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funzionali) per acquisire tutto quanto non è indispensabile o
possibile fare al proprio interno.
Il primo passo è l’abolizione del concetto di “domestico”; un
consumatore potenziale è tale sia che risieda in Giappone, sia
che viva negli Stati Uniti, e quindi bisogna comprendere cosa
tale consumatore medio si attende dal prodotto e dall’azienda
che lo produce.
Probabilmente, è già in parte soddisfatto da un’offerta
esistente e bisogna quindi che l’azienda sviluppi un
comportamento da “nuovo entrante”, anche se a casa sua ha una
posizione forte e consolidata. In parallelo, deve essere abolito il
concetto di distanza, sia nello spazio sia nel tempo; non si può
più introdurre un prodotto prima vicino a casa e poi, via via,
negli altri mercati, perché il consumatore pretende di avere il
nuovo prodotto che vede in TV o viaggiando, e i concorrenti non
aspettano altro che una differenza di tempestività per intrufolarsi
nel gioco competitivo. Di conseguenza l’azienda deve vendere
tutti i business nei quali non ha speranza di sopravvivere a lungo
termine e utilizzare le risorse finanziarie e acquisire gli operatori
esteri omogenei con il proprio core business.
Il secondo passo è il ripensare in maniera totale le relazioni
con i fornitori e i clienti. Per competere su base internazionale, il
know how presente in azienda non è spesso sufficiente, e deve
quindi integrarsi con quello che altri hanno: know-how
tecnologico, conoscenze di ciascun mercato, accesso a risorse
tecnologiche e finanziarie particolari, ecc. Anche in questo caso,
bisogna sviluppare un atteggiamento positivo verso la
partnership, accettando la parziale perdita di sovranità ed
autonomia che esse comportano.
Il terzo passo è ripensare base zero anche la logica in base
alla quale sono svolti, all’interno dell’azienda, i vari servizi:
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dalla compatibilità fra logistica e informatica, all’assistenza
tecnica. A differenza del passato, esistono oggi validi fornitori
internazionali di servizi che danno all’imprenditore la possibilità
di acquistare (sempre in ottica di partnership) quasi tutti i servizi
complementari alla propria progettazione e distribuzione del
prodotto. Al limite, l’impresa può consistere solo del marchio,
dell’ideazione del prodotto e della finanza, essendo oggi
possibile far costruire, distribuire e assistere il prodotto da altri
specialisti. I capitali e le risorse intellettuali dell’azienda possono
così essere concentrati nelle aree in cui non c’è un’alternativa
efficace e meno costosa all’esterno. L’outsourcing non è quindi
soltanto un metodo per ridurre i costi: è anche una necessità
strategica per l’azienda che si deve concentrare nel “core del
core” per competere in un mercato globale.
Il quarto passo è l’identificazione di un assetto competitivo
vincente. Non basta, infatti, fare meglio che in passato,
soprattutto in termini di costi: bisogna riprogettare come si
produce e si vende e come si continuerà ad innovare; in tal
senso, si tenga presente che:
- la potenza dell’informatica collegata alle telecomunicazioni
consente di ridurre praticamente a zero il costo variabile di
ogni transazione.
- la possibilità di delocalizzare la produzione nei paesi più
convenienti, mantenendo al contempo qualità e tempi di reazione
adeguati, consente di disaccoppiare le singole fasi del processo
produttivo, dall’ideazione del prodotto all’assistenza al cliente,
costruendo un sistema competitivo vincente.
- infine, il collegamento con centri d'eccellenza diversi ed
esterni all’azienda, (ma strettamente collegati in termini di
partnership), ovunque siano situati nel mondo, consente la
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tempestiva identificazione di nuove possibilità di produrre o
servire clienti sempre più sofisticati ed esigenti.
A questo punto l’azienda è pronta ad affrontare il vero tema
strategico: come acquisire e mantenere un vantaggio competitivo
durevole in modo globalizzato. La risposta non può che essere
nello sviluppo di competenze proprietary e in altre parole non
copiabili. L’azienda, liberata dai problemi che possono essere
delegati ad altri, può concentrarsi su quelle tecnologie essenziali
che, combinate in modo innovativo, permettono stabilmente di
far meglio dei concorrenti. Parlando di nuove tecnologie, diventa
obbligatorio introdurre il ruolo di Internet e quello del
commercio elettronico. Il commercio on line si sta sviluppando
rapidamente in tutti i Paesi avanzati, e le piccole e medie imprese
italiane non possono rimanere semplici di fronte ad un processo
che sta modificando lo scenario competitivo mondiale.
La ricerca che abbiamo condotto, mira proprio a capire quali
sono le dinamiche in essere presso le minori imprese italiane,
come queste imprese si stanno attrezzando per sfruttare al meglio
i vantaggi attuali e futuri dell’e-commerce, mettendo in evidenza
punti forti e deboli delle loro politiche di gestione e
comunicazione.
Il lavoro consta di due sezioni, di cui la prima articolata in
tre capitoli. Nel primo di questi s’è cercato di evidenziare, il
livello di internazionalizzazione delle imprese italiane, i loro
punti di forza e i loro punti deboli. Nel II e III capitolo, abbiamo
dedicato attenzione allo sviluppo del commercio elettronico,
cercando di fotografarne la situazione, ma soprattutto, cercando
di valutare la sua idoneità a prestarsi come valido mezzo per
l’internazionalizzazione virtuale per le minori imprese italiane.
Nella seconda parte il capitolo IV, analizzando il settore dei
prodotti agro-alimentari italiani, vuole costituire una base per lo
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sviluppo dei due capitoli successivi. Il V capitolo offre, con un
taglio prettamente aziendale, un quadro del settore dell’olio di
oliva in Italia. Il VI capitolo racchiude la ricerca effettuata nel
suddetto settore. L’analisi empirica ha insistito sul commercio
elettronico dell’olio di oliva, un prodotto che sappiamo essere
molto importante all’interno della categoria dei tipici italiani. Il
fine del lavoro era quello di verificare se per le imprese minori di
tale nicchia di mercato, il commercio elettronico potesse
rappresentare oppure no, un valido aiuto alla rapida
internazionalizzazione.
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Capitolo I
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELL’IMPRESA
MINORE ITALIANA
A differenza di quanto accade in altri paesi, in Italia
partecipano al commercio estero anche imprese di piccola e
piccolissima dimensione, supportate dalla forza dei sistemi
produttivi locali. Tuttavia, si presentano problemi nuovi; la
globalizzazione si configura, infatti, come un insieme di processi
interconnessi:
1. globalizzazione dei beni (aumento del commercio
mondiale entro schemi multilaterali, con tassi di crescita
superiori a quelli della produzione);
2. globalizzazione dei capitali (mobilità dei capitali entro
mercati finanziari integrati su scala internazionale);
3. globalizzazione degli investimenti (aumento
dell’interdipendenza e dello scambio di tecnologie attraverso
investimenti diretti all’estero).
L’Italia, da sempre attiva sul primo fronte, ha appena iniziato
a muoversi sul secondo, ma rimane in grave ritardo sul terzo
(Ministero dell’industria, 2000).
1.1. Il “problema” dell’internazionalizzazione dell’impresa
minore italiana
Anche se il contributo delle imprese minori all’espansione
internazionale dell’economia italiana è ormai ampiamente
riconosciuto e dimostrato, il profilo delle modalità e degli
strumenti adottati nella loro azione internazionale, se rapportato
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ai principali contributi della teoria economica e manageriale
sull’internazionalizzazione, appare caratterizzato da rilevanti
fattori di “debolezza” o di “incompletezza”. Alla base di questa
sostanziale contraddizione, sta il fatto che motivazioni e forme
del processo d’internazionalizzazione considerate in queste
teorie, implicano necessariamente dimensioni d’impresa
considerevoli (Censis, 1984).
I principali approcci teorici tradizionali in tema di
internazionalizzazione, delineano, infatti, un quadro del processo
di espansione internazionale delle imprese i cui tratti
fondamentali possono essere così riassunti:
- attraverso l’internazionalizzazione un’impresa trasferisce in
nuovi paesi una superiorità competitiva che ha già conquistato
nel suo mercato domestico e che riguarda per lo più vantaggi di
tipo tecnologico o manageriale, connessi alla dimensione delle
risorse di cui l’impresa dispone;
- la spinta ad “esportare” tale superiorità in nuove arene
concorrenziali può essere innescata dal venir meno
dell’attrattività del mercato domestico, da trasformazioni della
domanda e della disponibilità dei fattori produttivi, dalla
possibilità di far valere i vantaggi di cui dispone nei confronti
delle aziende localizzate nei nuovi paesi in cui decide di
collocarsi;
- lo strumento attraverso cui l’azienda trasferisce i suoi
vantaggi competitivi in modo “ottimo” è l’investimento estero
diretto (Hymer, 1960).
Questo schema interpretativo assume, di fatto, come esclusivo
riferimento un soggetto particolare – la grande impresa –
lasciando fuori, dal proprio campo d’osservazione, una pluralità
di altri soggetti e di altre modalità d’azione (Grandinetti, Rullani,
1992); ciò porta a configurare l’azione internazionale delle
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imprese di piccole dimensioni al più come esito di occasionalità,
derivanti da particolari condizioni congiunturali, e a relegarla in
ruoli marginali di dipendenza nei confronti di grandi
organizzazioni, le sole in grado di operare efficientemente su
scala internazionale. A quest’evidente frattura tra
formalizzazione teorica e realtà dei comportamenti d’impresa
non è sufficiente, d’altro canto, contrapporre la semplice
constatazione della forte presenza internazionale raggiunta anche
da imprese minori. I consistenti flussi d’esportazione
sperimentati da molte piccole imprese non testimoniano infatti,
di per sé, del fatto che dimensioni aziendali contenute siano
compatibili con una effettiva e duratura capacità di competere
sui mercati internazionali. Un approccio non esclusivamente
descrittivo dell’esame del comportamento delle imprese minori
su scala internazionale, pone comunque la necessità di
identificare le ragioni che orientano queste imprese verso i
mercati internazionali e nel contempo, di mettere in luce
elementi di valutazione della qualità del processo
d’internazionalizzazione in grado di evidenziare il livello di
radicamento effettivamente raggiunto nei mercati esteri.
Tradizionalmente, la minore impresa italiana ha limitato la
propria presenza commerciale al mercato nazionale; l’espansione
all’estero è stata sempre vista come il risultato di una strategia
opportunistica e non già deliberata. Inoltre, anche quando
l’approccio emergente le ha indotte ad ampliare la propria
presenza commerciale alla scala internazionale, le Pmi nostrane
hanno adottato forme deboli, quali l’esportazione indiretta. Ciò
non ha consentito loro di controllare il posizionamento della
propria gamma d’offerta nei paesi esteri e, soprattutto, non ha
dato vita al processo di learning by internationalising (Guerini,
1997).
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Assumendo a riferimento alcuni dei principali studi condotti
sul processo di internazionalizzazione delle piccole e medie
imprese italiane, è possibile individuare talune dimensioni del
comportamento di impresa che nel loro insieme, assumono un
valore discriminante nel connotare la qualità di tale processo: tra
queste:
• le dimensioni del fenomeno della presenza internazionale;
• le condizioni che hanno dato vita alla scelta di
internazionalizzazione;
• le caratteristiche e il numero dei mercati serviti;
• le modalità di accesso e di integrazione dei nuovi mercati;
• l’omogeneità o l’adattamento delle politiche di marketing
rispetto alla configurazione sviluppata nei confronti del mercato
domestico;
• l’impatto dell’apertura internazionale sulla struttura
organizzativa aziendale (Pellicelli, 1981).
L’esame dei comportamenti delle imprese minori in rapporto
a ciascuno di questi temi, e la ricostruzione dei connotati
peculiari dei loro percorsi di internazionalizzazione richiedono
però, di non perdere di vista - anche sul piano concettuale - le
specificità dei modelli e degli strumenti di sviluppo che
caratterizzano l’insieme dell’esperienza delle piccole imprese.
Innanzitutto, le caratteristiche originali con cui nelle piccole
imprese, si realizza il processo di definizione della strategia
competitiva. L’architettura strategica che orienta l’azione delle
piccole imprese può essere letta infatti, prendendo le mosse dal
concetto di “business idea” proposta da Normann (1979), come
esito di una dinamica processuale in cui le capacità di
apprendimento e di adattamento sperimentale sostengono
l’evoluzione verso formule competitive via via più efficaci, pur
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in assenza di risorse e procedure formalizzate di analisi e
pianificazione strategica (Marchini, 1987).
L’adozione di questo tipo d’orientamento nell’analisi
dell’azione internazionale delle piccole imprese, permette di
mettere a fuoco due elementi caratteristici:
- la dimensione processuale e sperimentale (Bonaccorsi,
Dalli, Varaldo, 1990) tanto delle direzioni che delle
forme del processo di internazionalizzazione delle
piccole imprese, da cui consegue, da un lato che
l’estensione su scala internazionale della loro azione non
avviene necessariamente “dopo” una scelta delle
modalità più opportune, ma privilegia l’adattamento e
l’evoluzione delle formule iniziali - che possono essere
molteplici - sulla base dell’esperienza della loro efficacia;
dall’altro che tale evoluzione non va intesa soltanto come
passaggio da formule più parziali ad altre più complete -
esportazioni indirette verso dirette, ad esempio - ma
anche come capacità di modificare i contenuti effettivi di
modalità apparentemente deboli o “immature”.
- la superiorità competitiva, in quanto frutto
dell’apprendimento, non deve necessariamente essere la
premessa dell’internazionalizzazione, ma può esserne la
conseguenza. In questo senso il livello di coinvolgimento
internazionale delle piccole imprese costituisce
un’opportunità per moltiplicare le fonti d’apprendimento
accedendo ad ambienti diversi da quelli originari e
strumento, quindi, per migliorare e rafforzare la formula
imprenditoriale iniziale (Balcet, 1990).
Un ulteriore tratto caratteristico dei processi di sviluppo di
molte imprese minori è il nesso, puntualmente rilevato in
numerosi indirizzi di ricerca, tra capacità competitiva dimostrata
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da questo tipo di imprese e il loro inserimento in un fitto tessuto
di relazioni interaziendali collaborative (Beccattini, 1989 e
Lorenzoni, 1990).
Si rileva, infatti, che anche all’interno di formule di rapporto
che possono sembrare tradizionali - la subfornitura (Ferrando,
1984), la gestione dei rapporti a valle con gli intermediari
commerciali, sia nazionali che internazionali - si sono andate
spesso consolidando nel tempo relazioni assai più ricche e
stabilizzate, di modo che risulta difficile derivare in modo
meccanico, la qualità dei rapporti interaziendali dalla rilevazione
delle strutture formali attraverso cui essi esplicano.
Questo tema assume un’importanza notevole nell’esame
dello sviluppo internazionale delle piccole imprese. E’ stato
osservato, infatti, come le imprese minori siano solite rapportarsi
ai mercati esteri delegando ad intermediari indipendenti molta
parte delle attività commerciali.
Tale ricorso può essere univocamente inteso come sintomo
di debolezza della loro presenza internazionale solo qualora si
ritenga che il processo d’internazionalizzazione debba
svilupparsi lungo un percorso che lega in modo lineare il grado
di coinvolgimento estero delle imprese all’adozione di strumenti
di presenza sui vari mercati sempre più diretti ed internalizzati
(Johanson, Wiedersheimen, 1975).
In realtà, quest’orientamento contiene forti elementi
deterministici che ne riducono notevolmente la capacità
esplicativa. In particolare proprio la presenza di numerosi casi di
piccole imprese che realizzano ottime performance esportative
pur ricorrendo a modalità di presenza internazionale di tipo
indiretto, avvalora l’idea che anche il ricorso a formule “parziali”
d’internazionalizzazione - esportazioni piuttosto che
internazionalizzazione produttiva, ricorso ad intermediari invece
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che attivazione di canali commerciali diretti - non costituisca di
per sé un indicatore di debolezza della presenza sui mercati esteri
delle piccole imprese, la cui qualità, quindi, non può essere
analizzata solo in base al grado di internalità degli strumenti
attraverso cui si realizza.
Ciò non toglie, che l’azione internazionale delle imprese, per
poter superare i rischi di aleatorietà e subordinazione, debba
evolvere lungo un percorso incrementale in cui si affinano
progressivamente l’esperienza e la capacità di approntare
modalità di presenza più solide e stabili.
In particolare, via via che aumenta l’importanza di un
mercato estero per l’impresa produttrice, tanto più essa cercherà
di ridurre lo spessore d’eventuali barriere che le impediscono un
maggior controllo e fungibilità delle opportunità tecnologiche
e/o commerciali e dei possibili rapporti con clienti attrattivi - per
reputazione, capacità di domanda, o come fonte
d’apprendimento - di quel paese.
L’approfondimento del coinvolgimento estero però può
essere condotto avanzando lungo il canale, ed incorporando
quindi, attività precedentemente delegate ad altri, ma può
svilupparsi anche attraverso una configurazione progressiva delle
forme di presenza precedenti. In questo secondo caso, anche il
ricorso ad intermediari commerciali può costituire una forma
durevole ed efficace di presenza sui mercati internazionali, se
essa assume i connotati di relazione interattiva e duratura con
elevati contenuti strategici sia per l’azienda esportatrice che per
l’operatore commerciale estero, in cui ciascun partner apporta
un contributo specifico alla catena del valore (Porter, 1987)
dell’altro attraverso modalità non conflittuali ma di
coordinamento né gerarchico né semplicemente di mercato
(Marcati, 1990).
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Le modalità di presenza internazionale delle imprese, in
definitiva, possono articolarsi su una pluralità di forme efficienti,
che rispecchiano sia il grado d’apprendimento e di sviluppo della
capacità dell’impresa di operare su nuovi mercati, sia la
rilevanza strategica che il singolo paese estero riveste nell’azione
complessiva dell’impresa, sia infine la specificità delle relazioni
attivate in ogni singolo mercato e la possibilità che queste,
evolvano in modo coerente agli obiettivi dell’azienda.
In questo quadro l’analisi delle strutture di presenza
internazionale delle imprese deve quindi tener conto di due
elementi:
- da un lato, che la capacità di radicarsi stabilmente
all’interno di un circuito di relazioni - commerciali e
produttive - internazionali, va ricondotta essenzialmente
al ruolo che l’impresa svolge all’interno di questo
sistema di relazioni, al contributo specifico che essa
apporta alle attività degli altri soggetti economici con cui
interagisce, e al grado di sostituibilità di questo apporto.
E’ quindi importante riconoscere la pluralità delle forme
possibili di presenza internazionale, e il rischio di
graduatorie che ordinino queste forme supponendo un
percorso deterministico da modelli
d’internazionalizzazione deboli verso assetti
caratterizzati da una più completa internazionalizzazione
di tutte le funzioni associate al presidio dei diversi
mercati;
- dall’altro, che le caratteristiche degli strumenti attivati
per operare sui mercati internazionali costituiscano una variabile
critica della qualità del processo di internazionalizzazione, in
quanto l’incremento del numero dei mercati serviti e della
complessità delle relazioni attivate in questi mercati, deve
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tradursi inevitabilmente in un coinvolgimento crescente delle
risorse aziendali nel campo di azione internazionale (Bertoli,
1989).
1.2 Il “modello italiano di internazionalizzazione”
Il modello italiano di internazionalizzazione presenta alcune
particolarità che esaminiamo qui di seguito (Biancone, 1999).
a) il grado di multinazionalizzazione del nostro paese è più
basso rispetto agli altri paesi industrializzati.
Per quanto riguarda l’internazionalizzazione in uscita,
l’incidenza degli addetti in imprese industriali partecipate
all’estero (pari al 9,2% degli addetti industriali interni), è ben
inferiore ai valori degli altri paesi, che superano tutti il 18%.
Anche il quadro d’internazionalizzazione in entrata, pari al
12,5% è più basso rispetto a quello raggiunto in altri stati
europei.
b) il modello di internazionalizzazione dell’industria italiana
rimane principalmente dominato dall’export.
L’internazionalizzazione del nostro paese assume cioè
soprattutto la forma mercantile.
c) in Italia, il processo di internazionalizzazione è
caratterizzato da un’elevata concentrazione, anche se occorre
fare una distinzione fra internazionalizzazione in entrata e in
uscita. Le multinazionali estere che operano in Italia sono un
insieme numeroso e articolato di imprese. Le prime dieci, per
numero di addetti, costituiscono il 29% sul totale delle
partecipazioni di controllo, le prime venti, il 43%.
L’internazionalizzazione in entrata dimostra quindi un grado di
concentrazione non trascurabile ma contenuto.
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Diversa è invece la condizione delle multinazionali italiane.
Il numero totale dei soggetti investitori è rimasto stabile (intorno
a 225 unità), nonostante l’espansione degli investimenti
produttivi all’estero della seconda metà degli anni novanta
(Biancone, 1999).
L’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese resta
un fenomeno più limitato. Fa accezione il comparto delle medie
imprese che opera in nicchie del mercato internazionale, grazie a
competenze e Know how esclusivi. Inoltre, l’attività
internazionale delle imprese minori è più instabile: il turnover
delle imprese investitrici è abbastanza elevato (Biancone, 1999).
Gli elementi strutturali che hanno maggiormente influenzato
l’espansione all’estero delle nostre imprese sono:
- la rilevante incidenza dei settori tradizionali, meno
interessati da processi di internazionalizzazione;
- la scarsa presenza di imprese di dimensioni tali da poter
competere nell’area oligopolistica mondiale;
- la scarsa presenza di imprese collocate sulla frontiera
tecnologica;
- i divari di sviluppo all’interno del Paese;
- limiti istituzionali e carenze nei servizi alle imprese.
Quest’ultima motivazione richiama l’attenzione sulle
carenze ambientali e sulla necessità di interventi nell’area dei
servizi alle imprese, vitale per l’internazionalizzazione di
un’economia, poiché la minore multinazionalizzazione del
sistema italiano comporta una perdita di competitività (Biancone,
1999).