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CAPITOLO 1- RIEPILOGO OPERE
L’inizio della tesi non può prescindere da un riepilogo delle tre opere, per cogliere in
ciascuna gli argomenti, gli spunti e le tesi di fondo, con uno sguardo sempre rivolto alla
formazione di quell’uomo/signore/cortigiano “perfetto”.
Nel Cortegiano l’autore esordisce definendo lo scenario del racconto, che si svolge nella
corte di Urbino, nella quale i personaggi si ritrovano per discutere della figura del
cortigiano perfetto. Castiglione fa seguire un discorso sulla lingua, in cui scrive di aver
scelto la “lingua d’uso” e non la “lingua letteraria” (il Toscano), volendo farsi guidare solo
dal suo istinto e non dalla norma. Perciò usa le parole abitudinarie, della consuetudine, e
non il “toscano d’oggidì”, a suo avviso colmo di parole straniere, sicuro eredità dei
mercanti di passaggio a Firenze. Chiarisce, se ce ne fosse bisogno, di preferire finanche
qualche parola del mantovano, anziché le parole straniere giunte in Italia.
Castiglione arriva quindi a manifestare lo scopo dell’opera, ovvero delineare il profilo di
un uomo di corte, o quantomeno, tentare di avvicinarsi all’idea di “Cortegiano più
perfetto” (come asserisce egli stesso), il migliore che si possa pensare, una figura tanto
dignitosa da poter educare un Principe o un Signore. E’ importante anche il metodo
d’indagine, attraverso il quale Castiglione intende raggiungere la mèta tanto agognata:
non ci metterà di fronte ad un elenco di precetti e regole, ma ci racconterà una comune
discussione con interventi sul tema. Una sorta di trattato dialogico, aggiungerei, che
spesso prende a modello il Cicerone del De Officiis.
Il Cortegiano è apertamente dedicato ad Alfonso Ariosto, il committente, colui che chiede
a Castiglione “quale sia la forma di cortigiania più conveniente a uomo di corte”. Lo
scenario rappresentato è sempre lo stesso: il dopocena degli uomini e delle donne di
corte, che si ritrovano dalla Signora Duchessa Elisabetta Gonzaga che presiede il dibattito
in quanto vedova del conte Guido D’Ubaldo, ex reggente della Corte urbinate.
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L’alternativa alla Duchessa è la signora Emilia, moglie del fratello di Guido, quindi cognata
di Elisabetta Gonzaga.
Tra i partecipanti alle quattro serate di corte, i principali attori delle discussioni sono: il
Magnifico Iuliano, il Sig. Ottaviano, messer Pietro Bembo, messer Cesare Gonzaga, il
conte Ludovico di Canossa, il Sig. Pallavicino, il Sig. Morello, il sig. Roberto da Bari,
Bernardo Bibiena, Pietro l’Aretino, messer Federico (in grassetto i più attivi per
interventi). L’autore descrive anche il rituale al quale si sottoponevano tutti i partecipanti,
che riempivano una sala del Palazzo di Urbino sedendo in cerchio, alternati tra donne e
uomini.
Il primo tema affrontato è frutto di un intervento del signor Pallavicino, che chiede agli
astanti quale virtù vorrebbero che avesse la persona che amano (perciò dato che ad oggi
le manca, quale difetto lei abbia), e lo stesso verso se stessi, cioè che cosa sentono di non
avere. Giungono le risposte dell’Unico Aretino, che proverebbe gioia nel sapere che ciò
che direbbe la persona amata, sarebbe nient’altro che la verità. Ma è a questo punto che
messer Federico da una svolta alla piega che andava prendendo la discussione, chiedendo
alla signora Duchessa di incaricare qualcuno di formare la figura del cortigiano. La
Duchessa non perde tempo e assegna l’incombenza al conte Ludovico.
Egli, dopo qualche resistenza, comincia col dire che vorrebbe che il Cortegiano fosse di
nobile famiglia, in modo da avere certamente nobili esempi da seguire, e fosse frenato dal
macchiare la nobile stirpe con comportamenti osceni. Il Conte arriva anche a spiegare
che questo succede solo ai nobili, destinatari privilegiati del “giusto seme” dalla Natura e
di un conseguente bell’aspetto fisico. Ravvedutosi un poco, destina le sue attenzioni
anche alla stragrande maggioranza di “sfortunati”; questi potranno emergere dal loro
stato con fatica e studio. Giustifica altresì la sua tesi, sostenendo che il nobile gode di una
favorevole “opinione universale”, da spendere ogniqualvolta abbia bisogno di udienza
presso qualcuno. Importante che il cortigiano sia abile nelle armi, fedele a chi serve e
ardito e coraggioso quanto basta. Non può mai mancare a quest’obbligo. Gli sia anche
innaturale, prosegue il conte Ludovico, ostentare le sue imprese in pubblico, anzi
preferisca compierle in totale discrezione. Ciò non toglie che debba essere cosciente del
suo valore e avere una grande autostima di sé. Al fianco del coraggio, mostri umanità
nelle mille altre occasioni della vita.
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Il conte Ludovico passa poi in rassegna uno dei tratti fondamentali del Cortigiano, il suo
aspetto fisico, che non deve manifestare né la tipica “mollezza femminea” (come la
chiama lui stesso), né una forte virilità che spesso sfiora la volgarità negli uomini. Deve
invece, essere dotato di leggerezza nei movimenti. Approfondendo la questione della
grazia, il conte la definisce meglio: è l’arte di adattarsi a tutte le situazioni, celando la
fatica e l’applicazione spese in ogni attività, o dissimulandole, facendole sembrare
semplici seppur non tali. La grazia è un dono di natura? Non soltanto, risponde il conte
Ludovico, che consiglia al suo cortigiano immaginario di acquistarla mediante l’imitazione
di persone da lui stimate, modelli di stile. L’avvertenza è però, quella di non superare
l’imitazione per arrivare ad uno stadio successivo, quella che viene chiamata
“affettazione”, nient’altro che la riproposizione di gesti, parole, comportamenti osservati
ma non padroneggiati. Questa è l’imitazione di ciò che non si conosce, oltre ad essere
un’inevitabile fonte di derisione per chi aspira ad un portamento impeccabile. Bisogna
imitare qualcuno per crescere, ma rimanendo se stessi.
Nella pratica quotidiana, è bene che il cortigiano accosti all’indispensabile abilità nelle
armi, di cui si è già parlato, una solida formazione letteraria di base comprensiva di prosa
e poesia, ma anche della storia. E non manchino, aggiunge il conte Ludovico, l’attività
rigenerante della musica e della pittura, ancor più apprezzabile della scultura grazie alle
diverse tonalità e alla prospettiva, che l’artista potrà rendere soltanto dipingendo e non
scolpendo. Quest’ ultime abilità sono utili a gettare dei rudimenti di umanità, in un animo
da forgiare con l’uso delle armi. Due attività diverse (guerra e studio), che si ritrovano
nella letteratura narrante imprese di guerra; le seconde sono indispensabili , ma la
letteratura ne fa un indimenticabile oggetto di gloria eterna. Tale gloria non deve essere
l’aspirazione del cortigiano, il quale è bene si mostri timido e neghi le lodi che riceverà in
pubblico, anche se in cuor suo saprà di meritarle largamente. Facciano parte del suo
carattere la spensieratezza, indispensabile per raccontare scherzi e divertirsi nei giochi; e
la serietà, per la trattazione di argomenti più impegnativi.
Durante l’incontro della seconda serata, la discussione verte sul rapporto tra persone
giovani e anziani. E quindi, sulla figura di un cortigiano non più giovane, ma ugualmente in
grado di servire con dignità il signore.
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Il conte avverte subito da quale errore ricorrente debba guardarsi il cortigiano anziano:
lodare i tempi passati permeati di virtù, maledicendo il presente vizioso. Ludovico da
Canossa spiega questo non raro atteggiamento, col fatto che la nostra mente è portata a
ricordare con favore soltanto gli avvenimenti piacevoli, per la maggior parte legati alla
spensierata e lontana età giovanile. Al contrario, il presente delle persone anziane è
caratterizzato dalla volontà di fare le stesse cose di una volta, ma anche dall’incapacità
fisica a metterle in atto. Perciò l’anziano deplora il presente, bollato come vizioso e non
virtuoso, non all’altezza del (suo) passato. E’ un ragionamento che può avere un senso, se
vogliamo un po’ brutale, ma che lascia al cortigiano anziano una speranza somigliante più
a una missione: qualora si trovi a servire un signore, faccia in modo di essere considerato
come un oracolo, una persona fidata sempre pronta a dare consigli e correggere vizi, che
solo l’esperienza può avergli insegnato a conoscere. Si arriva quindi, al rapporto con gli
altri.
Accanto alla grazia di cui già si è scritto, è bene che il cortigiano mostri prudenza e mai
arroganza, o peggio ancora, si dimostri volgare in pubblico. Non c’è peggior cosa, assicura
il conte Ludovico, che il fallire in pubblico anche su cose che si conoscono o si sanno fare.
Perciò si deve essere coerenti con se stessi e mostrare le proprie abilità solo quando
vengono richieste, mai presi dalla volontà di esibire canti o balli, se non in presenza di
donne a cui mostrarsi. Perché è evidente quanto sia inopportuno mettere in gioco la
propria onorabilità di modello da seguire, per smania di esibizionismo. Discorso simile si
fa per la retorica, l’arte del parlare in pubblico. Sarebbe bene non parlare lungamente ma
lasciare spazio agli interlocutori, stimolandoli ad interagire e avendo sempre una buona
disposizione verso l’altro per non sembrare leziosi e fastidiosi. Meglio rompere ogni tanto
il silenzio dando il giusto consiglio, o esprimendo il proprio parere, che dilungarsi.
Il cortigiano sia sempre rispettoso e attento ad ogni necessità del suo Signore. Soddisfi
ogni sua richiesta, eccetto quelle che portino con sé vizi; anzi cerchi di correggerli e se non
dovesse notare ravvedimenti, abbandoni anche il suo incarico. Ludovico di Canossa
ammette perciò, il diritto di critica del cortigiano.
Ciò soltanto per rispettare lo scopo principale del suo incarico: preservare l’onorabilità
pubblica del Signore. Perciò, manifesti pure il suo disaccordo e a volte agisca di nascosto,