4
studi di matrice soprattutto italiana, infatti, emerge la consapevolezza che la
piccola dimensione non rappresenti una condizione transitoria della vita
dell’impresa bensì un assetto stabile e coerente con il sistema di obiettivi e vincoli
imposti dalla gestione e dell’ambiente circostante.
L’analisi dei vari aspetti che descrivono la struttura delle imprese ha
permesso, poi, di evidenziare alcuni limiti tipici di cui soffrono le PMI e che ne
riducono la capacità competitiva; limiti, spesso, riconducibili ad alcune
caratteristiche personali e alla cultura dell’imprenditore che hanno trovato
riscontro anche in alcune indagini empiriche condotte nell’area meridionale.
Tuttavia, le eterogenee e dinamiche forme di aggregazione inter-
organizzative, che si sono sviluppate in alcune aree territoriali italiane, basate su
intensi rapporti formali e informali tra le imprese, hanno consentito alle stesse, pur
mantenendo la propria autonomia e dimensione, di realizzare una crescita
sinergica dell’apprendimento e delle attività intraprese e di superare, pertanto, le
debolezze competitive, strutturali e finanziarie insite nella piccola dimensione.
Nella seconda parte del lavoro, l’attenzione è stata posta sulle modalità
adottate dalle PMI nella realizzazione dei processi di sviluppo. Viene rilevato il
carattere sempre più marginale dei processi di sviluppo lineare e incrementale di
tipo interno, mentre sembrano più congeniali alle caratteristiche delle PMI italiane
i percorsi di crescita per linee esterne, soprattutto joint ventures e accordi
collaborativi, o quelli basati su assetti organizzativi poco sperimentati, come la
crescita per filiazione o per aggregazione a rete.
5
Dal punto di vista strategico, particolare attenzione è stata dedicata alle
strategie di focalizzazione poiché sono connaturate alle caratteristiche strutturali
delle PMI. Tra l’altro, la scelta strategica di operare in aree competitive ristrette
(nicchie di mercato) costituisce sempre più il frutto di una scelta consapevole, in
cui il tipo di nicchia costituisce il risultato di un processo creativo di aggregazione
di bisogni omogenei.
Nell’ultima parte del lavoro, sono stati evidenziati gli aspetti più significativi
dei processi di internazionalizzazione delle PMI italiane (fattori di stimolo,
problemi, limiti interpretativi delle teorie tradizionali) con un approfondimento
relativo ai processi di sviluppo internazionale che coinvolgono le aree distrettuali.
I processi di internazionalizzazione che hanno interessato alcune aree
distrettuali del paese rappresentano un laboratorio di studio ideale anche alla luce
del fatto che i comportamenti più innovativi e di successo nati in queste aree si
sono poi diffusi all’intero territorio. In particolare, i risultati emersi da
un’indagine avente ad oggetto i processi di delocalizzazione produttiva in
Romania realizzati da imprese distrettuali italiane, hanno evidenziato come tali
processi non siano stati guidati solo da motivazioni resource seeking, ma anche di
tipo strategic asset seeking in quanto rivolti a sviluppare e mantenere le relazioni
con altre imprese, italiane e non, presenti sul territorio. Questo elemento, insieme
alla vicinanza culturale e linguistica della Romania con l’Italia, mette in evidenza
come la dimensione relazionale sia fondamentale per spiegare le strategie di
internazionalizzazione delle imprese stesse.
6
Capitolo I
ASPETTI PRINCIPALI DELLE PMI ITALIANE
1.1 La piccola dimensione e la sua dinamica evolutiva
Alcuni autori, analizzando le peculiarità delle PMI, evidenziano come queste
siano caratterizzate da tratti distintivi tali da renderle talvolta profondamente
diverse dalle grandi imprese (Calvelli, 1992, 1990; Lorenzoni, 1990; Golinelli
1992; Bruno Biancone, 1999; Zucchella, 1999). Questa constatazione è di grande
importanza se si considera, come alcuni studiosi hanno in tempi recenti affermato,
che le piccole e medie imprese non sono grandi imprese non cresciute abbastanza
e quindi non rappresentano forme di “nanismo” dell’ideal-tipo di impresa
(Depperu, 1993)
1
, ma al contrario costituiscono una realtà ricca e variegata, sotto
il profilo imprenditoriale e strategico, e capace di raggiungere livelli elevati di
competitività internazionale. Nell’ambito di questi filoni di ricerca è emersa la
necessità di seguire un approccio metodologico che fosse coerente con la realtà
osservata. E’ questo il motivo che ha spinto ad integrare l’analisi di stampo
statistico con indagini di natura qualitativa, spesso basate sull’osservazione del
comportamento delle singole unità imprenditoriali (Zucchella, 1999).
1
Tratto da Vergani A., Che fatica stare al timone di quella piccola impresa, in “ Harvard
Espansione “, n.5, 1984.
7
Questa metodologia di indagine consente di evidenziare la varietà degli
assetti strategici e organizzativi delle imprese, la loro vitalità e ricchezza
imprenditoriale e infine l’originalità dei molteplici percorsi di sviluppo e di
internazionalizzazione.
Si è, quindi, progressivamente determinata una distanza sia a livello di
approcci sia di oggetto prevalente di osservazione tra il pensiero della scuola
anglosassone predominante, e gli studi italiani o, più in generale, europei
(Zucchella, 1999).
L’autrice, al fine di rimarcarne le differenze rispetto agli studi sviluppatisi in
Italia, evidenzia che la dottrina di matrice anglosassone assume come prospettiva
di riferimento quella della grande impresa integrata ed autosufficiente, in cui netti
sono i confini tra organizzazione e mercato e blande le relazioni tra impresa ed
ambiente circostante. Tale impostazione si riflette fedelmente negli studi
sull’impresa internazionale, lungamente dominati dal modello multinazionale
statunitense. Alla base di questi studi, due appaiono le ipotesi dominanti
(Zucchella, 1999; Guerini, 2001):
- l’isomorfismo, cioè la convinzione che le modalità in cui si esprime
l’assetto strategico ed organizzativo dell’impresa siano uniformi, almeno nei
caratteri sostanziali;
8
- l’unidirezionalità, cioè l’identificazione di un percorso di crescita pre-
codificabile, sia a livello di dimensione aziendale (dalla piccola alla grande
impresa), che di sviluppo internazionale (dalla produzione per il mercato
domestico, all’esportazione fino agli investimenti diretti esteri).
Il ruolo marginale assegnato alla piccola impresa si giustifica dunque in
quanto stadio temporaneo della vita aziendale, la cui evoluzione naturale dovrebbe
portare, in assenza di patologie aziendali o di imperfezioni di mercato, alla grande
dimensione. Tale impostazione è presente in modo speculare negli studi
sull’internazionalizzazione dove l’impresa esportatrice non costituisce in genere
oggetto di analisi, in quanto stadio primordiale di crescita internazionale
(Zucchella, 1999)
2
.
Da un’analisi effettuata da Raffa e Zollo (1998), volta ad evidenziare in che
modo le piccole imprese affrontino la sfida di una crescente complessità
ambientale, emerge con chiarezza come alcune indagini, volte a comprendere la
presenza delle piccole imprese in settori industriali a forte contenuto di
innovazione, giungano ad una conclusione analoga circa la dinamica dei processi
di sviluppo realizzati dalle imprese minori
3
.
2
Si veda, ad esempio, Vernon (1971), Sovereignty at bay. The multinational spread of US
entreprise, Pelican Books, London.
3
Gli autori riportano i risultati di uno studio contenuto nella seguente pubblicazione:
Audretsch D.B. (1994), “Small business in industrial economics: the new learning”, Procedings of
the 39
th
ICBS World Conference, Strasbourg.
9
Innanzitutto viene riconosciuto alla piccola impresa il ruolo di “agente del
cambiamento”, in quanto riesce a sviluppare una capacità innovativa superiore
alle imprese di grandi dimensioni. Come ciò possa essere possibile è ancora
oggetto di dibattito nel campo dell’economia industriale.
La spiegazione fornita muove dall’evidenza empirica che vede molte piccole
imprese giocare un ruolo di primo piano in alcuni settori industriali ad alta
tecnologia, quali le biotecnologie, il software e l’automazione industriale pur non
potendo raggiungere la dimensione ottima minima per sopravvivere, né
possedendo i mezzi finanziari per sostenere le ingenti spese di R&S richieste in
questi settori di attività economica. Al riguardo, l’analisi empirica ha elaborato il
modello della “porta girevole conica” per spiegare quest’apparente
contraddizione
4
. Secondo questo modello ogni settore industriale può essere visto
come una porta girevole conica, nella cui parte superiore, che gira più lentamente,
si trovano le imprese di dimensioni più grandi che hanno superato la dimensione
ottima minima, mentre nella parte inferiore, che gira più velocemente, si trovano
le piccole imprese, che entrano ed escono dal settore con una rapidità che è tanto
più elevata quanto più alta è la difficoltà a crescere.
Secondo questo modello la piccola impresa non riesce ad articolare una
risposta duratura alla complessità dell’ambiente esterno. La piccola impresa infatti
coglie una specifica opportunità che si genera nell’ambiente complesso, la sfrutta
con una certa tempestività, poi quando si esauriscono le condizioni che hanno
4
Audretsch D.B. (1994) op. cit.
10
generato quell’opportunità, la piccola impresa scompare. Il modello della porta
girevole afferma dunque, che la singola piccola impresa, tranne casi eccezionali, è
solo un temporaneo “agente del cambiamento”, che essa è sostanzialmente cieca
rispetto alla varietà degli eventi esterni, essendo la sua percezione della
complessità ambientale confinata ad uno specifico momento ed uno specifico
aspetto della realtà. Tale modello ci dice, inoltre, in modo forse eccessivamente
drastico, che la piccola impresa o cresce o muore (Raffa e Zollo, 1998). Secondo
Depperu (1993), d’altra parte, anche le imprese di dimensioni minori hanno ampi
gradi di libertà strategica, ma spesso non sono disposte a sfruttarli perché questo
vorrebbe dire crescere in misura tale da rischiare di non riuscire a gestire la
complessità, perdere il controllo totale della proprietà sull’azienda, stravolgere la
filosofia gestionale che sta alla loro base.
E’ negli studi di matrice europea/continentale –e più in particolare italiana- ad
emergere la consapevolezza che la piccola dimensione non rappresenta una
condizione transitoria della vita dell’impresa, bensì un assetto stabile e coerente
con il sistema di obiettivi e vincoli imposti dalla gestione e dall’ambiente
circostante. La piccola dimensione acquista una sua dignità e viene concepita
pertanto come una delle espressioni alternative dell’attività aziendale, così come
la condizione di impresa esportatrice rappresenta una delle espressioni alternative
di internazionalità (Zucchella, 1999).
11
I risultati di un’indagine (Calvelli, 1992) condotta presso gli operatori dei
sistemi locali di piccole imprese del meridione d’Italia, appartenenti a comparti
produttivi di antica tradizione e ad elevato contenuto creativo-artistico,
confermano quanto appena detto. E’ emerso, in particolare, soprattutto presso gli
attori più innovativi e con un atteggiamento proattivo nei confronti dell’ambiente,
la necessità “di non dover crescere per la salvaguardia delle specificità”. Nel caso
specifico questo comportamento, riscontrato presso gli imprenditori della tarsia
sorrentina, è espressione di una consapevolezza strategica e di un finalismo
d’impresa volto al mantenimento del “valore” delle tradizioni, del contributo
artigianale-artistico dell’output, di una logica di prodotto “esclusivo” e
difficilmente imitabile. Emerge, nell’ottica delineata, che lo stato di impresa
minore può essere visto non come una necessaria fase di transizione verso le più
ampie dimensioni, pena la sopravvivenza dell’impresa sul mercato, oppure come
caratteristica delle organizzazioni destinate ad occupare solo spazi interstiziali del
mercato, ma come un assetto organizzativo stabile che può riuscire a garantire
vantaggi competitvi e buone performance d’impresa.
Calvelli (1992) intende affermare che in alcuni comparti produttivi indagati,
quale quello della tarsia sorrentina, la significatività assunta dal contenuto
artigianale-artistico del prodotto insieme ad alcune peculiarità presenti in queste
produzioni sono compatibili solo con piccole dimensioni d’impresa e
contribuiscono ad elevare barriere all’entrata rispetto a potenziali entranti.
12
Pertanto, nei comparti caratterizzati da un elevato contenuto immateriale delle
produzioni tangibili e da una correlazione negativa esistente tra meccanizzazione
dei processi, automazione e valore dell’output, la configurazione di impresa
minore assume un ruolo centrale, una conditio sine qua non, per il raggiungimento
degli obiettivi aziendali di mantenimento dei posizionamenti strategici conseguiti
nel proprio mercato (Calvelli, 1992).
Il modello italiano ed europeo poggia pertanto su basi profondamente diverse:
l’eteromorfismo e la multidirezionalità (Zucchella, 1999; Guerini, 2001).
Con il primo concetto si fa riferimento all’esistenza di un insieme variegato di
espressioni strategiche ed organizzative dell’attività economica assai più ampio
rispetto al passato. L’ampliarsi di tali espressioni è giustificata dal fatto che si è
progressivamente attenuata la loro dipendenza da fattori size-specific o country-
specific e hanno assunto il ruolo di possibili assetti strategico/organizzativi cui
aziende di diversa dimensione, nazionalità e vocazione internazionale possono
accedere.
La multidirezionalità evidenzia come le piccole imprese che decidono di
intraprendere un processo di sviluppo non siano costrette necessariamente ad
accrescere le proprie dimensioni. Nell’attuale realtà economica, infatti, i percorsi
di sviluppo si moltiplicano e spaziano dalla crescita interna a quella per
acquisizione, a quella per filiazione o ancora per costellazione (Zucchella, 1999).
13
Sullo stesso piano, anche se in modo più analitico, Raffa e Zollo (1998)
hanno evidenziato come lo sviluppo delle piccole imprese possa dare luogo a
diversi esiti:
a) è possibile che le PMI restino piccole e focalizzate su mercati di nicchia;
b) le PMI possono intraprendere percorsi di crescita dimensionale per
ampliare la quota di mercato e conservare la propria indipendenza;
c) le PMI possono ricadere sotto il controllo o essere acquisite da grandi
imprese;
d) in alcuni casi le PMI danno luogo a conglomerati di imprese che
condividono parte delle risorse;
e) le PMI possono scindersi in più unità produttive semi-indipendenti;
f) quando supportate da un patrimonio di conoscenze e risorse adeguato le
PMI si trasformano radicalmente diversificando verso altri business;
g) infine, le PMI possono scomparire dando luogo ad uno o più spin-off;
Gli autori sottolineano, pertanto, che è difficile pensare alla dinamica della
piccola impresa come ad una traiettoria lineare che conduce verso la crescita
dimensionale o verso la morte. Lo stesso termine “crescita” andrebbe usato con
cautela, ed inteso piuttosto come sinonimo di processo di cambiamento, di
sviluppo nel tempo, di trasformazione organizzativa. In tal senso, la dinamica
della piccola impresa innovativa può essere più correttamente interpretata come
un percorso che attraversa varie fasi organizzative, dove ogni fase è
14
contraddistinta da una configurazione di risorse e capacità idonea ad esprimere
determinate competenze (Raffa, Zollo, 1998)
5
.
Il tipo di percorso è condizionato da numerose variabili alcune delle quali
riferibili al contesto competitivo, altre alle motivazioni e ai tratti personali
dell’imprenditore, altre ancora all’ambiente sociale, culturale, politico-
istituzionale in cui l’impresa opera. Tale molteplicità di fattori determina, da un
lato, l’impossibilità di spiegare lo sviluppo attraverso uno schema interpretativo
universalmente valido e, dall’altro, la necessità di adottare un approccio che
integri i contributi di studiosi di diversa appartenenza disciplinare (economisti,
sociologi ecc.). Infatti, l’utilizzo contemporaneo di diversi contributi consente di
comprendere nell’analisi, oltre alle variabili di natura economica (dinamiche dei
mercati, contesto competitivo, andamento del fatturato ecc.), anche quelle di
natura emotivo-affettiva (motivazioni dell’imprenditore, rapporti tra i componenti
il nucleo familiare, possibili dinamiche conflittuali ecc.) e, infine, culturale-
simbolica (valori, assunzioni di base, convincimenti ecc.). Si tratta di tutti quei
fattori che interagendo fanno sì che lo sviluppo di un’impresa non si configuri
come una successione di fasi predefinite e ordinabili secondo una sequenza logica,
bensì come un processo continuamente interrotto e poi ripreso senza una
preventiva pianificazione o disegno organizzativo (Boldizzoni, Serio e Sala,
1999).
5
“ Si ricorda che nella competence-based competition la competenza viene intesa come il legame
che si realizza tra obiettivi raggiunti e risorse/capacità attivate dall’impresa. Perché ad un’impresa
venga riconosciuta una competenza è necessario poter riconoscere l’esistenza di una intenzione, di
un insieme di risorse/capacità e di risultati raggiunti” (Raffa M. e Zollo M., 1998).
15
Interessante è poi il modello interpretativo proposto dalla Depperu (1993) che
indaga sulle ragioni, interne ed esterne all’azienda, che determinano le piccole
dimensioni aziendali. La comprensione di tali ragioni può infatti essere di aiuto
nell’individuazione dei rispettivi punti di forza e di debolezza e
nell’identificazione delle possibili alternative strategiche.
Tali basi concettuali appaiono oggi assai più rispondenti al dinamismo dello
scenario economico mondiale, dove la ricerca di risposte strategiche ed
organizzative adatte alla complessità ambientale porta alla ribalta la necessità di
fare riferimento ad un’ampia varietà di assetti aziendali e di percorsi di sviluppo.
Pertanto, nell’approccio europeo domina una terza base concettuale,
rappresentata dalla relazionalità esterna dell’impresa.
Gli assetti e i percorsi ipotizzati non possono più fondarsi sulla concezione
dell’impresa integrata ed autosufficiente, bensì su quella – di stampo prettamente
europeo – dell’impresa relazionale, cioè capace di radicamento ed interazione
intensa con il tessuto socioeconomico locale, nonché di sviluppare rapporti
collaborativi con una pluralità di altre imprese (Zucchella, 1999).
D’altra parte, Golinelli (1992), analizzando le problematiche connesse ai
processi di sviluppo delle organizzazioni imprenditoriali, in contesti ambientali
caratterizzati da forte complessità, evidenzia l’importanza e le possibilità offerte
dalle relazioni non competitive tra imprese e, quindi, dei processi di crescita
esterna.
16
In particolare, tali modalità di crescita sembrano congeniali alle imprese di
minori dimensioni in quanto consentono percorsi di sviluppo e soluzioni
organizzative diverse, adeguate, caso per caso, alle diversità culturali esistenti tra i
partner, alle risorse disponibili e alla specificità del contesto ambientale, anche
locale.
Si acquista, pertanto, consapevolezza che i risultati raggiunti dalle imprese
minori di successo siano da attribuire non solo al “sistema di prodotto”, ma anche
alla capacità di “progettazione organizzativa” intesa non solo come un fatto
interno all’impresa, ma anche afferente i rapporti con altre imprese e con le
istituzioni (Lorenzoni, 1990; Golinelli, 1992).