in tempo reale un utilissimo patrimonio cognitivo. E’ nel contesto
dell’indicato quadro giuridico che si annota l’istituzione di appositi
archivi informatizzati presso il Ministero dell’interno, i Carabinie-
ri, la Guardia di finanza e l’amministrazione doganale, archivi cui
può aggiungersi il sistema elettronico del Casellario giudiziale.
Sulla base di questa esperienza però, il campo di ricerca riferibile
all’informatica documentaria, pur divenuto tecnologicamente ma-
turo, non si è tuttavia esaurito. Esso costituisce ancora occasione di
un vivace dibattito, specie per quanto attiene all’invocata neces-
sità di una sua razionalizzazione. In tal senso, e prospettando i
rischi derivanti dal frazionamento del patrimonio conoscitivo oltre
che dalle difficoltà di interfacciamento tra gli archivi informatici in
cui esso trovasi attualmente ripartito, si indica la via della costitu-
zione di un’unica banca dati, lasciando comunque aperto un delica-
to dibattito circa l’opportunità di una tale concentrazione, nonché
in ordine alla delimitazione degli obblighi di trasmissione da parte
dei corpi di polizia ed alla disciplina del diritto di accesso da parte
dell’Autorità giudiziaria.
E’ tuttavia nel passaggio dalla law in books alla law in action, che
si manifestano, in materia, le tematiche di maggiore attualità.
Al riguardo si rileva particolarmente la novità costituita dal D.P.R.
123/2001. Con questa norma, da riferirsi indifferentemente al pro-
cesso civile ed amministrativo, si sancisce il passaggio dall’infor-
matica documentale all’informatica gestionale. Essa approccia la
questione riferendo pedissequamente l’innovazione a ciascuna fase
processuale, sì da contemplarla con analiticità in apposite dispo-
sizioni permissive. Si prescrive così che tutti i principali atti pro-
cessuali, dalla mera iscrizione al ruolo, alla costituzione in giudizio
ed al deposito della procura, alla redazione del processo verbale,
alle notificazioni e comunicazioni, sino alla trasmissione dei fasci-
coli e della sentenza, possano effettuarsi con l’ausilio del mezzo
informatico, conservando pienamente, in deroga al tradizionale
formalismo, validità ed efficacia.
A tal fine si dispone altresì la rilevanza dell’indirizzo elettronico
del difensore comunicato dal Consiglio dell’Ordine di rispettiva
appartenenza, mentre l’autenticità della provenienza degli atti è ga-
rantita dall’impiego di un sistema di firme digitali.
Da ultimo, per quanto attiene alla disciplina degli accessi agli atti
giudiziari, ricordiamo che si prevedono due livelli d’accesso, dis-
tinguendo tra una possibilità di mera consultazione, per atti non
coperti da riservatezza, da riferirsi a tutti gli avvocati la cui quali-
fica sia attestata tramite il dominio dal rispettivo CdO; e una
possibilità di accesso riservata ai soggetti che dimostrino lo speci-
fico interesse professionale derivante dall’avvenuto rilascio di una
procura alle liti.
Ciò detto, non deve tacersi che le indicate innovazioni possono
sollevare la legittima perplessità di chi conosce i reali problemi
della nostra giustizia e la sua endemica carenza organizzativa.
Nondimeno, e pur nella consapevolezza che l’applicazione dell’in-
formatica gestionale è, per così dire, condannata a restare ancora a
lungo sulla carta, l’aver introdotto il tema ci obbliga altresì, con-
clusivamente, a considerarne le prospettive.
La questione di maggiore interesse che può al riguardo richiamarsi
è certamente quella connessa ai futuri sviluppi dell’informatica
giudiziaria decisionale.
Ad onor del vero, v’è chi a tutt’oggi dubita della stessa possibilità
di un’applicazione automatica della norma. Ed in effetti, l’idea di
un giudice meccanico che decida razionalisticamente, abiurando il
binomio di scienza e coscienza, non può non inquietarci come cit-
tadini, prima ancora che come giuristi.
Da un più approfondito esame della questione può tuttavia rilevarsi
che la possibilità di una siffatta applicazione debba far leva sulla
gradualità delle forme caratterizzanti il lessico giuridico, per di-
scernere tra quelle che presuppongono l’esercizio di poteri dis-
crezionali e quelle che rivestono carattere prettamente routinario.
Se l’informatica giudiziaria decisionale si riferisce in via esclusiva
a queste ultime, si perviene certamente ad un superamento dell’in-
dicato pregiudizio, sì da esaminare questa parte del problema con
maggiore serenità.
Al riguardo è da dire che l’impiego del mezzo informatico devesi
analizzare in teoria ed in pratica.
In teoria, non v’è dubbio che la eventualità di automatizzare una
parte qualificata dell’attività decisoria possa positivamente incidere
proprio per quanto concerne il richiamato aspetto della produttivi-
tà, stante la notoria difficoltà di assicurare, e non solo in ambito
amministrativo, procedimenti concentrati e decisioni tempestive.
In pratica questa possibilità è tuttavia da circoscrivere a quelle fat-
tispecie che siano oggettivamente suscettibili di una razionalizza-
zione automatica. Così ad esempio, non sembrano esservi dubbi
sulla possibilità di un’informatizzazione dell’attività decisoria con
riferimento a questioni in materia di salari, pensioni, imposte od
interessi, ove si prospettino mere necessità di calcolo. Il problema
dell’effettiva operatività dell’informatica giudiziaria in campo de-
cisionale sorge invece ove si constati che nel nostro ordinamento
fattispecie siffatte rappresentano casi del tutto marginali.
Nella misura in cui si ritenga, come si ritiene, che il problema sus-
siste non solo per l’oggettiva complessità delle fattispecie, ma an-
che (o forse soprattutto) per le carenze della nostra cultura giuri-
dica, dovrà allora imporsi un’ulteriore riflessione.
1.3 LEGIMATICA E SISTEMI LEGALI ESPERTI
3
.
La perplessità cui dà adito l’informatica giudiziaria decisionale si
basa sul presupposto argomentativo offerto dall’incompatibilità
ontologica intercorrente tra il lessico giuridico e quello informa-
tico.
Ogni software applicativo, anche quello più elementare, è basato
su un complesso di regole (algoritmo) preordinate alla risoluzione
di un dato problema.
Nell’impiego di queste regole al campo della elaborazione
giuridica si rende necessario individuare quale parte della realtà da
questa studiata presenti l’effettiva attitudine ad essere tradotta nel
linguaggio della macchina.
In teoria, tutto ciò che può trovare sintesi in un giudizio obiettivo,
ovvero in un sistema chiuso di opzioni, in quanto razionale, può
altresì reputarsi algoritmizzabile.
Formulare un problema, stabilire l’obiettivo da raggiungere,
individuare le regole da applicarvi e farne seguire la risoluzione
tenendo conto delle costanti e delle variabili di una fattispecie non
è, invero, una prerogativa assoluta del pensiero matematico, ben
potendo estendersi all’intero campo del pensiero razionale. E’
tuttavia necessario aggiungere che nella realtà, questo assunto può
essere smentito ogniqualvolta ci si accorge che, accanto ad una
razionalità analitica, esiste altresì una razionalità intuitiva.
Quest’ultima, in quanto costituita da un procedimento di cui la
nostra mente non riesce a rendere una visione anticipata, ma
semplicemente a giustificarla ex post, si pone concettualmente
quale termine di demarcazione tra la conoscenza scientifica e quel-
la umanistica.
In quanto fatta di parole e non di numeri, la legge non dovrebbe
essere algoritmizzabile. In tal senso, allo stato della tecnica, non
sarebbe possibile teorizzare alcuna automazione nell’attività deci-
soria senza contestualmente considerare i limiti che quest’attività
incontra applicandosi ad un lessico, qual’è quello giuridico, indub-
biamente caratterizzato dalla polisemanticità, dall’indetermina-
tezza dei giudizi di valore, dall’imprevista interconnessione delle
fattispecie, dalla mancata previsione di casi particolari, etc.
3
Sui sistemi legali esperti, IASELLI, Sistemi legali esperti, Napoli, 1998.
Quando si parla di legimatica però, proprio muovendo dalla
considerazione di questi limiti, può altresì tentarsi di rovesciare i
termini del discorso, per chiedersi se nella prospettiva di un più
diffuso impiego del mezzo informatico non sia forse il caso di
ripensare le stesse modalità di elaborazione del dato normativo. Al
riguardo è da dire che obiettivamente, sul modus operandi affer-
matosi nella nostra cultura giuridica ha finora pesato la soverchia
influenza degli studi fatti nel campo della teoria dell’inter-
pretazione.
Nel contesto di una cultura giuridica di civil law, e più in
particolare, nel circoscritto ambito di un modello di democrazia
parlamentare, anziché porre con serietà il problema delle tecniche
di elaborazione normativa (legistica) si è investito tutto lo sforzo
intellettuale nell’attività ermeneutica, forse muovendo dall’inesat-
ta considerazione dell’ineluttabile artigianalità che connota a mon-
te questi processi.
Ma nel momento in cui una riforma costituzio-nale orientata in
senso (dichiaratamente) federale prospetta la con-creta possibilità
di una ulteriore moltiplicazione delle sedi di pro-duzione
legislativa; e nel momento in cui anche a voler tacere dell’ aspetto
tecnico-giuridico è l’obiettiva complessità della struttura sociale e
la crescente atomizzazione dei suoi interessi a far cessare quelle
garanzie di stabilità giuridica che potevano rinvenirsi, per dir così,
a valle del procedimento legislativo, diventa allora vieppiù lecito
ragionare in ordine alla necessità di migliorare, prima ancora della
qualità delle decisioni, la qualità della produzione normativa.
La problematicità del rapporto tra legistica e legimatica trova un
momento di sintesi nella necessità di individuare dei criteri di
normalizzazione del linguaggio giuridico, ove per normalizzazione
si intende quell’attività rivolta alla costruzione di un modello, e
quindi alla delimitazione di un insieme di contenuti dal cui do-
minio può derivare una struttura razionale preordinabile all’im-
piego nel campo dell’intelligenza artificiale
4
.
Ora è innanzitutto da dire che la trasposizione di alcuni modelli
elaborati nel campo degli studi di filosofia e teoria generale palesa
indubbiamente dei limiti insormontabili. E’ questo il caso dei mo-
delli istituzionalistici stante il fatto che, contemplando essi un ete-
rogeneo insieme di contenuti non circoscritti alle norme ed alla
prassi, ma anzi inclusivi dell’ampio contesto socio-istituzionale
che ne rappresenta lo scenario di applicazione, non sembrano
4
Sulle conseguenze linguistiche dell’informatica in campo giuridico, e più in particolare sul
rischio connesso alla formazione di una tendenza culturale epistemologicamente
riduzionistica, TADDEI ELMI, Filosofia del diritto e informatica giuridica, in AA.VV., Dalla
giuritecnica all’informatica giuridica. Studi dedicati a Vittorio Frosini, Milano, 1995.
obiettivamente razionalizzabili. Per altri modelli, pur maturati
senza specifico riferimento all’informatica, il discorso è diverso.
Al riguardo, l’individuazione delle strutture fondamentali di una
nuova possibile tecnica legislativa può alternativamente avvenire
alla stregua di un sistema normativistico, decisionistico, argo-
mentativo o linguistico.
Nel primo caso, la codificazione di regole formali preordinabili al
trattamento automatizzato muove per lo più dalla formulazione di
fattispecie generali ed astratte.
Negli altri due, più vicini all’esperienza della common law, il
modello di riferimento è rispettivamente offerto dal precedente
giudiziario, e quindi dalle sentenze con cui i giudici hanno risolto
casi simili, ovvero dall’interpolazione di basi argomentative e
controar-gomentative, riferibili a determinate fattispecie in virtù
dell’ ascrizione di un peso ponderato a ciascuna di esse con
l’ausilio di tecniche di selezione logica. Il metodo linguistico,
infine, invoca un’analisi degli atti linguistici attraverso cui si
esplica l’attività normativa, da svolgersi per mezzo della
strutturazione di un sistema di operatori logici costituenti,
nell’insieme, la grammatica del testo
5
.
Naturalmente, si tratta di temi che, nell’economia del presente
lavoro possono solo riferirsi in termini puramente enunciativi. E’
tuttavia da dire che, se sulla scelta preferenziale di una certa
modalità di elaborazione può influire il condizionamento am-
bientale della dominante cultura giuridica, sì residuando ai legis-
latori un ampio margine di apprezzamento, non altrettanto può
dirsi per quanto attiene al risultato esiziale che da tale elaborazione
può attendersi.
Quale che sia il modello di riferimento, il più diffuso impiego dei
cc.dd. sistemi legali esperti trova cioè, comunque, un impre-
scindibile fondamento di operatività nella formalizzazione di un
testo giuridico informaticamente intelligibile. A tal fine sembra
innanzitutto necessario costringere il legislatore ad un maggiore
sforzo di chiarezza e di coerenza, attraverso il coordinamento delle
5
All’esito di un’analisi siffatta, in particolare emerge la distinzione tra atti direttivi, volti a far
sì che il destinatario tenga un certo comportamento, e atti dichiarativi, che realizzano diret-
tamente il proprio contenuto proposizionale. Si è fatto notare che questo risultato è
compatibile con la distinzione tra norme regolative e norme costitutive, caratteristica del
normativismo. In entrambi i casi, sia pur muovendo da un diverso approccio, queste teorie
definirebbero le entità giuridicamente rilevanti, coagu-landole intorno a fattispecie statiche
(beni giuridicamente rilevanti) o dinamiche (comportamenti). Interpolandole, si potrebbe
conclu-dere che le norme costitutive sono il risultato (il significato) degli atti dichiarativi,
mentre le norme regolative sono il risultato (il significato) degli atti direttivi. Quanto alla
distinzione tra norme che si rivolgono a tutti i cittadini (primarie) e norme che si rivolgono ai
soli organi deputati ad applicare il diritto (secondarie) è invece da dire che questa non è
immediatamente traducibile in una struttura incentrata sull’atto linguistico (BIAGIOLI, Valo-
rizzazione degli aspetti pragmatici delle leggi, Informatica e diritto, 1999).
norme in codici e testi unici; ma è altresì necessario che sul piano
della tecnica di redazione si abbandoni l’impiego di espressioni
generiche (cd. leggi manifesto), concetti indeterminati o pure
petizioni di principio, per invece adottare una consuetudine
testuale schematica, quanto alla suddivisione del testo in porzioni
ben definite, ed asseverativa quanto alla selezione del dato
lessicale.
L’attività preparatoria del testo di legge, non diver-samente dal
successivo passaggio parlamentare, abbisogna quindi anch’essa di
regole precise, ma ciò solo oggi avviene per la sollecitazione
impressa dalle nuove tecnologie, al precipuo fine di ottimizzarne
l’impiego anche nel campo della normazione. Il drafting
legislativo si pone dunque quale termine di sutura tra legistica e
legimatica, nel senso che solo un testo elaborato in modo che al
suo interno risulti scevro da difetti formali (lessicali e/o sintattici),
ed al suo esterno esente da sovrapposizioni nei rapporti con altre
fonti; nonché sottoposto, già in fase di redazione, ad una
preventiva verifica delle rispettive condizioni di appli-cabilità,
potrà infine essere compiutamente compatibile con un ambiente
informatico di normazione.
Le regole di cui trattasi vi sono, e ne è esempio il manuale per la
redazione degli atti normativi formulato nel 1991 dal gruppo di
lavoro nazionale coordinato dall’Osservatorio legislativo
interregionale su impulso della Conferenza dei Presidenti
dell’Assemblea dei Consigli regionali e delle Provincie autonome.
Ciò detto, con evidenza, solo sulla base della richiamata
strutturazione funzionale si potrà veramente immaginare una
diffusa applicazione della legimatica, posto che in ultima analisi, la
stessa formulazione di una regola adeguata all’emulazione dei
ragionamenti tipologici propri del giudice presuppone, per ogni
fattispecie, da un lato un’opera di previo acclaramento dei concetti,
dall’altro un’attività di loro successiva organizzazione. Ma ove
pure la redazione dei testi giuridici avvenisse nel rispetto delle
antescritte direttive, resta il fatto che queste, diversamente da
quelle consolidatesi in fase ap-provazione parlamentare, rivestono
per lo più carattere meta-giuridico o sono quantomeno assimilabili
alla fonte convenzionale.
Conseguentemente, per quanto compete al giurista, difficile è
comunque garantirne l’uniformità, la sindacabilità e l’effettivo
rispetto, se non nell’auspicato contesto culturale di una loro matura
condivisione.
1.4 DAL TELEVOTO ALLA TELEDEMOCRAZIA: PROSPET-
TIVE E LIMITI.
Dalle premesse enunciazioni, ma focalizzando ora l’attenzione
sulle prospettive offerte dall’interattività, conclusivamente sembra
opportuno estendere la ricerca ad una fase logicamente e cronolo-
gicamente anteriore al procedimento legislativo.
Ci riferiamo qui all’impiego dello strumento informatico nell’am-
bito del procedimento elettorale, e segnatamente all’ipotesi del te-
levoto.
Al riguardo è da dire che, di primo acchito, le nuove tecnologie
sembrano aprire nuove prospettive di partecipatività, prestandosi a
superare definitivamente ogni forma, anche occulta, di esclusione
sociale nell’ambito dei processi di legittimazione politica.
Quando si parla di teledemocrazia e di televoto non è cioè difficile
sottrarsi alla suggestione di una panacea contro i mali della
democrazia li-berale, o quantomeno, più realisticamente, di una
rivoluzione te-cnologica capace in sé di ripristinare lo spirito della
polis greca, az-zerando le distanze tra Stato-apparato e Stato-
comunità.
Nondimeno, ad una valutazione più approfondita non sfugge la
circostanza che, per quanto questa tecnologia sia oggi del tutto ma-
tura per un impiego su larga scala, essa resti ancora, contrad-
dittoriamente, soprattutto nelle democrazie di più solida tradi-
zione, in una fase di pura sperimentalità.
Accade così che mentre un Paese democraticamente giovane come
il Brasile sperimenta con successo il televoto, l’amministrazione
federale statunitense è ancor restìa ad estenderne un impiego su
vasta scala, tant’è che le poche esperienze a tutt’oggi lì condotte si
sono svolte solo nell’ ambito dei singoli Stati.
Lo stesso discorso vale per l’Italia. Per quanto negli ultimi anni
anche da noi si siano moltiplicati gli esperimenti svolti in tal senso,
si è sempre trattato di eventi circoscritti a poche migliaia di
elettori, né si è ancora pervenuti, nonostante il conclamato
successo operativo, a programmare una loro più diffusa appli-
cazione.
Le perplessità a cui dà adito questo stato di cose si moltiplicano,
ove si consideri che, almeno nel nostro Paese, il dibattito sulla
possibilità di introdurre il cd. televoto, e conseguen-temente
un’effettivo impegno per renderne consapevole l’opinione
pubblica, sembrano del tutto assenti, tant’è che gli esperimenti
finora compiuti sono stati condotti in sordina, svolti in piccole
realtà di provincia
6
e relegati a margine delle cronache politiche,
senza riscuotere alcun apparente clamore.
Nel contesto di un’analisi di taglio socio-politico, più che giuridico
in senso stretto, sarà dunque necessario domandarsi perché un
evento potenzialmente così rivoluzionario per la vicenda delle
democrazie liberali passi poi in secondo piano rispetto alle priorità
dell’agenda politica.
Dal punto di vista puramente teorico, le conseguenze derivabili
dall’applicazione dell’evento informatico al procedimento eletto-
rale possono riassumersi:
- nella riduzione dei costi;
- nell’immediatezza del risultato;
- nell’ampliamento delle possibilità di partecipazione.
Valutandole analiticamente, v’è da dire che le argomentazioni più
forti a favore del voto elettronico siano proprio quelle che fanno
leva, almeno in linea di principio, sulla teorica possibilità di
ampliare la base di partecipazione, pervenendo a risultati cono-
scibili in tempo reale. Quanto al presunto risparmio di costi, in
mancanza di dati ufficiali, di esperienze condotte su larga scala o
quantomeno di una programmazione trasparente, esso è piuttosto
dubbio. Al riguardo si deve anzi osservare che, verosimilmente,
l’adozione del televoto richiede un investimento che sarebbe
possibile ammortizzare solo nel corso di diverse legislature. Ma
anche a voler ammettere che questo investimento fosse politica-
mente proficuo e quindi economicamente opportuno, resterà
ancora da valutare se, o in che misura, si perverrà effettivamente
ad un risparmio, stante il fatto che, per quanto si dirà in seguito,
altrettanto cogenti esigenze di sicurezza imporranno la necessità di
conservare un certo numero di dati sul supporto cartaceo. Con-
seguenza ne è che, laddove si volesse impostare il discorso su un
piano prettamente economico, sarebbe facile eccepire la pos-
sibilità della duplicazione di costi a cui si va incontro.
Per questo, ma anche perché si potrebbe obiettare che nessuna
spesa è mai troppo alta se giova a valorizzare la partecipazione alla
vita pubblica, specie in un Paese come il nostro, la cui storia
recente è stata segnata da un obiettivo logoramento nella stabilità
del rapporto dei cittadini coi rispettivi rappresentanti, sembra utile
6
E’ stata Avellino la prima città europea ad avviare una sperimentazione di voto elettronico,
in occasione del referendum costituzionale del 7 ottobre 2001. Per la prima volta in Italia tutti
i votanti di un’intera sezione elettorale sono stati chiamati, su base volontaria, ad esprimere il
proprio voto in un innovativo “seggio elettronico”. Gli stessi hanno pertanto effettuato una
doppia votazione, sia in modo tradizionale che con la modalità elettronica, anche se l’unico
voto valido era ancora quello espresso sulla scheda elettorale. In pratica si è potuto esprimere
il voto senza obbligo di recarsi presso un seggio prestabilito. Si sono così remotizzati sia
l’urna virtuale, collocata presso il Viminale, che il luogo dal quale votare. La sperimentazione
è avvenuta nell’ambito del progetto E-poll finanziato dalla Commissione Europea.
valutare la questione posta dall’introduzione del televoto proprio
rispetto alla possibilità di migliorare la qualità della democrazia (e
della politica).
Di fronte a queste considerazioni, la possibilità di introdurre il
televoto per contenere la crescente disaffezione dalla politica
rappresenta, invero, un’argomentazione plausibile anche al di fuori
dei confini nazionali. E’ infatti abbastanza noto che uno dei mali
endemici delle odierne democrazie liberali, pur in presenza di
sistemi elettorali caratterizzati da una nominativa universalità, con-
siste proprio nel crescente astensionismo. Così, superate le aspre
tensioni sociali del secondo dopoguerra, anche nel nostro Paese
sembrano essersi ripristinati, sia pur nella più subdola forma di una
volontaria astensione, quei fenomeni di esclusione che, circa un
secolo or sono, la democrazia liberale legittimava come esplicite
discriminazioni elettorali.
Non è questa la sede per approfondire il tema della doverosità del
voto nel nostro ordinamento, stante il fatto che trattasi di questione
ampiamente dibattuta e risolta, per quanto attiene all’art. 48 Cost.,
in via ermeneutica
7
.
Ma l’idea che il problema relativo alla qualità del rapporto di
partecipazione elettorale si possa superare semplicemente dispo-
nendo un apparato strumentale che favorisca, anche in maniera
meramente virtuale, l’accesso ai seggi, non convince del tutto, e
non convince nella misura in cui si ritenga che, essendo questo
problema di sostanza e non di forma, esso vada affrontato sul piano
della maturità democratica del corpo elettorale, della trasparenza
della propaganda politica, della ciclicità delle verifiche elettorali,
più che sotto il (riduttivo) aspetto della mera fruibilità delle
opportunità di voto. Ma anche a voler considerare seriamente i
vantaggi derivanti da queste opportunità, non può nondimeno
trascurarsi che, anziché valorizzare le occasioni di partecipazione,
esse siano anzi foriere di nuove forme di esclusione. Laddove la
tecnologia divenisse il principale mediatore dei processi politici,
sarebbe allora lecito immaginare che rispetto ai futuri processi di
legittimazione politica alle antiche barriere censitarie, geronto-
cratiche, razziali e sessuali si sostituiscano delle discriminazioni
più connaturate alla fisionomia di una società tecnopolitica: la
logica conseguenza di queste premesse potrà essere allora, sulla
base di giustificazioni socio-politiche diverse dal passato, la sem-
plice esclusione di quanti non siano computer literate.
L’ultima questione da porsi è infine riferibile all’affidabilità del
voto elettronico.
7
Cfr. MARTINEZ, Artt. 56-58 [e 48], Commentario della Costituzione, Bologna, 1994.
Al riguardo è da dire che, per consolidata tradizione pubblicistica,
la principale garanzia di veridicità offerta dalla procedura tradi-
zionale proprio consiste nell’analitica documentabilità, nonché nel-
la (eventuale) ripetibilità delle operazioni di scrutinio. Questi prin-
cipi, così come noi li intendiamo, sono tuttavia riferibili solo al
servizio elettorale tradizionale, ma per definizione esclusi per il
voto elettronico, stante la notoria fugacità dei dati che ne connota
la dinamica.
Dell’atto elettorale resta traccia in una scheda, e questo lo rende
verificabile. Giacché il voto elettronico altro non è che un impulso
impartito al sistema, esso è fugace per sua natura. Una volta
espresso, ne resta ovviamente traccia nel supporto informatico, ma,
in mancanza di un’interfaccia documentale, la possibilità di
convalidare i risultati elettorali solo sulla base di questo supporto
equivarrebbe, in buona sostanza, a verificare i verbali prodotti da
ciascuna sezione elettorale senza avere a disposizione le singole
schede.
Dalle argomentazioni svolte si evince allora che l’unica certezza
che può inconfutabilmente trarsi dall’impiego del voto elettronico
si lega, in ultima analisi, alla celerità procedimentale. Qui la
confutazione potrebbe essere agevole, nella misura in cui ci si
chiedesse che senso abbia sacrificare l’affidabilità dei pro-
cedimenti tradizionali per conoscere in tempo reale, anziché
qualche giorno dopo, i risultati definitivi delle elezioni.
Deve invece osservarsi che in democrazia anche il fattore tempo è
importante, perché in essenza, la dinamica della democrazia è
frutto di un processo di mediazione che, nel chiudere un ciclo
politico, trasferisce la legittimazione ai rappresentanti, sulla base di
un rapporto fiduciario e per un tempo determinato.
Ora, ancor più facile sarebbe osservare che, nella misura in cui si
realizzasse l’ipotesi del televoto, l’intervallo di riflessione tra una
decisione e l’altra ne resterebbe pericolosamente compresso, sì da
dissolvere nella sostanza, la differenza tra voto e sondaggio
d’opinione.
Così, se nel passato abbiamo conosciuto regimi la cui ideologia
tendeva a sacrificare la libertà individuale in cambio di una
maggiore giustizia sociale, quel che oggi può accadere nella
dinamica istituzionale è invece un processo degenerativo proprio
riferibile ad un eccesso di libertà, ove per essa si intenda
l’opportunità di partecipazione.
Così, per riesumare una categoria aristotelica
8
, un reiterato impiego
del televoto rischia perciò di segnare con impercettibile
8
Nel definire le forme di governo, Aristotele distingue le tre tipologie della monarchia
(governo di uno) dell’aristocrazia (governo dei migliori) e della democrazia (governo del
pericolosità una moderna transizione dalla demo-crazia alla
demagogia.
Ma più in generale, ciò che desta maggiori perplessità è il rischio
di una vera e propria mercificazione del processo elettorale. Un
voto espresso con l’ausilio del mezzo informatico non sarà mai
sicuro, neanche sotto il profilo della riservatezza, specie se inviato
tramite Internet, stante il fatto che ad oggi, semplicemente non
esistono sistemi tecnicamente inviolabili. La mera assimilazione
del rapporto elettorale ad una transazione economica è oltremodo
sbagliata perché, mentre le transazioni economiche sono per loro
natura nominative, prospettando problemi di sicurezza su un piano
puramente contabile, nella gestione del servizio elettorale la
segretezza costituisce invece un’insopprimibile garanzia di libertà.
Restringendo il campo di analisi alle specifiche della nostra demo-
crazia, non può inoltre tacersi la circostanza che il problema
sollevato dall’applicazione delle nuove tecnologie si sovrapponga
oggi all’annosa questione relativa alla revisione delle regole
elettorali. Ciò si farà considerando quell’intima sinergia instau-
rantesi tra meccanismo elettorale, tecnologia del voto e stile del
costume politico.
E’ noto che, sulla scia del cd. movimento referendario, a far data
dalla prima metà degli anni ’90 il nostro sistema politico ha vissuto
una travagliata transizione dal meccanismo rappresentativo pro-
porzionale ad un maggioritario che definirei quantomeno imper-
fetto o spurio. E’ altresì abbastanza noto che, diversamente da
quanto a suo tempo indicato dai fautori di quella proposta
9
, il
maggioritario non ha manifestamente apportato quel decantato
contributo di semplificazione al sistema dei partiti, mentre i suoi
effetti sulla governabilità delle istituzioni dovranno giuocoforza
essere verificati nel tempo. In questa sede è però utile rimarcare
che, nella imprevedibile sinergia stabilentesi fra tecnologie e
sistemi elettorali s’annida certamente il rischio di una progressiva
popolo). A ciascuna di queste egli fa corrispondere una possibile degenerazio-ne
rispettivamente indicandola nella tirannide, nell’oligarchia, nella demagogia. Si sottolinea in
tal modo un concetto di straor-dinaria modernità, ossia che non esiste una forma di governo
per-fetta o ideale, e che perciò la bontà di qualunque forma di governo, più che dipendere
dalla perfettibilità dell’architettura costitu-zionale, dipende invece dalla qualità degli uomini,
dai loro rap-porti, dalla cultura politica, dal senso delle istituzioni (ARISTO-TELE, Politica,
Roma, 1995).
9
Così scriveva, al riguardo, un attivo protagonista della stagione referendaria: “In sostanza i
difensori dei partiti attuali preferiscono sistemi elettorali di tipo proporzionale che consentano
a tutta la gamma delle organizzazioni politiche esistenti di seguitare ad avere eletti al
Parlamento e nelle altre assemblee regionali e locali. Dalla parte opposta chi ha intenzione di
smantellare tutti gli attuali partiti affinché siano costretti a riorganizzarsi intorno a pochissime
nuove forze - due o al massimo quattro - insiste per dei sistemi elettorali uninominali e
maggioritari che obbligano a puntare su pochissimi candidati nella speranza di vincere una
competizione polarizzata sulle persone più che sui partiti” (TEODORI, Come Voterai, Roma,
1993).
degenerazione del rapporto politico. Di ciò v’è evidenza nel fatto
che, negli ultimi anni, al fenomeno della spettacolarizzazione della
politica si è sovente accompagnata, per diffuso avviso, l’anor-
ganicità del messaggio politico. Il fenomeno è certamente difficile
da decifrare, ove si consideri che, paradossalmente, esso si è
manifestato nel contesto di un processo di comunicazione carat-
terizzantesi per l’accresciuta disponibilità di informazione. Tut-
tavia, guardando il fenomeno dal lato qualitativo, si annota che
questo processo non si è certamente associato ad una crescita del
livello medio nei contenuti del messaggio politico. Anzi, l’affer-
mazione della cd. videopolitica, tenendosi in sospeso “tra emo-
zione e ragionamento, tra potere e libertà, tra governo e opposi-
zione”
10
, ha certamente contribuito a sminuirne i contenuti, di tal
che è in ultima analisi la stessa superficialità che ne deriva a
risultare, perciò, oggettivamente faziosa. Insomma, dalla perico-
losa combinazione tra televoto e videopolitica, il rischio è che lo
spettacolo prevalga sui contenuti, o che il mezzo possa fagocitare il
messaggio. Tutto questo non avviene più, o avviene solo marginal-
mente, nel campo dell’informazione politica in senso stretto. Così
tutta la fiction, i programmi di intrattenimento e spettacolo, nonché
la produzione culturale in senso ampio, finiscono per avere
oggettivamente un peso politico forte, e ciò perché essi colgono il
cittadino-spettatore con la guardia abbassata, oltrepassandone
facilmente quella diffidenza che invece fa muro innanzi ai
messaggi ufficiali e paludati della politica
11
. Sulla carta dunque,
oggigiorno, più di quanto non fosse in passato, l’elettore sembra
essere l’anello debole del processo elettorale. Più che in passato
egli è esposto ad un’azione promozionale risolventesi in un mes-
saggio roboante ma grossolano. Tuttavia, deve altresì considerarsi
che la potenza del mezzo è un’arma a doppio taglio: essa “non si
limita a santificare; dissacra. Non impone solo l’attenzione; regola
la dimenticanza. Può creare regimi, ma anche minarli e perfino
abbatterli. Accorciando i tempi della politica e forzandone il ritmo,
i mass media abbreviano anche il ciclo della popolarità e del
consenso. Secondo una ironica legge del contrappasso, le ragioni
10
FOLLINI, Il tarlo della politica, Milano, 1988.
11
“L’analisi del rapporto tra televisione e politica dovrebbe dunque soffermarsi sulle onde
lunghe dei programmi, più che affannarsi a contare vincitori e vinti nella minuta cronaca
quotidiana. Proprio perché il potere dello schermo non consiste tanto nel far prevalere questo
su quello, ma nel fissare dei punti di riferimento cui l’uno e l’altro, almeno a grandi linee,
finiranno per uniformarsi.
Sotto questo profilo dobbiamo alla televisione, soprattutto nella sua versione commerciale, un
codice di valori che sventolando le insegne della modernità e del rinnovamento arriva a
coltivare il successo nelle sue forme più disinvolte, invita al gioco di prestigio, premia i
risultati più clamorosi e immediati sulle costruzioni più valide e sofferte” (FOLLINI, op. ult.
cit.).
del successo e quelle della caduta finiscono per rispondere alla
stessa logica, per incarnare due aspetti della medesima forza-
tura”
12
.
Proprio ciò osservando, può allora concludersi col rilievo che, fin
dove la teledemocrazia significhi solo maggiore possibilità di
contatto tra eletto ed elettore essa potrà sicuramente accogliersi
come una positiva novità nel panorama dei rapporti politici. Ma
affinché il prezzo di questa novità sia giuridicamente tollerabile in
termini di affidabilità democratica, sarà tuttavia necessaria, nel
prossimo futuro, una più ampia riflessione sui rischi, oltre che sulle
opportunità, offerte dal suo utilizzo, e quindi in ultima analisi, sulle
migliori modalità del suo impiego.
12
Così conclude FOLLINI, op. cit.