e/o le
strutture statali anche se al di fuori del territorio (ad esempio i corpi di
truppa all’estero); al contrario, non rientra in quest’ambito un’eventuale
azione contro una sede diplomatica e/o gli agenti diplomatici stranieri
accreditati presso lo Stato, come ha avuto modo di chiarire la Corte
Internazionale di Giustizia nella sentenza del 1980 sul caso del Personale
diplomatico e consolare a Teheran.
10
Infine, non si considera attacco
nean rche un incidente di frontie a.
Di crescente rilievo nella pratica internazionale recente è la c.d.
aggressione indiretta, ovvero un’azione militare condotta da forze
irregolari o mercenari organizzati da uno Stato. Ovviamente, anche
questa è una forma di aggressione illecita, condannata dalla Risoluzione
dell’Assemblea Generale n. 3314 del 1974 e dalla stessa Corte
Internazionale nella ricordata sentenza del 1986 nella controversia tra
Nicaragua e USA. Più dubbia, invece, risulta la configurabilità della
legittima difesa nei confronti di entità c.d. “non statali”.
11
I caratteri che vengono generalmente individuati dalla dottrina per
l’esercizio legittimo di tale diritto sono tre: necessità, proporzionalità e
immediatezza.
12
In sostanza, l’azione deve essere:
ξ L’unico mezzo utilizzabile per resistere o respingere l’attacco
armato.
ξ Commisurata all’attacco subito e al fine che persegue, cioè
ripristinare lo status quo ante.
ξ Ragionevolmente immediata, ovvero collegata temporalmente e
finalisticamente all’attacco subito, onde evitare che venga considerata
lia. come una rappresag
10
Unite matic and consular staff in Tehran, I.C.J., Case concerning d States diplo
24 maggio 1980.
11
qu sto proposito, vedi infra par. 4.4
12
Tra gli altri vedi: TREVES, op. cit.; SCHACHTER, International law in theory and
practice, Dordrecht, 1991
A e : cap. 2,
3
L’azione diretta dello Stato, tuttavia, viene prevista solo come
strumento provvisorio: l’art. 51, infatti, prevede che venga subito
comunicata al Consiglio di Sicurezza e cessi al momento in cui il
medesimo adotti le misure necessarie per il mantenimento e il
ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale. A tal
proposito, però, è stato sottolineato da alcuni autori che il diritto di
autodifesa cessa soltanto nel momento in cui vengano adottate misure
effettivamente idonee al caso concreto.
13
Ad esempio, una mera
raccomandazione di cessate il fuoco non può ritenersi sufficiente a
ripristinare la pace in uno Stato il cui territorio sia stato invaso da un
altro. In tal caso, pertanto, lo Stato invaso ben potrà ricorrere alle armi
per liberarsi delle forze straniere, nonostante la raccomandazione del
Consiglio.
Il diritto all’autodifesa è riconosciuto anche a Stati diversi da quello
specificatamente attaccato: tale è il significato del termine “legittima
difesa collettiva”. Tuttavia, un simile intervento è subordinato a un
ulteriore requisito, ovvero il consenso dello Stato vittima reale
dell’aggressione. Nella prassi questa eccezione è stata addotta molto
spesso per giustificare azioni militari nei confronti di determinati Stati,
soprattutto dagli USA, ma la sua importanza nell’ambito delle relazioni
internazionali risulta in particolare dai trattati delle organizzazioni di
cooperazione militare (come la NATO), espressamente fondati sul diritto
di autodifesa collettiva, e dal fatto che le organizzazioni militari regionali
possono respingere una forza armata senza l’autorizzazione del
Consiglio.
Concludiamo ricordando che l’art. 51 è norma derogatoria
eccezionale, pertanto dovrebbe essere interpretata in senso
assolutamente restrittivo, limitando al massimo la competenza generale
ria di pace e sicurezza internazionale. del Consiglio in mate
4
13
Cfr. PACCIONE, Il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale nelle
Nazioni Unite, 2005.
2. Segue: I poteri attribuiti al Consiglio di Sicurezza
Diversamente dai singoli Stati, cui è precluso l’impiego della forza
armata, il Consiglio di Sicurezza ha il potere di intervenire anche con la
forza se necessario al perseguimento del suo compito principale: il
man i d la .2
14
ten mento el pace (art 4).
In realtà, il Consiglio ha a disposizione diverse possibilità
d’intervento, che vanno dalle misure economiche, commerciali,
finanziarie o diplomatiche non implicanti l’uso della forza e previste
dall’art. 41, all’autorizzazione di vere e proprie azioni militari ex art. 42,
laddove le predette misure si fossero rivelate insufficienti. Peraltro,
poiché quest’ultimo non è dotato dei mezzi militari necessari, nella
prassi si è affermata una duplice tendenza: a volte si è fatto ricorso alle
operazioni di peacekeeping, mediante l’invio dei c.d. caschi blu, altre
volte invece il Consiglio ha preferito limitarsi ad autorizzare con una
propria risoluzione gruppi di Stati o organizzazioni regionali a usare la
forza (vedremo nel prossimo capitolo come in Somalia si sia fatto ricorso
ad entrambe le tipologie d’intervento).
E’ opportuno rilevare che il ricorso alla seconda tipologia d’azione è
stato da più parti contestato,
15
poiché il meccanismo dell’autorizzazione
determina una sorta di delega della forza ad un gruppo di Stati fuori
dalla direzione e dal controllo dell’ONU. Al contrario, il sistema di
sicurezza collettiva ideato dalla Carta di San Francisco si
caratterizzerebbe per la concentrazione delle funzioni militari in capo al
Consiglio di Sicurezza che, assumendosene la responsabilità politica,
dovrebbe garantire l’obiettività dell’operazione militare e la sua
14
Sul ruolo essenziale svolto dal Consiglio nella “governance” in materia di sicurezza
internazionale, vedi TERZI DI SANT’AGATA, La cooperazione internazionale nel campo
de l a nizzazioni multilaterali, in La Comunità
e z
5
l a sicurezza: l’Itali nella principali orga
Int rna ionale, 2008‐1
15
Per i riferimenti si rinvia a PICONE, Interventi delle Nazioni Unite e diritto
internazionale, Padova, 1995.
congruenza rispetto al fine ultimo perseguito: il mantenimento della
pace e della sicurezza internazionale.
Altra parte della dottrina, comunque, fa notare come
l’autorizzazione del Consiglio all’impiego della forza armata da parte di
singoli Stati non sia incompatibile con il sistema della Carta. Un uso
decentrato della forza armata su delega o autorizzazione del Consiglio è
previsto, invero, dalla stessa Carta con riguardo agli accordi o alle
organizzazioni regionali (ex art. 53).
16
Inoltre, ai sensi degli art. 39 e 42,
sembrerebbe che il Consiglio possa raccomandare agli Stati misure
implicanti l’uso della forza armata, quindi si potrebbe ritenere
sostanzialmente assimilabile l’autorizzazione in questione a una
raccomandazione avente il medesimo contenuto.
17
Ciò nonostante,
affinché una simile autorizzazione sia legittima, è necessario che il
controllo dell’operazione permanga costantemente in capo al Consiglio
medesimo, affinché adempia la propria responsabilità.
18
In altri termini,
secondo tale ricostruzione, il Consiglio, privo dei mezzi militari
necessari, può delegare agli Stati lo svolgimento di un’operazione
militare, ma non può spogliarsi della responsabilità di tale operazione,
cioè della sua funzione di controllo, stante il carattere di esclusività che
la Carta conferisce alla suddetta responsabilità.
19
Per quanto concerne invece la prima possibilità d’intervento, ovvero
il ricorso alle operazioni di peacekeeping, non c’è dubbio che ormai si
tratti di una prassi ampiamente accettata e utilizzata all’interno della
comunità internazionale. Ciò nonostante, bisogna rilevare come anche in
quest’ambito non manchino dubbi interpretativi, soprattutto in virtù del
16
Cfr. VILLANI, studio su Les rapports entre l’ONU et les organisations regionales dans le
do intien de la paix, in Recueil des cours de l’Academie de droit
a Haye, 2001
maine du ma
International de l
17
ritto internazionale, Bari,
6
Cfr. VILLANI, Il disarmo dell’Iraq e l’uso della forza nel di
2003
18
affermazione di tale esigenza, ved La guerra del Kossovo e il
nale generale, in Rivista di diritto i ale, 2000, p.309 ss.
Per una netta i: PICONE,
diritto internazio nternazion
19
Cfr: VILLANI, Lezioni sull’ONU e la crisi del Golfo, Bari 1995