INTRODUZIONE Il compito dello psicologo clinico è stato a lungo definito in base alle
tecniche diagnostiche possedute dimenticandone l’individualità. Tutto ciò ha avuto conseguenze negative anche sul paziente e la sua
valutazione in quanto anch’egli “generalizzato”, fatto entrare
necessariamente in uno stigma per un puro scopo di praticità. Di recente si è così imposta una necessità: il paziente non va
etichettato e lo psicologo non può etichettarlo. All’origine “clinico” rimandava all’immagine di chi è chino sul
malato, all’ascolto di esso, non a quella di un filosofo che discute cosa
è giusto e cosa non lo è. È per questo che lo psicologo clinico durante il suo colloquio può
porsi col paziente anche con la sua interezza ed empatia oltre che con
la competenza, semplicemente perché c’è un altro sé di fronte a lui,
che sarà sano, malato o ammalato. A quel punto lo osserverà e lo valuterà, nei gesti, nelle parole, nei
pensieri, nei comportamenti, nelle reazioni e nelle sue emozioni
usando quelli suoi. Da ciò nasce la teatralità messa in atto nel colloquio clinico per
distaccarsi da un altro assetto di rigidità, con u settino che diventa un
palcoscenico che apre la via del cambiamento, per se stesso e per il
paziente. 1
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CAP. 1 – ROMANTICIZZARE LA MALATTIA
La malattia nell’Iliade e nell’Odissea è rappresentata come
possessione demoniaca e risultato di cause naturali; per i greci era sia
gratuita che meritata (per colpa personale, trasgressione collettiva o
per delitto di qualche antenato); con il cristianesimo e le sue
concezioni più moralistiche, si giunse a farla corrispondere alla sua
“vittima”, malattia non più come punizione, ma come castigo giusto e
appropriato.
Nell’800 il concetto di malattia che “corrisponde al carattere” fu
sostituito con quelle di malattia “espressione del carattere”.
Shopenhauer scriveva che essa può essere combattuta con la volontà
escludendo che quest’ultima potesse essere malata; per guarire, la
volontà doveva assumere poteri dittatoriali per arginare le forze ribelli
del corpo.
Una generazione prima, il medico Bichat, aveva definito la buona
salute “il silenzio degli organi” e la malattia “la loro rivolta”. La
malattia è ciò che parla attraverso il corpo, un linguaggio per
drammatizzare il mondo mentale, un’autoespressione.
Groddeck definiva la malattia “un simbolo, la rappresentazione di un
avvenimento interiore, il palcoscenico di cui l’Es si serve….”
Nell’ideale moderno del carattere equilibrato, l’espressività è limitata
e il comportamento è definito dalle sue potenzialità di eccessi.
Kant faceva un uso figurato del cancro che appare una metafora di
sentimenti eccessivi: “le passioni sono cancri e spesso incurabili, sono
umori estremi inopportuni gravidi di molti mali” collegando cancro e
gravidanza in una visione pre-romantica delle passioni.
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Rosseau scriveva: “non c’è nessuno al mondo meno capace di Emile
di nascondere i propri sentimenti” ed era un complimento. Quando i
sentimenti eccessivi diventano paritari si cessa di paragonarli a una
terribile malattia che viene invece considerata il loro veicolo.
La TBC (tubercolosi) era considerata nel Romanticismo una malattia
che rendeva evidente un desiderio intenso che svela, nonostante
l’individuo riluttante, ciò che egli non vorrebbe rivelare, un contrasto
quindi non tra passioni moderate ed eccessive ma tra passioni nascoste
e scoperte. La malattia rivela quei desideri del paziente di cui
probabilmente non era cosciente.
Malattie e pazienti diventano soggetti da decifrare e le passioni
nascoste erano considerate fonti di malattie perché “colui che desidera
ma non agisce genera pestilenza”. I primi romantici cercavano la
superiorità desideravano di desiderare, più intensamente di altri perché
l’incapacità di attuare questo ideale di vitalità e spontaneità assoluta li
faceva essere candidati ideali a contrarre la tbc.
Il neoromanticismo invece parte dal principio opposto: sono gli altri
che desiderano intensamente e l’IO ha poco o nulla da desiderare: le
narrazioni dei romanzi russi dell’800 sono in prima persona con
precursori di aridi ego ma ancora eroi irrequieti, amareggiati,
autodistruttivi, tormentati dalla propria incapacità di sentire.
L’antieroe della narrativa americana contemporanea invece è il
prodotto di routine regolari o di freddi stravizi: non autodistruttivo ma
prudente; non imbronciato, focoso o crudele ma dissociato, quindi un
candidato ideale al cancro secondo il mito contemporaneo.
Con le malattie moderne l’idea che la malattia esprima il carattere
viene ampliata sino ad affermare che il carattere provoca la malattia,
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perché non si è espresso. La passione avanza internamente, colpendo e
distruggendo i più profondi recessi cellulari. Scrive Groddek: “è il
malato stesso a provocare la sua malattia non abbiamo bisogno di
cercare altre cause” le cause esterne sono i bacilli seguiti da “colpi di
freddo”, “surriscaldamenti”, “l’eccessivo bere”, “l’eccessivo lavoro”,
“l’eccesso in qualsiasi cosa”; poiché non è piacevole guardare dentro
noi stessi, i medici preferiscono combattere le cause esterne (con
profilassi, disinfezione, ecc) piuttosto che guardare alle cause reali,
interne.
Karl Menninges, più recentemente, scrive: “la malattia è in parte ciò
che il mondo ha fatto a una vittima, ma in parte maggiore ciò che la
vittima ha fatto al suo mondo e di se stessa”.
Tutte queste affermazioni insensate e pericolose caricano sul paziente
tutto il peso della malattia non soltanto indebolendo la sua capacità di
comprendere la gamma delle cure medicali accettabili ma lo spingono
ad evitarle. Si pensa che il trattamento dipenda dalla capacità del
paziente di amare se stesso.
Katerine Mansfield nel 1923 nel suo diario, un anno prima che
morisse scriveva: “… Una brutta giornata… dolori terribili e
debolezza. Non ho potuto far niente. La debolezza non era soltanto
fisica. Devo risanare il mio IO per poter star bene. È una cosa che
devo fare da sola e subito. È alla radice del mio non migliorare. La
mia mente non è controllata.”
Ella non soltanto pensava che il suo IO l’avesse fatta ammalare ma
che aveva la possibilità di guarire da una malattia polmonare
irrimediabilmente avanzata se fosse riuscita a risanare il suo IO.
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Sia il mito della tbc che il cancro attuale, considerano l’individuo
responsabile della propria malattia. Ma le immagini legate al cancro
sono più punitive rispetto a quelle dei romantici, che attribuivano un
certo fascino alla tbc ritenuta derivare da un eccesso di passione. Un
tempo si riteneva infatti che la tbc colpisse gli spericolati e i sensuali
mentre il cancro oggi è ritenuta una malattia della passione
insufficiente, che colpisce chi è sessualmente represso, inibito, privo
di spontaneità o incapace di esprimere collera. Queste due reazioni
psicologiche opposte in realtà sono due facce della stessa medaglia:
entrambe sottolineano un’insufficienza o una deformazione
dell’energia vitale.
Il nobile Michele de L’”immoralista” di Gide contrae la tbc perché ha
represso la propria vera natura sessuale, ma quando la accetta
guarisce. Dato questo, oggi egli avrebbe il cancro cioè come oggi si
vede nel cancro il costo della repressione, così pure un tempo la tbc
era la conseguenza rovinosa della frustrazione.
Oggi c’è chi crede che una vita sessuale liberata tenga lontano il
cancro per la stessa ragione che portava a prescrivere ai tubercolotici
frequenti rapporti sessuali ai fini terapeutici. Secondo il mito, un
sentimento appassionato trovava espressione nella tbc ed era in genere
l’amore ma poteva essere anche di tipo politico o morale.
Nell’opera “Alla vigilia” (1860) di Turgenev il giovane rivoluzionario
Insrov in esilio, si rende conto di non poter tornare in patria e
s’ammala di nostalgia, frustrazione, prende la tbc e muore.
Oggi si immagina che la causa del cancro sia la repressione degli
istinti violenti. Norman Mailer spiegava di recente che se non avesse
accoltellato la moglie in obbedienza a un micidiale groviglio di
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sentimenti, si sarebbe preso il cancro e sarebbe morto lui in pochi
anni. La passione frustrata che uccise Insrov era l’idealismo, la
passione che farà oggi venire il cancro, se non sfogata, sarebbe la
collera. Nella prima forma di questa idea gli istinti refusi erano
sessuali, oggi sono istinti violenti.
W.Reich definiva il cancro come una malattia che fa seguito a una
ressagnazione emotiva, una contrazione bio-energetica, una rinuncia
alla speranza e faceva l’esempio di Freud, e il suo cancro alla mascella
iniziato secondo lui quando Freud di natura appassionata e “assai,
infelicemente sposato” aveva ceduto alla rassegnazione; scrisse infatti:
“Egli visse una vita serena, tranquilla e rispettabile, ma è praticamente
indubbio che era sessualmente molto insoddisfatto. Lo attestavano sia
la sua rassegnazione, sia il suo cancro. Freud dovette arrendersi come
persona. Dovette rinunciare ai propri piaceri personali, alle proprie
gioie personali, negli anni della maturità. […]. Se la mia opinione sul
cancro è corretta, tu ti arrendi, ti rassegni, e poi ti consumi.”
Questo modello del legame tra il cancro e la rassegnazione
caratteriologica fu applicato alla tbc da Groddeck che definiva questa
malattia come il desiderio di venir meno. “Il desiderio, l’impulso
erotico a muoversi in su e in giù, dentro e fuori, deve consumarsi fino
a spegnersi, e questo impulso viene simbolizzato nel respiro. E col
desiderio si consumano i polmoni […] si consuma il corpo…”
Come gli scritti attuali sul cancro, i racconti ottocenteschi sulla tbc
vedevano tutti la rassegnazione come causa della malattia.
Nella Capanna dello zio Tom, la piccola Eva muore con una serenità
preternaturale, annunciando a suo padre poche settimane prima della
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fine: “Le mie forze diminuiscono ogni giorno e io so che devo
andarmene”.
I tubercolotici erano descritti come persone appassionate, ma ciò che
li caratterizza è una deficienza di vitalità, di forza vitale.
Analogamente oggi tendono al cancro quelli che non sono
sufficientemente sensuali o in sintonia con la propria rabbia come pure
la tbc veniva celebrata come malattia delle vittime predestinate, delle
persone sensibili e passive che non amano abbastanza la vita da poter
sopravvivere. (Ciò che lasciano intravedere le sensuali ma quasi
sonnolenti bellezze dell’arte preraffaellita viene reso esplicito dalle
emaciate tubercolotiche).
E se la rappresentazione di una morte per tbc pone l’accento sulla
compiuta sublimazione dei sensi, la figura ricorrente della cortigiana
tubercolotica fa capire che alla tbc si attribuiva anche la caratteristica
di rendere sexy il malato.
Come tutte le metafore azzeccate, quella riferita alla tbc consentiva
due applicazioni, contraddittorie: da una parte descriveva la morte di
una creatura (es. un bambino) ritenuta troppo buona per essere
sessuata; dall’altra parte descriveva sentimenti sensuali pur
risollevando da qualsiasi responsabilità di libertinaggio attribuito a
una condizione di oggettiva decadenza. Era quindi un modo per
descrivere sia la sensualità e le esigenze della passione che la
repressione che esige la sublimazione, perché la malattia provocava
tanto un torpore dello spirito quanto la soffusione di sentimenti più
elevati. Era anche soprattutto un modo per sottolineare l’importanza
dell’essere più consapevoli e psicologicamente più complessi. La
“buona salute”, in tal senso, diventava banale, persino volgare.
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Secondo il galateo dell’800 la tbc era un modo di apparire: era
considerato volgare avere buon appetito mentre era elegante sembrare
malaticci, mangiando poco o nulla.
Chopin era tubercolotico in un periodo in cui era di moda essere
pallidi e smunti fino ad essere paragonato per questo alla più famosa
donna fatale del periodo, rendendo popolare tale aspetto. La
concezione del corpo, influenzata dalla tbc era un modello nuovo di
bellezza aristocratica in un periodo in cui quest’ultima cessava
d’essere una questione di potere diventava una questione di immagine:
la duchessa di Windsor disse una volta: “Non si può mai essere troppo
ricchi. Non si può mai essere troppo magri”. A quel tempo, come oggi,
prevaleva la promozione dell’IO come immagine, per cui l’aspetto
tubercolotico diventava attraente se lo si considerava un segno di
distinzione, di classe.
Molti degli atteggiamenti letterari ed erotici detti “tormenti romantici”
derivano dalla tubercolosi e dalle sue trasformazioni attraverso la
metafora (es. la debolezza era “languore”), il tormento reale veniva
semplicemente cancellato, omesso, dimenticato. Verso la fine
dell’800, l’aspetto tubercolotico, simbolo di una seducente
vulnerabilità, di una sensibilità superiore divenne sempre più
“l’aspetto ideale della donna di allora” e contemporaneamente i grandi
uomini ingrassavano, fondavano imperi industriali, scrivevano
centinaia di romanzi, facevano guerre e depredavano continenti.
Si può supporre quindi che questa romanticizzazione della tbc fosse
una trasfigurazione letteraria della malattia che nell’epoca delle
maggiori devastazioni era ritenuta in realtà ripugnante, come il cancro
lo è oggi.
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Con la tbc si formulò l’idea della malattia individuale e che una
persona acquista consapevolezza di sé quando deve affrontare la
propria morte.
La malattia era un modo per rendere una persona “interessante” e
Novalis (‘700 – ‘800) scriveva: “l’ideale della perfetta salute è
interessante solo scientificamente; veramente interessante è la malattia
che appartiene all’individualizzante”. Questo atteggiamento romantico
verso la morte attesta che le persone venivano rese più interessanti e
singolari dalle loro malattie. In fondo era la tristezza che rendeva
interessante una persona perché segno di raffinatezza e sensibilità,
“essere tristi, ovvero impotenti” da cui tristezza e tbc divennero
sinonimi. Il mito della tbc è il penultimo capitolo della storia dell’idea
antica della malinconia considerata la malattia dell’artista, secondo la
teoria dei 4 umori: il carattere malinconico (o tubercolotico) era
superiore agli altri: creativo, sensibile, un essere a parte.
Il luogo comune così collegava la tbc alla creatività da cui alla fine del
secolo con la sua scomparsa graduale, si ebbe anche quella della
letteratura e delle arti.
Il mito della tbc però non si limitava a spiegare la creatività ma offriva
un modello di vita da seguire con o senza la vocazione artistica: il
tubercolotico era un vagabondo all’incessante ricerca di un luogo
salutare.
All’inizio dell’800 la tubercolosi era una nuova ragione dell’esilio, di
vita da dedicare ai viaggi (prima di allora né i viaggi né il sanatorio
erano ritenuti utili per curarla) e c’erano dei luoghi prediletti che si
pensava facessero bene ai tubercolotici: nel 19° sec. l’Italia, poi le
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isole Mediterranee e del Pacifico meridionale; nel 20° sec. montagna e
deserto; questi luoghi furono tutti romanticizzati in seguito.
L’incidenza della tbc cominciò a diminuire dopo il 1900 grazie alle
migliorate condizioni igieniche, ma restava alta la mortalità di chi la
contraeva; la forza del mito scomparve quando si ebbero le prime cure
disponibili con la scoperta della streptomicina nel 1944 e
dell’isomiazide nel 1952.
Se è difficile immaginarci come sia stato possibile trasformare in
modo così assurdo la realtà di quella terribile malattia basterà
osservare l’atto analogo compiuto nella nostra epoca non sul cancro
(che nessuno è riuscito ancora a descrivere in modo fascinoso benché
assolva a certe funzioni metaforiche della tbc dell’800), ma sulla
follia. Nel 20° secolo, la malattia repellente e tormentosa che diventa
indice di sensibilità superiore, che veicola sentimenti di spiritualità e
sentimento critico, è la follia.
Le fantasie sulla tbc e quelle sulla follia hanno molto in comune; per
entrambe c’è la segregazione; in entrambe i malati vengono messi in
una “casa di cura” e da ricoverato il paziente entra in un altro mondo
fatto di regole particolari; come la tbc anche la follia è un esilio e il
cosiddetto “viaggio psichico” non è che un’estensione metaforica del
viaggio tubercolotico; per essere curato il paziente deve essere
sottratto dalla sua routine quotidiana, non a caso la metafora più
comune usata per indicare un’esperienza psicologica estrema positiva
sia essa prodotta da una droga che da una psicopatia, è il “viaggio”.
Nel 20° sec. molti atteggiamenti e metafore che prima erano collegate
alla tbc si sono distribuiti tra due malattie, passando cioè dalla tbc alla
follia: il malato febbrile e spericolato disposto alle passioni estreme è
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un individuo troppo sensibile per tollerare gli orrori della quotidianità.
Nel cancro invece passano i tormenti non romanticizzabili. È la follia
attualmente il veicolo del mito secolare della trascendenza dell’IO.
Secondo il pensiero romantico la malattia esacerba la consapevolezza:
un tempo era la tbc, oggi è la follia che porta la consapevolezza ad una
parossistica illuminazione.
La “romanticizzazione della follia” rispecchia di più il prestigio di cui
oggi gode un comportamento irrazionale o villano (spontaneo), quella
passionalità repressa che un tempo produceva la tbc e attualmente il
cancro.
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CAP. II - INTERESSARSI ALLA METAFORA
L’interesse per la metafora nasce dalla consapevolezza di un disagio e
impaccio espressivi che possono essere presenti sia nell’adulto che nel
giovane.
La metafora è un “codice formale” che regola la struttura dei rapporti
sociali.
Benché l’avere padronanza della lingua sia importante per un buon
inserimento sociale, oggi l’individuo ne viene invece al contrario
condizionato ad esempio dai mezzi di comunicazione di massa a
scopo politico, ideologico e sociale, allontanandola così dal pensiero
individuale di cui dovrebbe invece far parte.
Il linguaggio comune è anonimo e conservatore e impedisce di
adottare qualsiasi altro codice evasivo perché viene ostacolato dal
cosiddetto “pudore della parola” che viene meno solo in situazioni di
forte stress emotivo o in rivolte sociali, quando cioè le istanze interne
dell’individuo prevalgono rispetto a quelle esterne (convenzionali)
favorendo la produzione di metafore o slogan creativi.
Purtroppo il linguaggio convenzionale resta quindi ancora sacrificato
al conformismo sociale perché liberarsi di quest’ultimo significa avere
un approccio individuale, singolare, con il mondo, vuol dire acquisire
una nuova capacità di vedere o diventare consapevoli che essa
andrebbe recuperata.
La metafora, proprio perché creativa, sostituisce le codifiche
concettuali secondo cui gli oggetti rappresentano le astrazioni date
dalla conoscenza di essi che ne denota concretezza e unicità; la
metafora è cioè un simbolismo che non chiude l’individuo in un