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Capitolo 2 - L’interesse nazionale nella Storia d’Italia: dall’Unità
alla fine della Guerra Fredda
2.1 Una breve sintesi della politica estera italiana dall'Unità alla fine della
Seconda Guerra Mondiale
L'Unità d'Italia non si completò nel 1861 con il Trattato di Campoformio;
oltre alla mancata presa di Roma e dei territori di Trento, Trieste, l'Istria e
la Dalmazia, il neonato governo si ritrovò a gestire un problema di
edificazione dell'unità nazionale: per la prima volta una serie di regioni
che condividevano l'appartenenza geografica ma rimaste indipendenti per
centinaia di anni si ritrovavano a far parte dello stesso stato sovrano. Di
conseguenza nemmeno il sentimento patriottico si manifestò in maniera
uniforme sul territorio nazionale.
Ma soprattutto la classe dirigente si ritrovò a confrontarsi con le
problematiche proprie del processo di unificazione: la genesi dello stato
italiano si completò quando il concetto di identità culturale nazionale italiana
esisteva già da almeno un secolo. Il processo di state building arrivò dopo
quello di nation building, determinando un deficit di identità politica
aggravato dal carattere elitario della genesi del progetto unitario: solo
all'indomani dell'unificazione si cominciò a pensare alla costruzione della
nazione politica come fatto popolare e non solo aristocratico. Anche il calcolo
strategico delle risorse pesò inevitabilmente nella definizione delle priorità:
Gaetano Salvemini sosteneva che la penisola italiana si trovasse in una
posizione geografica strategica che le consentiva di controllare gli
approvvigionamenti delle grandi potenze; un vantaggio bilanciato dallo
svantaggio di trovarsi in una condizione economicamente sfavorevole in
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confronto a queste, accentuata dalla carenza di ferro e carbone, le più
importanti materie prime
26
.
I primi governi si trovarono quindi a mediare fra un atteggiamento prudente
in politica estera e il desiderio espansionista mosso innanzitutto dalla volontà
di riconquista delle terre irredente, e in secondo luogo da ambizioni di un
prospero futuro colonialista. Il mito dell'antica gloria della penisola aveva
giocato un ruolo importante nel momento unitario, tuttavia fu presto messo
da parte nell'ottica del disegno politico di Cavour. Il grande statista
piemontese era conscio che il neonato stato italiano dovesse dare la priorità
al mantenimento dello status quo, al consolidamento della sicurezza e al
rafforzamento delle istituzioni piuttosto che perseguire un velleitario
desiderio espansionista; di conseguenza si focalizzò su una politica estera di
stampo pragmatico e incentrata soprattutto sul perseguimento dell'interesse
nazionale mediante la tessitura di relazioni diplomatiche favorevoli con le
potenze di rango superiore. Fu adottato un approccio improntato
essenzialmente al realismo, ma le ambizioni coloniali erano difficili da tenere
a freno, e l'Italia cercò di soddisfarle con conseguenze nefaste. L'aspirazione
allo status di grande potenza coloniale andò in frantumi nel 1896 con la
disfatta di Adua, occasione in cui le potenze avversarie si misero d'accordo
per contrastare l'impresa italiana armando l'Etiopia (in ogni caso sarebbe
stato molto difficile per l'Italia riuscire a mantenere il controllo su un
territorio vasto come quello etiope); si virò dunque verso una politica estera
maggiormente improntata alla prudenza e incentrata sulle alleanze al fine di
autotutela.
Tuttavia il sentimento di rivalsa ancora presente in larga parte nella classe
politica non fu messo a tacere: infatti la rinuncia alla Tunisia in favore della
Francia come conseguenza della presa di Roma fu vista come uno smacco
che consolidava la posizione di subordinazione dell'Italia nel Congresso
europeo, che portò alla caduta del governo. In quel caso l'Italia diede la
priorità alla tutela dei propri interessi con la forza, pagando un prezzo
26
G. Salvemini, La Politica estera dell’Italia dal 1871 al 1914, in F. Sanfelice di Monteforte,
Gli interessi nazionali: maneggiare con attenzione, www.analisidifesa.it, 23 maggio 2018
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potenzialmente alto in ottica futura; occorreva quindi pensare a soluzioni
diplomatiche che seguissero un approccio realista e pragmatico. L'adesione
alla Triplice Alleanza è da leggersi nell'ottica del succitato bisogno di
autotutela da minacce esterne, anche a costo di subire pressioni dai partner
più forti. Era ormai opinione diffusa che l’Italia non disponesse delle carte in
regola per poter svolgere una politica estera espansionistica sul modello di
quella delle grandi potenze; anche la campagna in Libia, dispendiosa in
termini di risorse impiegate, a posteriori fu ritenuta da Giolitti una necessità
alla quale non era impossibile sottrarsi più che la base per la costruzione di
un futuro imperialista, una “fatalità storica” che nulla aveva a che spartire
con i progressi in politica interna
27
.
Tale atteggiamento mutò con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale,
quando si presentò l'occasione perfetta per riappropriarsi finalmente dei
territori irredenti; gli echi del sentimento patriottico risorgimentale
riemersero sotto forma di rigurgito nazionalista. Fra le ragioni dei neutralisti
e quelle degli interventisti, nella fase iniziale del conflitto l'Italia dovette fare
i conti con la realtà che la vedeva non in grado di sostenere i costi e le
possibili ritorsioni degli alleati imperiali nel caso di un'eventuale discesa in
campo a fianco dell'Intesa. L'Italia non trasse il massimo vantaggio dalla
propria posizione: forte del proprio ruolo ambivalente di alleato riluttante
degli imperi centrali pur mantenendo buone relazioni diplomatiche con la
Francia, avrebbe potuto proporsi nella veste di mediatore fra le potenze in
guerra (come avrebbe voluto Giolitti), invece si limitò a mantenersi neutrale
(come voleva Salandra). Al tempo stesso non potevano essere ignorate le
mire espansionistiche austriache sulla zona adriatica; Giolitti e Di San
Giuliano manifestarono fin da subito una discreta preoccupazione, ma erano
consapevoli di come fosse fondamentale che l’Italia non rimanesse isolata
nell’intraprendere qualsiasi iniziativa
28
. Dopo mesi di discussioni e trattative
con entrambe le forze in campo, i delegati italiani si lasciarono convincere
27
Cfr. G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari, pp.259-272, in F. Gaeta, La crisi di fine secolo e
l’età giolittiana, TEA, Milano, 1996, p.426
28
F. Gaeta, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, TEA, Milano, 1996, pp.416-423
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dagli esponenti di Francia e Inghilterra che la discesa in campo al fianco
dell'Intesa fosse l'opzione più conveniente. Il risultato del conflitto fu che
l'Italia riuscì a perfezionare la propria unità tramite l'annessione dei territori
di Trento e Trieste, ma l'esito dei Trattati di Parigi non fu pienamente
soddisfacente (senza calcolare ovviamente l'enorme perdita di vite umane).
L'idea della "vittoria mutilata" rappresenta un punto di svolta nella storia del
paese: da quel momento in poi il sentimento nazionalista divenne collettivo
e non più soltanto elitario, spianando la strada all'insorgenza di disordini
interni e alla susseguente ascesa del fascismo. I decenni successivi furono
caratterizzati dalla graduale traslazione verso la dittatura del regime e dalla
conseguente volontà di affermazione del prestigio italiano sul piano
internazionale, riprendendo quindi il concetto di "peso determinante" legato
alla "rendita di posizione" consentita dalla collocazione centrale dell'Italia in
Europa, da sommarsi, ovviamente, alla riaffermazione della grandezza
dell'Italia connessa al mito di Roma e al nuovo disegno imperialista. Nei
primi anni al potere Mussolini seguì una linea cauta in politica estera,
cercando di mostrarsi affidabile e responsabile sulla scena europea e
internazionale. È curioso come anche i piani del Duce prevedessero per
l'Italia un ruolo di ponte fra le grandi potenze, seppur da realizzarsi con
modalità diverse da quelle di Giolitti.
L'elemento di novità rispetto al passato era costituito dalla convinzione che
l'Italia potesse perseguire una politica estera da grande potenza in autonomia;
addirittura Mussolini aveva previsto il futuro scoppio di una nuova guerra fra
le grandi potenze europee, e auspicava per l'Italia un ruolo di arbitro fra i
contendenti
29
. Mussolini era inoltre convinto che la ricerca dello spazio vitale
italiano dovesse assecondare un progetto di controllo dei mari finalizzato allo
spostamento del baricentro geopolitico dell'Europa verso il Mediterraneo,
emulando quanto realizzato dall'Impero Romano. Tale progetto prevedeva
prima di tutto il controllo del Mediterraneo da ottenere tramite la direttrice
29
Cit. B.R. Sullivan, The strategy of the decisive weight: Italy, 1882-1922. In “The Making of
Strategy”, W. Murray, M. Knox e A. Bernstein (a cura di), in F. Sanfelice di Monteforte, Gli
interessi nazionali: maneggiare con attenzione, www.analisidifesa.it, 23 maggio 2018
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euro-africana, secondo il principio "il Mediterraneo ai Mediterranei"
30
, in
modo da poter ottenere l'accesso all'Oceano Atlantico e all'Oceano Indiano
tramite il controllo dello Stretto di Gibilterra e dello Stretto di Suez. I successi
internazionali inizialmente non mancarono, ma col tempo si rese evidente
quanto le ambizioni del regime fossero sproporzionate rispetto alle risorse
per metterle in atto. Le modalità con cui il regime intendeva seguire la propria
vocazione imperialista furono motivo di acredine con gli stati europei liberal-
democratici: l'invasione dell'Etiopia, l'intervento nella guerra civile spagnola,
la proclamazione dell'Impero e l'uscita dalla Società delle Nazioni
contribuirono ad accrescere l'astio delle grandi potenze liberali nei confronti
dell'Italia, manifestato anche tramite l'imposizione di sanzioni. Si accentuò
sempre di più l'isolamento internazionale del paese, che costrinse il regime a
ridimensionare le proprie ambizioni e ad appoggiarsi maggiormente
all'alleato tedesco tramite la firma prima del Patto d'Acciaio e poi del Patto
Tripartito, pur senza accantonare la brama di un ruolo da grande potenza.
L'entrata in guerra a fianco del regime nazista fu la pleonastica dimostrazione
dello scollamento fra aspettative e realtà; la convinzione che l'Italia potesse
sostenere un conflitto parallelo rispetto a quello di Hitler svanì di fronte
all'evidente disparità di mezzi e preparazione delle truppe. Ancora una volta
le aspirazioni italiane al rango di grande potenza si scontrarono con la realtà,
determinando la trasformazione dell'Italia prima in vassallo della Germania
e poi in stato occupato dilaniato dalla guerra civile.
2.2 L' Italia nel Secondo Dopoguerra: la teoria dei 3 cerchi
La Seconda Guerra Mondiale lasciò macerie ovunque, tutti i paesi coinvolti
si trovarono ad affrontare in varia misura le conseguenze del conflitto.
L'Italia costituisce un caso particolare in quanto la decisione di sconfessare il
fascismo e la partecipazione alla liberazione del paese contribuirono a
rendere le conseguenze del conflitto meno pesanti di quelle che normalmente
30
Cit. G. Maggiore, Imperialismo e Impero fascista, in E. Diodato, F. Niglia, L’Italia e la politica
internazionale. Dalla Grande Guerra al (dis-)ordine globale, Carocci editore, Roma, 2019, p.40
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una nazione sconfitta avrebbe dovuto subire. Va comunque sottolineato
come, a partire dal viaggio di De Gasperi negli Stati uniti nel 1947, i governi
italiani durante il periodo della ricostruzione si siano abilmente serviti della
cosiddetta strategia partecipativa, il medesimo approccio realista tenuto dal
Giappone, consistente nel farsi forza grazie all'alleanza con i paesi vincitori,
in particolare con il più potente (ossia gli USA).
Riprendendo la definizione di Ennio Di Nolfo, la politica estera italiana
durante la Guerra Fredda è riassumibile in un'equazione instabile formata da
quattro variabili: subordinazione (agli Stati Uniti), autonomia (relativa),
interdipendenza (in particolare nell'ambito della Nato), e integrazione
(soprattutto sul piano comunitario)
31
. L'Italia adottò una linea che la poneva
all'interno del blocco occidentale e prese parte alle organizzazioni
transnazionali facenti capo a questo (come la NATO), senza manifestare
particolari rimostranze, estromettendo inizialmente dalle decisioni politiche
i partiti di sinistra filosovietici: alla conciliazione degli interessi dei singoli
gruppi si preferì una chiara scelta di campo, con la promessa di sicurezza e
benessere per la collettività; ancora una volta l'Italia assunse una posizione
da media potenza regionale. Il vincolo atlantico limitava la capacità di
proiezione esterna dell'Italia a causa della logica della Guerra Fredda in cui
l'assunzione delle decisioni cruciali era polarizzata fra le due superpotenze
32
,
ma in compenso questo rapporto di interdipendenza avrebbe permesso al
paese di godere di una considerevole rendita di posizione almeno fino alla
fine del bipolarismo. Pertanto l'atlantismo fu una delle direttrici che
attraversarono il periodo della Guerra Fredda, assieme all'europeismo e
all'attenzione al Mediterraneo, costituisce uno dei tre grandi cerchi della
politica estera italiana post-bellica
33
.
31
E. Di Nolfo, The Shaping of Italian Foreign Policy During the Formation of East-West Blocs.
Italy between the Superpowers, in E. Di Nolfo (a cura di), Power in Europe?, vol.III, De Gruyter,
Berlino, 1990
32
L. Caracciolo, Terra incognita. Le radici geopolitiche della crisi italiana, Laterza, Roma-Bari,
2001, p.4-5
33
L. Garruccio (pseudonimo di Ludovico Incisa di Camerana), La Politica estera italiana: le
scelte di fondo e il retroterra culturale, in "Politica Internazionale", febbraio 1992
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Ma la tendenza più emblematica dell'Italia post-unitaria fu la
neutralizzazione dell'interesse nazionale: per il governo era assolutamente
prioritario tagliare i ponti con il regime fascista, perciò si rese necessaria
l'eliminazione di ogni riferimento a ciò che poteva apparire egoistico,
autarchico, e unilateralistico, oltre che potenzialmente associabile al
nazionalismo imperialista del regime
34
. Inoltre la forma di governo
parlamentare ad esecutivo debole e il sistema di veti incrociati fra i partiti
reso possibile dall'architettura istituzionale non favorivano una proiezione
esterna dinamica e propositiva. Perciò la nuova Italia repubblicana nacque
più come "Repubblica dei partiti" che come "Repubblica degli interessi
nazionali"
35
. Si diede priorità alla stesura di una Costituzione in cui
confluirono tutte le istanze diverse caratterizzate dall'antifascismo,
nonostante le evidenti differenze ideologiche presenti all'interno della
società. Grande importanza era conferita alla vocazione pacifista quale
pilastro della Repubblica Italiana, legata ovviamente alla volontà di prendere
apertamente le distanze dal recentissimo passato fascista ed espressa
nell’art.11 della Costituzione. È interessante notare come il medesimo
articolo consenta limitazioni alla sovranità nazionale 〈 〈necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni〉 〉
36
;
l’accettazione di sottoporsi alla giurisdizione di organizzazioni internazionali
per la risoluzione pacifica delle controversie e la cessione di parte della
propria sovranità ad esse costituivano il presupposto per l’adesione all’Onu
e alla Comunità europea e manifestavano il desiderio di farne parte.
Tuttavia il recupero di uno status internazionale prestigioso restava
fondamentale, e per conseguire tale risultato l'Italia giocò tutte le carte a sua
disposizione: l'appartenenza al blocco atlantico (e nello specifico il rapporto
bilaterale con gli USA), la nuova classe dirigente antifascista, la sua speciale
posizione lungo la faglia geografica Est-Ovest e Nord-Sud, la presenza sul
34
A. Aresu, L. Gori, L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, Il Mulino-AREL, 2019, p.26
35
P. Scoppola, La Repubblica dei partiti, evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996), Il
Mulino, Bologna, 1997
36
Costituzione della Repubblica Italiana, Articolo 11, in www.senato.it