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ambientali, caratterizzati soprattutto da eventi di vita precocemente
traumatici, e fattori genetici, in riferimento al polimorfismo della
MAOA(monoamina ossidasi A), l’enzima metabolizzatore delle
monoamine ampiamente studiato nelle sue relazioni con l’impulsività,
con l’aggressività e con la violenza relate ai problemi di
comportamento. Recentemente sono stati condotti differenti indagini
che hanno evidenziato una significativa correlazione tra stressors subiti
in infanzia e fanciullezza, come maltrattamenti fisici e deprivazioni
genitoriali, e concomitanti alterazioni funzionali a carico del gene
codificante per l’enzima MAOA, quale fattore d’incremento del rischio
di manifestare in adolescenza e in giovane età adulta delle condotte
caratterizzate da aspetti di devianza sociale, quali aggressività,
impulsività, disturbo di condotta, disordine di personalità antisociale.
Tali studi hanno messo in risalto un parallelismo tra il mondo animale e
il mondo umano, in cui le disfunzionalità della MAOA potrebbero
spiegare le forme di aggressività sia in alcune speci animali che negli
esseri umani. In aggiunta, sono emersi dei significativi risultati ottenuti
attraverso la conduzione di ricerche che evidenzierebbero delle
differenze tra soggetti di sesso maschile e femminile per quanto
concerne l’ipotesi di un’interrelazione tra stressors ambientali e
polimorfismo della MAOA nell’insorgenza delle condotte aggressive e
antisociali.
Il primo capitolo della dissertazione costituisce una presentazione ricca
e dettagliata del fenomeno dell’aggressività, basata sulla trattazione dei
vari modelli teorici che hanno fornito delle spiegazioni di questa
tendenza comportamentale in termini psicodinamici, etologici, sociali,
fisiologici e genetici. Dopo un breve excursus sullo studio
dell’aggressività in campo animale, il capitolo si conclude con l’analisi
della relazione tra aggressività e psicopatologia evolutiva, con specifico
6
riferimento ai criteri diagnostici contenuti nel DSM-IV(Manuale
statistico diagnostico dei disturbi mentali).
Il secondo capitolo è dedicato all’argomentazione relativa alla genetica
del comportamento antisociale; da un’iniziale descrizione dei principali
disegni di ricerca genetica applicati allo studio del fenotipo
comportamentale, si passa all’analisi delle ipotesi teoriche accreditate
che tengono conto dell’associazione tra fattori genetici e ambientali
come determinante del comportamento aggressivo e antisociale. Gli
ultimi paragrafi del capitolo suddetto sono incentrati sullo studio dei
correlati psichiatrici e temperamentali del comportamento antisociale.
Nel terzo capitolo sono passate in rassegna una serie di ricerche
sperimentali di recente pubblicazione, i cui risultati sono a sostegno di
un’ipotesi di interazione tra eventi di vita traumatici a esordio
precoce(ELTLE) e il genotipo dell’enzima Monoamina Ossidasi
A(MAOA). Una prima parte del capitolo fornisce una descrizione della
struttura e delle funzioni di tale enzima, quale presupposto di una
comprensione maggiore del suo ruolo nella genetica del comportamento
antisociale. A seguire, vengono analizzati i contributi sperimentali che
evidenziano sia l’influenza esercitata dai singoli stressors ambientali e
dal polimorfismo MAOA nella loro singolarità, sia nella loro
interazione. Un breve accenno viene fatto agli studi di ELTExMAOA
sulle differenze di genere.
Nell’ultimo capitolo, il problema delle condotte antisociali
adolescenziali viene affrontato in un’ottica di assessment volto alla
diagnosi, alla valutazione e al trattamento di tale problematica,
attraverso una rapida descrizione dei fattori di rischio e di protezione
utili ad un iniziale inquadramento dell’antisocialità nell’adolescente, per
poi giungere alle indicazioni relative alle modalità d’intervento
farmacologico e psico-sociale sulle condotte devianti adolescenziali.
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8
CAPITOLO 1
L’AGGRESSIVITÀ TRA NORMALITÀ E DEVIANZA
1.1 Un approccio multidisciplinare allo studio dell’aggressività
L’aggressività è una tendenza comportamentale filogenetica
riscontrabile sia nel mondo animale quanto nell’essere umano.
L’etimologia del termine è di origine latina (aggressività da
“aggredior”,composto di “Ad,”con il significato di “verso,contro”, e
“gradior;”nel senso di “procedere,avanzare”) proprio ad indicare una
spinta motivazionale intenzionata e diretta verso bersagli predeterminati,
siano essi presenti nel mondo esterno, come per l’aggressività
eterodiretta, o identificabili con il soggetto stesso, come per
l’aggressività autodiretta. Una trattazione precisa e ben definita del
fenomeno dell’aggressività risulta un’impresa ardua poiché il fenomeno
in questione risulta particolarmente complesso, per cui una singola
interpretazione apparirebbe riduzionistica rispetto alle svariate tipologie
di comportamenti animali e umani caratterizzati da aggressività.
La costellazione di elaborazioni teoriche ruotanti attorno all’aggressività
ha notevolmente contribuito ad inquadrare tale costrutto lungo un
continuum che va dalla dimensione di normalità e di valenza positiva
delle condotte aggressive, sostenuta in modo particolare dai biologi e
dagli etologi evoluzionisti, al polo opposto della devianza, enfatizzata
dagli studiosi di psicopatologia dello sviluppo, ed evidenziata nelle
classificazioni nosografiche del Manuale statistico e diagnostico dei
disturbi mentali( DSM-IV). Infatti l’aggressività è un sintomo ricorrente
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dei complessi sindromici relativi all’infanzia e all’adolescenza, quali il
disturbo oppositivo-provocatorio, il deficit di attenzione e
iperattività(ADHD), il disturbo di condotta, il disturbo di personalità
antisociale, e caratteristiche temperamentali come l’impulsività e la
dipendenza da sostanze di uso e abuso.
Di seguito vengono presentate le posizioni teoriche maggiormente
significative riguardanti l’eziologia dell’aggressività, nell’intento di
spiegarne e comprenderne le cause, le diverse tipologie e le possibili
direzionalità evolutive.
1.1.1.Gli orientamenti teorici psicosociali: le teorie istintiviste-pulsionali,
le teorie comportamentiste, la “Social learning theory”
Le teorie istintiviste-pulsionali: le interpretazioni psicoanalitiche
All’interno del pensiero analitico sono distinguibili molteplici definizioni
riguardo alla genesi e alla funzione dell’aggressività rispetto allo sviluppo
psicologico individuale. Sigmund Freud(1856-1939) può essere eletto a
emblema significativo delle teorizzazioni sull’aggressività, che lo
psicoanalista sottopone a progressive rivisitazioni, per pervenire ad una
teoria ultima e non passibile di modifiche. Nei suoi primi scritti(1905)
Freud definisce l’aggressività una pulsione sessuale, “intimamente
connessa alla crudeltà”
come si evince dalla storia della civiltà umana;
negli anni successivi(1910-1917), giunge ad una interpretazione delle
pulsioni distruttive e aggressive quali modalità di crescita e
autorealizzazione dell’Io, non ancora indipendenti da esso, e in ultimo,
durante la fase di sistemazione teorica, la nozione di pulsione aggressiva o
S.Freud, “ Tre saggi sulla teoria sessuale”,(1905),in “Opere”,Boringhieri,Torino,
1966-79,vol.IV,pag.471
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distruttiva viene inserita all’interno dell’originale concetto di “pulsione di
morte”
. Infatti, alla base dell’ultima formulazione freudiana
dell’aggressività vi è l’ipotesi di una pulsione di morte che mira
all’annullamento della vita organica; le radici dell’aggressività sono così
rintracciate in un moto pulsionale, in una tendenza innata a distruggere,
comune a tutti gli esseri viventi, che mira alla distruzione, tanto da apparire
in antitesi alla sopravvivenza. Questa tendenza è solitamente orientata
all’esterno, verso persone o proprietà, ma a volte può essere auto-diretta,
sottoforma di lesioni o atti suicidari. Per Freud la dinamica degli istinti
aggressivi è paragonabile al funzionamento di un sistema idraulico: una
volta raggiunto il livello di saturazione, è necessario sublimare l’eccesso di
energia in modo da evitare danni irreparabili.
Aggredire diventa allora funzionale alla salvaguardia dell’individuo
dall’autodistruzione, una sorta di azione salvifica per l’organismo mediante
l’esternalizzazione dell’ “istinto di morte” .
Le teorie etologiche
L’interpretazione dell’aggressività fondata sulla teoria degli istinti
riconosce il comportamento aggressivo come il frutto di una
programmazione filogenetica e quindi non acquisito; tale schema d’azione
è diretto ad una meta propria e ben definita, il cui raggiungimento è
funzionale alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. Alla luce di
tale ipotesi sono state condotte una serie di ricerche in campo etologico che
hanno fatto luce sulla eziologia e sull’evoluzione dell’aggressività.
Lorenz, uno dei più illustri studiosi del comportamento animale,leggendo
in chiave etologica l’aggressività la definisce al pari di un istinto che
S. Freud, Al di là del principio del piacere,(1920),in “Opere”
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richiede una scarica periodica,così come Freud ha interpretato la dinamica
delle spinte aggressive comparandola al funzionamento di un modello
idraulico. Per l’etologo esistono due fattori determinanti nell’evoluzione: il
cambiamento e la selezione; essi risultano indispensabili ai fini
dell’organizzazione degli schemi comportamentali funzionali sul piano
ontogenetico e filogenetico. In tale prospettiva si inserisce la normalità
dell’istinto aggressivo o combattivo la cui funzione specifica è garantire la
sopravvivenza dell’individuo e della specie.
Lorenz e gli etologi in genere sono soliti distinguere l’aggressività inter-
specifica, ossia rivolta su individui di specie diversa( es.verso la preda) da
quella che si estrinseca nei confronti di individui della stessa specie, detta
aggressività intra-specifica. A livello della filogenesi comportamentale, il
comportamento aggressivo vero e proprio è solamente quello “intra-
specifico”, un impulso biologicamente adattivo, innato e spontaneo, che
svolge una funzione di grande importanza: la conservazione della specie.
Infatti la maggiorparte degli impulsi aggressivi viene utilizzata per il
mantenimento del territorio nel quale l’animale effettua le più importanti
attività biologiche, quali la riproduzione, la nidificazione, il combattimento
tra rivali, funzione quest’ultima strettamente connessa alla difesa della
discendenza e al miglioramento della qualità della specie attraverso la
selezione sessuale.
Quindi per Lorenz l’aggressività è un istinto ineliminabile e non
sopprimibile, in quanto costituisce uno strumento organizzativo degli
esseri viventi, che permette la conservazione della vita, anche se a volte a
costo della distruzione del sistema. Tuttavia, la dannosità di tale istinto può
essere ridotta mediante un processo di ri-direzionalità, volto a dirottare
l’aggressività verso canali innocui, frenando così i suoi esiti dannosi alla
conservazione della specie (ne sono un esempio i comportamenti
stereotipati e convenzionalizzati di sottomissione e pacificazione che
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provocano nell’aggressore della stessa specie l’inibizione della spinta
aggressiva). Va precisato che, contrariamente a quanto sostenuto per il
mondo animale, per Lorenz l’uomo e carente di molti dei meccanismi
autoinibitori dell’aggressività presenti nelle specie inferiori; il
comportamento aggressivo diventando fine a sè stesso, perde il suo
carattere di conservazione della specie, trasformandosi in cieca distruttività
intra-specifica. Tra gli uomini l’aggressività esplode anche in assenza di
condizioni ambientali scatenanti, per questo è indispensabile che venga
incanalata in forme di scarica periodica(es. le competizioni sportive,la
scienza, l’arte), in modo da limitarne la pericolosità sociale. Allora, risulta
di decisiva importanza la capacità dell’uomo di appellarsi alle sue facoltà
razionali, in modo da educarsi coscientemente e responsabilmente al
controllo della sua istintiva pulsione alla lotta e all’aggressività.
Le teorie comportamentiste: l’ipotesi frustrazione-aggressione di
J.Dollard e L Berkowitz
Le scuole di pensiero comportamentista che derivano dalle teorizzazioni di
B.F.Skinner( anni 30’) definiscono la cornice di riferimento per la
comprensione dell’aggressività nell’ambito dei contributi teorici relativi
allo studio del comportamento nei termini del meccanismo di risposta-
rinforzo positivo o negativo .
L’aggressività, dunque, è sempre spiegabile in funzione di stimoli
ambientali e di rinforzi, poiché il comportamento aggressivo presuppone
sistematicamente uno stimolo che produce una risposta, la cui forza è
determinata in misura rilevante dall’incidenza del rinforzo.
Accettando e sviluppando l’interpretazione Skinneriana, Dollard elabora la
sua tesi fondamentale sull’origine dell’aggressività, così sintetizzata,“Un
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comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione, e
inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche
forma di aggressività”
. Secondo Dollard esiste una relazione biunivoca
tra frustrazione e aggressività, in quanto l’istigazione all’aggressività varia
in proporzione diretta alla quantità della frustrazione subita.
Berkowitz ripropone la tesi eziologica sull’aggressività proposta da
Dollard, ma nel contempo ne apporta delle modifiche. Infatti revisiona
totalmente la relazione bidirezionale riconosciuta tra frustrazione e
aggressività, asserendo che, nonostante lo stimolo esterno della
frustrazione sia tale da incrementare la probabilità che un organismo
minacciato, sia esso un animale che un uomo, attui dei comportamenti
aggressivi, tuttavia l’esternalizzazione aggressiva non presuppone
necessariamente l’esistenza di una frustrazione. Esistono delle variabili
intervenienti che acquisiscono importanza nel complesso processo di
facilitazione e/o inibizione dei comportamenti aggressivi, quali gli aspetti
cognitivi della mentalità individuale e le determinanti situazionali
dell’istigazione all’aggressione. Quindi Berkowitz affronta il problema
eziologico dell’aggressività in modo più complesso di Dollard; da un lato,
fedele alla tradizione comportamentista, evidenzia la rilevanza di “segnali-
stimolo” presenti nella realtà circostante l’individuo, che fungono da
inneschi delle condotte aggressive facenti parte di una programmazione
genetica, dall’altro, distaccandosi dalle teorie istintiviste, sottolinea
l’effetto mediatore dell’esperienza e dei fattori esterni, unitamente alle
dinamiche emotive e interiori, nell’attivazione effettiva delle risposte
aggressive.
J.Dollard et al., Frustration and Aggression, Yale University Press. 1957, trad.it. di G.
Todeschini,Giunti,Barbera,Firenze,1967,pag.13
14
La “ Social learning theory”(la Teoria dell’apprendimento sociale) di
A.Bandura
A.Bandura è uno dei principali studiosi dei comportamenti aggressivi, che
egli considera uno dei tanti possibili comportamenti sociali riproducibili
mediante l’apprendimento diretto e l’osservazione. Di contro ai teorici
istintivisti, che considerano l’aggressività una componente permanente non
sdradicabile della convivenza sociale, scaturente automaticamente da uno
stimolo esterno inducente la risposta violenta, Bandura ritiene che per la
comprensione dell’aggressività sia troppo limitante il riferimento ad un
mero meccanismo di causa-effetto, mentre risulta altamente realistica la
prospettiva delle teorie dell’apprendimento sociale degli schemi
comportamentali. Sulla base di tale contributo teorico, viene esclusa
l’ipotesi di un’origine congenita della tendenza aggressiva, a favore
dell’enfasi posta sull’apprendimento del comportamento aggressivo
mediante l’esperienza.
Bandura definisce l’aggressività come un “comportamento risultante in
offese/ingiurie personali e distruzione di proprietà. Le ingiurie possono
essere psicologiche(nelle forme di svalutazioni o degradazioni) tanto
quanto fisiche”
.
Tale comportamento viene dapprima osservato negli altri, in seguito il
modello servirà da guida per azioni o atti prodotti in condizioni sociali non
necessariamente analoghe.
Nella moderna società complessa, le principali fonti di provenienza di
questi modelli comportamentali da imitare sono fondamentalmente di tre
ordini: la famiglia, il gruppo sociale di appartenenza e i mezzi di
comunicazione di massa.
A.Bandura, Aggression: a Social Learning Analysis, Prentice-Hall Inc., Englewood Cliffs.
New Jersey, 1973, pag.5
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Quindi all’interno della “social learning theory” l’aggressività deve essere
trattata al pari di un fenomeno complesso e multisfaccettato, includente sia
i comportamenti dannosi che distruttivi, e la sua valutazione non può
prescindere dalla consapevolezza che essa si manifesta, si sviluppa e si
modifica attraverso l’intenzionalità individuale, le relazioni sociali e i
diversi fattori socio-culturali.
1.1.2 Il substratum biologico del comportamento aggressivo: le strutture
anatomiche, le basi neurochimiche e la ricerca genetica
È riconosciuta l’esistenza di una complessa interazione tra segnali
biologici, circuiti neuronali, geni e fattori ambientali nello sviluppo e
nell’espressione del comportamento aggressivo. Gli studi condotti sugli
animali, nonostante le differenze di tipo qualitativo e quantitativo esistenti
tra le manifestazioni aggressive animali e quelle umane che pongono dei
limiti ad un tentativo di comparazione diretta tra umani e non-umani,
hanno comunque prodotto dei risultati soddisfacenti relativi
all’individuazione di somiglianze tra diverse speci rispetto alle componenti
dell’aggressività. Darwin(1872) ha osservato che sia gli animali che gli
esseri umani rispondono alle situazioni di sfida e di contrasti sociali con
analoghe modificazioni fisiologiche, come l’incremento del ritmo cardiaco,
della respirazione, oltre a ben definite espressioni facciali che sono
esternate tanto dal bambino quanto dal primate non-umano in contesti
sociali simili. Ancora, gli esperimenti neurobiologici rilevano l’attivazione
di molti dei sistemi nerochimici e anatomici coinvolti nella regolazione
dell’aggressività sia negli animali che negli uomini. Data la complessità
del fenotipo comportamentale aggressivo risulta indispensabile una sua
trattazione che tenga conto dei diversi contesti di organizzazione
16
neuroanatomica, dei risultati provenienti dalla neurogenetica e dagli studi
relativi al coinvolgimento dei fattori genetici e ambientali nella
comprensione della natura aggressiva del comportamento sociale.
Le strutture anatomiche: i circuiti neuronali dell’aggressività
La caratterizzazione dei circuiti neuronali che controllano l’aggressività è
data dal loro coinvolgimento nella regolazione di altri comportamenti
sociali. Da qui, l’ipotesi che i comportamenti aggressivi rappresentino
delle proprietà emergenti della vasta rete di condotte sociali regolate da
specifiche aree cerebrali, quali l’area mediale pre-ottica(MPOA), il setto
laterale(LAS), l’ipotalamo anteriore(AHA), l’ipotalamo ventro-
mediale(VMH), il grigio periaqueduttale(PAG), l’amigdala mediale(MEA)
e il nucleo della stria terminale(BNST).
Roditori. Nei roditori si pensa che i circuiti cerebrali MEA, LAS, BNST, e
AHA sollecitino il grigio periaqueduttale(PAG) nella promozione dei
comportamenti aggressivi specie-specifici. È stato in aggiunta ipotizzato il
coinvolgimento di sub-nuclei differenti iperattvi in contesti sociali diversi.
Ad es., l’amigdala mediale postero-ventrale(MEA) e l’ipotalamo ventro-
dorsomediale sarebbero importanti per la regolazione dell’aggressività
difensiva, mentre l’amigdala mediale postero-dorsale (MEA) regolerebbe
l’aggressività in situazioni offensive. Le componenti di questa “rete
nucleare” sono state individuate mediante gli studi sulle lesioni cerebrali e
le investigazioni condotte sulla precoce espressione genica. In linea
generale, è stato riscontrato che lesioni a carico delle are nucleari LAS,
BNST, AHA e MEA riducono l’aggessività nei ratti maschi, di contro ad
un incremento di tale tendenza comportamentale nei roditori maschi
soggetti a lesioni a carico della corteccia orbito-frontale(OFC). Le indagini
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sull’espressione genica precoce hanno consentito di individuare i vari
nuclei cerebrali attivi in situazioni di lotte e combattimenti; a tal proposito
si è visto che la produzione della proteina FOS aumenta nei sub-nuclei
LAS, BNST, AHA e MEA in svariati contesti sociali, implicando un
esternazione maggiore di tipo aggressivo tra roditori maschi (Newman &
Kollack-Walker et al., 1995; Delville et al., 2000) e tra le femmine(Davis
& Marler, 2004), inducendo soprattutto l’aggressività materna(Hasen &
Gemmie, 2005).
Primati non-umani. Come per i roditori, l’ipotalamo sembra ricoprire un
ruolo chiave nella regolazione dell’aggressività nei primati non-umani.
Nelle marmotte di sesso maschile la stimolazione elettrica della VMH
incrementa le vocalizzazioni minacciose e induce la piloerezione(segno di
aggressività); allo stesso modo, lesioni a carico della AHA riducono le
vocalizzazioni minacciose dirette su intrusi di sesso maschile. Nelle
scimmie Rhesus(Macaca mulatta), la stimolazione elettrica delle aree
nervose AHA e BNST induce un aumento della frequenza delle
vocalizzazioni aggressive( Robinson, 1967) e incrementa l’aggressività
diretta a maschi sottomessi( Alexander & Perachio, 1973). In recenti studi
condotti sui maschi delle scimmie Rhesus è stato rilevato che lesioni della
corteccia orbito-frontale(OFC) sono generalmente associate ad un
decremento del comportamento affiliativo(es. chiusura dei contatti sociali,
tendenza a dominare), mentre gli effetti di tali lesioni sulle manifestazioni
di tipo aggressivo dipenderebbero dal contesto( Machado & Bachevalier,
2006). Per esempio, lesioni a carico dell’OFC producono un
iperaggressività nei maschi dominanti ma non in quelli sottomessi(ibid.).
Quindi, sembra che la corteccia orbito-frontale(OFC) sia particolarmente
importante nell’interpretazione dei segnali sociali, contribuendo
all’appropriatezza delle risposte comportamentali nelle complesse
situazioni sociali.
18
Umani. Gli studi sulle lesioni cerebrali e gli studi di brain imaging
suggeriscono che i circuiti neuronali mediatori dell’aggressività reattiva
negli umani presentano alcune somiglianze con la rete di nuclei cerebrali
controllori dell’aggressività in animali non umani( Davidson et al., 2000;
Gregg & Siegel, 2001). Diversi studi hanno riportato un collegamento tra il
danno cerebrale a carico della corteccia frontale e l’aumento del
comportamento aggressivo (Anderson et al., 1999), risultati concordanti
con quelli che riferiscono di individui estremamente aggressivi in modo
reattivo, i quali presentano un’attività cerebrale nella corteccia frontale più
bassa rispetto alla media( Volkow et al., 1995; Soloff et al, 2003). La
corteccia frontale fornisce degli input ai circuiti dell’ipotalamo e
all’amigdala che potrebbero promuovere l’aggressività( Davidson et al.,
2000). In uno studio clinico, gli individui che sono stati diagnosticati con
un “disturbo esplosivo-intermittente” mostrano un iperttività dell’amigdala
in risposta a facce arrabbiate, e tale attivazione cerebrale risulta correlata
positivamente con i punteggi ottenuti sulla scala LHA (Lifetime History
Aggression)
. Alcuni studi hanno contribuito ad un approccio integrativo
per delucidare i circuiti neuro-biologici che influenzano l’aggressività negli
esseri umani, chiamando in causa l’attivazione cerebrale della corteccia
prefrontale (PFC) e gli inibitori della ricaptazione selettiva della
serotonina(SSRIs).
Negli esseri umani sono stati identificati due sottotipi di aggressività: l’aggressività
controllata-strumentale e l’aggressività reattiva-impulsiva. L’aggressività reattiva è
caratterizzata da un dose eccessiva di impulsività, usualmente associata alla rabbia, mentre
l’aggressività strumentale è determinata e orientata ad uno scopo. Il primo sottotipo di
aggressività può manifestarsi mediante atti aggressivi improvvisi, crescenti, duraturi e
inappropriati, e probabilmente spiega la maggiorparte di problemi di ordine sociale scaturiti da
comportamenti aggressivi. La seconda categoria di aggressività si pensa sia regolata dai sistemi
corticali superiori noti per il loro effetto mediatore su impulsi di tipo aggressivo. ( Vitello.B. e
Stoff, D.M. Subtypes of aggression and their relevance to child psychiatry.J.Am.Acad.Child
Adolesc.Psychiatry 36,307-315,1997)
scala basata su un intervista utilizzata in ambito clinico per la valutazione generale delle
tendenze aggressive negli umani