Introduzione
6
assumere il punto di vista di coloro che sostengono o scherniscono la
validità della pena di morte.
Le argomentazioni che adducono gli oppositori della pena di morte è che
essa non costituisce un deterrente efficace nei confronti dei crimini più
gravi, che nella prevenzione del crimine costituiscono misure più valide
pene alternative quali l’ergastolo o comunque una lunga detenzione e che,
soprattutto, conta più la certezza della pena che il suo rigore. Senza contare
che, a causa di errori giudiziari, ipotesi da tenere sempre bene in
considerazione, potrebbe essere giustiziato un innocente.
I fautori della condanna capitale sostengono che il sangue si lava col sangue,
che la morte è il castigo adeguato per i criminali più sanguinari e che la pena
di morte aiuta la prevenzione del crimine, rendendo più sicura la vita dei
cittadini virtuosi.
L’attenzione viene poi rivolta alla condizione attuale del mondo,
presentando brevemente le situazioni dei diversi continenti rispetto alla pena
capitale e mostrando l’atteggiamento che ha avuto nei secoli la Chiesa. Il
capitolo si conclude con la presentazione degli attuali metodi di esecuzione.
Nel terzo capitolo la questione della pena di morte è inserita in un contesto
più ampio; si analizzano infatti gli effetti e soprattutto l’attuale impegno dei
diversi mezzi di comunicazione nella lotta all’abolizione della pena
capitale.
Nel quarto ed ultimo capitolo vengono esposti i principali casi mediatici
come quello di Safyia Hussaini, Amina Lawal e Rocco D.Barnabei, nomi a
cui viene associato un volto ed una voce grazie all’aiuto dei mezzi di
comunicazione.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
7
CAPITOLO I
Gli Intellettuali e la Pena di Morte
1.1 Il Pensiero degli Intellettuali dal Cinquecento al Settecento.
Moltissimi sono stati gli intellettuali che hanno affrontato nelle loro opere
il tema della pena di morte dai più disparati punti di vista: da quello
religioso a quello storico, filosofico, sociale e politico; da quello
dell’abolizione totale a quello dell’abolizione parziale; dall’uso “politico”
che bisogna saper fare della pena di morte al suo sfruttamento come mezzo
di propaganda.
Il periodo che va dal Cinquecento al Settecento, rappresenta uno dei
momenti più fiorenti in tal senso, infatti appartengono proprio a questi
secoli numerosi scritti, pubblicati non solo in latino, ma anche in lingua
volgare, che coinvolgono un pubblico “non solo accademico”, consentendo
agli autori di questo periodo di avere dei seguaci impegnati ed interessati
alla problematica della pena capitale.
Tommaso Moro
1
è il primo scrittore, nel Cinquecento, che prende posizione
contro la pena di morte partendo da un presupposto cristiano e tenendo
presenti le condizioni sociali nelle quali il delitto nasce e si sviluppa. La sua
è una presa di posizione razionalmente lineare e coerente: si può ammettere
la validità del principio “non uccidere” come superiore e trascendente
l’uomo, ed in questo caso la pena di morte non potrà mai essere inflitta; per
contro si può ammettere che la legge umana possa, in certi casi, derogare
1
Nato il 1477 e morto il 1535.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
8
alla Legge Divina ed allora non c’è più alcun limite e nessuno ostacolo,
perché tale deroga sarà sempre ottenuta ogni qualvolta la società la ritenesse
necessaria. Questo ragionamento ha un suo fondamento etico, trascendente e
spirituale che si sviluppa nell’asserire che la società non può togliere la vita,
perchè della vita nessuno (né l’individuo né la società) ha la disponibilità.
Tutto il discorso di Moro contro la pena di morte parte da questo
convincimento profondo e da questa base umanisticamente cristiana: “ogni
uccisione disposta ed ordinata dalla legge umana diventa un assassinio,
perchè viola il precetto divino”
2
.
Con queste parole egli analizza e commenta tutta l’enormità e l’inutilità
delle pene che vengono applicate per ogni reato.
Moro non crede nella pena in quanto tale, ma è un fervente sostenitore del
suo scopo educativo asserendo che non bisogna distruggere una vita umana,
ma “forzarla” a diventare buona ed a risarcire con il lavoro il danno
arrecato.
Su questa strada l’autore traccia le linee di un sistema penale che ha come
ulteriore principio la rieducazione del ladro mediante l’impiego di lavori di
utilità sociale. Dunque proprio quest’ultimo principio, sorretto da quello del
precetto Divino, costituirà la base intorno a cui si discuterà per negare allo
Stato il diritto di uccidere. Infatti unicamente con questa “utopica”
prospettiva vedrà la luce un uomo nuovo – pacifico, tollerante, lavoratore –
che vivrà in una società dove l’educazione generale sarà obbligatoria,
esisterà l’uguaglianza tra i sessi, l’economia verrà pianificata; in questa
prospettiva la pena di morte non potrà più esistere.
Se Moro con l’Utopia critica soprattutto la condanna a morte dei ladri,
Sebastian Castellion
3
con i suoi “Libelli” mette in discussione la legittimità
della pena di morte inflitta agli eretici da parte dei protestanti affermando
che ucciderli con un processo è come assassinarli per mandato, usando il
giudice come mandante. L’autore sostiene inoltre che gli eretici non bisogna
2
MORO T., L’Utopia e la miglior forma di repubblica, traduzione di Tommaso Fiore,
1963.
3
Nato il 1515 e morto il 1563.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
9
bruciarli se non si vuole andare contro lo spirito della Scrittura; queste sue
convinzioni attireranno numerose critiche da parte dei circoli calvinisti
dell’epoca. Infatti Teodoro Beza
4
, futuro successore di Calvino nella Chiesa
di Ginevra, confuterà ogni affermazione sostenuta da Castellion e
risponderà ad ogni obiezione, dimostrando che è giusto punire gli eretici,
che la loro condanna deve essere affidata ad un magistrato civile e che la
pena di morte è sacrosanta. Egli si batte per lo “Ius Gladii”, ovvero per il
diritto di uccidere visto come una necessità assoluta contro le insidie
disgregatrici degli eretici.
Contemporaneamente Castellion non demorde e continua a scrivere
opuscoli e libri in cui sono compendiate e riassunte tutte le ragioni per cui
non deve essere assolutamente usata la pena di morte verso gli eretici
5
. Egli
dimostra come Cristo non abbia mai avuto dei subordinati che
combattessero per Lui, perchè Egli combatte solo con la parola. E’ questa la
Sua arma; invece i calvinisti vogliono discutere di religione con la spada.
Con gli scritti di Castellion e con le numerose opere dei suoi sostenitori,
verrà negato alla Chiesa il diritto di servirsi della pena di morte per
difendere o diffondere il suo messaggio.
I principi di Moro e degli eretici radicali invece saranno fondamentali
perchè costringeranno “l’ufficialità”
6
al dibattito, alla spiegazione ed al
confronto mettendo in primo piano il diritto naturale umano – inteso come
legge del più forte - ed in particolare sarà De Castro
7
nel “De potestate
legis poenalis” a parlare della capacità punitiva dello Stato, insita nella forza
che ad esso è propria. Per l’autore, lo Stato è custode e garante di quel
4
Nato il 1519 e morto il 1605.
5
CASTELLION, Fede, Dubbio e Tolleranza, p. 118 “ ... questa sfrenatezza nel giudicare
che oggi imperversa e riempie tutto il mondo di sangue mi ha spinto ... a tentare di
arrestare tale sangue con tutte le mie forze; specialmente quello spargendo il quale non si
può più facilmente peccare, il sangue cioè di coloro che sono detti eretici. Nome oggi reso
così infame, così odioso, così nero, che se qualcuno vuole uccidere il suo nemico non ha
una via più spedita che accusarlo di eresia. Appena la gente sente questo nome, per questo
solo nome odia senza voler sentire nulla in sua difesa. Ma l’eretico non è un uomo che
bisogna uccidere, ma piuttosto convincere con la parola e con l’esempio. Nel regno di
Cristo non si usa la spada. L’arma di Cristo è la parola ...”.
6
Intesa come potere Temporale e Spirituale.
7
Nato il 1492 e morto il 1558.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
10
“corpo” organico che è la società, per cui non solo potrà separare da sé il
membro putrido ed irrecuperabile, ma potrà stabilire la pena di morte anche
nei casi non previsti dalla legge mosaica
8
, perchè ciò gli deriva dal diritto di
natura; è quindi opportuno stabilire la pena di morte contro gli
incorreggibili. Questa è la tesi “laica” dell’opportunità politica rivestita dal
carisma della legittimità. De Castro nel suo libro afferma che l’individuo
non può andare contro il precetto divino “non uccidere”, ma ammette che il
giudice possa farlo quando la legge glielo comanda a seconda delle
opportunità.
La teoria del diritto naturale umano, come unico criterio per giustificare
l’opportunità politica della pena, in genere, e di quella di morte, in
particolare, se era servita a De Castro per dare una propria autonomia al
potere laico, servirà in seguito anche alle correnti giusnaturalistiche,
cattoliche e protestanti, per conferire al prìncipe
9
una nuova legittimità.
Infatti, fare del diritto naturale il criterio ispiratore della legislazione, e
porre il prìncipe come il centro propulsore di tale attività, gioverà non solo
per separare il diritto dalla morale, ma varrà anche a conferire al prìncipe
una nuova investitura “laica” che avrà come leva operativa il criterio di
opportunità.
Con la teoria dell’opportunità politica, infatti, la pena di morte cessa di
essere una pena inderogabile e diventa uno strumento che il prìncipe può
usare o no, a seconda dei casi, delle situazioni e degli individui coinvolti.
Tutto ciò crea alla pena di morte una nuova legittimità non più attribuita
all’imprescrutabile volontà divina, ma più “laicamente”, al volere del
prìncipe, al “criterio generale” dell’utilità e della prudenza politica, alla
giusta proporzione fra i delitti.
8
L’autore si riferisce in particolare al quinto Comandamento.
9
Questo aspetto ricorda fortemente Nicolò Machiavelli (Firenze 1469 – 1527) ne “Il
Principe” del 1513. In questa opera il Machiavelli proclama di voler guardare alla “verità
effettuale della cosa” e non alla “immaginazione di essa”, quindi non propone al Principe le
virtù morali, ma quei mezzi che possono consentirgli effettivamente la conquista ed il
mantenimento dello Stato, e, con coraggiosa spregiudicatezza, arriva a consigliargli di
essere anche non buono, crudele, mentitore, dissimulatore, quando le esigenze dello Stato
lo impongano.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
11
Così la teoria che si fonda sulla legge del taglione
10
che vede la pena di
morte come inderogabile, e quella dei “radicali”che, basandosi sul precetto
non uccidere, la dichiara illegittima, sorge questa terza soluzione, che al
momento non porterà nessuna innovazione – la pena di morte resta sempre
fissata – ma metterà i prìncipi in condizioni di poterla usare o meno, a
seconda dell’ opportunità politica.
A questo punto è necessario ricordare come dal Cinquecento al Settecento il
diritto penale diventi un insegnamento autonomo ed abbia pertanto una sua
dignità accademica, ma anche un proprio peso politico per i “maestri” di
gran prestigio che la occupano. Proprio questi ultimi hanno elaborato la
teoria del diritto penale teorizzante, della pena come ricompensa, ma
soprattutto come esempio per tutti, essi sono coloro che hanno costruito il
sistema penale che poi l’Europa ha sempre seguito.
Accanto a loro esiste però anche un’altra scuola (che fa capo ad Alciato
11
),
dove il diritto penale e la pena di morte sono visti in una prospettiva diversa.
Mentre i “maestri” non ammettono e non possono non ammettere che la
scala penale non finisca sempre sul palco del patibolo e pensano questo per
una concezione pessimistica sull’uomo che è propria di tale mentalità:
“siamo tutti figli di Caino”; altri, come l’Alciato, sono per l’abolizione della
pena di morte, che vogliono sostituita con l’ergastolo ed i lavori forzati,
perchè sono pene più utili e più esemplari per la collettività.
Anche gli uomini politici in questo periodo, si interessano di diritto penale
attraverso i loro saggi, le loro relazioni ed i loro commentari; in ciascuna di
queste opere la pena di morte è trattata come un ‘instrumentum regni’ che
bisogna saper impiegare con prudenza, secondo l’opportunità politica del
momento, quale può risultare dagli interessi del prìncipe e dalla natura dei
popoli che si governano. Ulteriormente la funzione della pena di morte è
anche quella di essere un esempio ammonitore per gli altri, ciò nonostante
10
Nel diritto dei popoli antichi di civiltà meno progredita, il taglione era una pena che
consisteva nell’infliggere all’autore di una lesione personale un’uguale lesione: la legge del
taglione.
11
Nato il 1492 e morto il 1550.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
12
anche quando c’è bisogno di esempio, il prìncipe deve essere abile nel far
credere che la crudeltà venga usata per necessità e salute pubblica.
Di mantenere il terrore, invece, Montaigne
12
non ne sente la necessità,
difatti, la sua critica contro la pena di morte è aspra e senza attenuanti; egli è
soprattutto contro i supplizi atroci che vengono inflitti con la pena capitale
ed è sostenitore dei mezzi più dolci.
Anche per Botero
13
le pene non devono mai essere crudeli perchè altrimenti
perdono di efficacia, è importante però che siano proporzionate al delitto .
Questo è similmente il parere di Boccalini
14
, uno dei più grandi scrittori del
XVII secolo. Egli non crede assolutamente nei “mezzi forti” e giudica
“animali quei governatori che credono di poter raddrizzare il mondo con le
berline, con le forche e con le mannaie”.
15
L’autore considera “bestioni” i
governatori di provincia che si pavoneggiano ostentando terrore e sostiene
la necessità di escluderli dal governo.
Boccalini è forse lo scrittore del Seicento che è più attratto e nello stesso
tempo respinto dal “volto demoniaco” del potere.
Tutto il suo pensiero oscilla tra due polarità: per quanto riguarda i reati,
individua da un lato i reati comuni e non frequenti, dall’altro i reati contro lo
Stato che dovrebbero essere giudicati o da un giudice moderno che si batte
per delle pene certe o da un uomo politico che si preoccupa che non resti
senza esempio il delitto che può interessare il Prìncipe. Il tutto si chiude con
una doppia preoccupazione, la prima riguarda il reo che deve essere
“curato” per il proprio delitto, la seconda, più propriamente politica, guarda
unicamente ogni reato in vista dei risultati politici.
E’ evidente come il Boccalini, data la complessità del suo pensiero, affermi
che la pena di morte è una pena che bisogna far eseguire solo dopo che sia
stato valutato esattamente ogni caso, consigliando al prìncipe di non essere
12
Nato il 1533 e morto il 1592.
13
Nato il 1544 e morto il 1617.
14
Nato il 1556 e morto il 1613.
15
BOCCALINI T., Ragguagli di Parnaso, 1910, Cap. I, p. 151.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
13
mai autore di sentenze crudeli senza una valida motivazione perchè, quando
ce n’è bisogno, lo Stato può sempre intervenire con azioni crudeli.
In questo continuo oscillare tra due poli opposti, l’unico criterio che resta
immutabile in Boccalini – come negli altri scrittori di questo periodo – è
quello dell’utile e dell’opportunità che il prìncipe deve sempre seguire, e
che si trasforma poi in normativa rinnegante, mediante la quale il prìncipe
può sempre erigersi ad arbitro.
Boccalini per ultimo, ed in precedenza gli altri scrittori e teologi, cattolici e
protestanti (ad eccezione di Moro), hanno giustificato la morte come pena
adducendo come necessaria la difesa del bene comune. Infatti,
identificando per analogia la società umana con un “grande corpo” che ha
diritto, per la sua autodifesa ed il suo mantenimento, ad eliminare le parti
marce ed inefficienti, era stato escogitato, per questa ipotesi, un certo
fondamento razionale sostenibile.
Tale processo di razionalizzazione della pena di morte è evidente come sia,
nella sua sostanza, profondamente anticristiano, e risponda ad una logica di
potere, più che ad un’esigenza di giustizia.
E’ quanto dirà alla fine del Seicento, un grande matematico e filosofo
cristiano, Blaise Pascal
16
nei suoi Pensieri
17
. In questa opera egli sostiene
che alla violenza non si può opporre violenza, perchè si entrerebbe in un
circolo vizioso; il male infatti non può essere combattuto con altro male, ma
soltanto con il bene. Con questa soluzione tipicamente cristiana, si
incomincia ad analizzare il problema nel suo possibile sviluppo di civiltà.
16
Nato il 1623 e morto il 1662.
17
PASCAL B., Pensieri , traduzione, introduzione e note di P. Serini, 1962.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
14
1.2 Cesare Beccaria: “Dei delitti e delle pene”.
Nel Settecento, non si può parlare della pena di morte senza iniziare il
discorso da Cesare Beccaria
18
e dal suo trattato “Dei delitti e delle pene”
19
. La somma opera diviene, ben presto, il simbolo di una battaglia
ideologica in cui si riconosce senza esitazione l’ala più avanzata
dell’intelligenza europea; essa fu accolta con grande successo in tutto il
continente europeo, ricevendo le lodi dei massimi pensatori dell’epoca.
Il fine, che il Beccaria si è preposto nello scrivere il trattato, era quello di
sottolineare i difetti delle legislazioni giudiziarie a lui contemporanee, e,
nello stesso tempo, di avanzare delle possibili soluzioni per porre rimedio
alle lacune e alle ingiustizie dei vari sistemi penali.
Influenzato dalle teorie esposte da Jean Jacques Rousseau nel suo Contratto
sociale
20
, ed ammiratore del pensiero del filosofo inglese John Locke
21
, nel
breve trattato Beccaria parte dal concetto della convivenza comune: gli
uomini, sostiene, hanno sacrificato una parte delle loro libertà, accettando di
vivere secondo le regole della comunità, in cambio di una maggiore
sicurezza e di una maggiore utilità.
L’autorità dello Stato e delle leggi è quindi da considerarsi legittima finché
non oltrepassi certi limiti accettati dai governati in nome del bene comune.
18
Nato il 1738 e morto il 1794.
19
BECCARIA C., Dei delitti e delle pene,1764.
20
Con il Contratto sociale (1762), Rousseau delineò un modello di convivenza politica
entro il quale l'individuo, obbedendo alla legge, non cessava però di essere libero. Ciò è
possibile nella misura in cui la legge, anziché essere espressione dell'arbitrio di un sovrano
assoluto, esprime invece la volontà generale: obbedendo ad essa, ciascun individuo
obbedisce a se stesso, poiché, secondo Rousseau, nella volontà generale, che ha come suo
scopo l'interesse sovraindividuale della collettività, l'io di ciascuno si identifica con l'io di
tutti.
21
John Locke, “la legge di natura insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla,
che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l'altro nella vita, nella
salute, nella libertà e nella proprietà". Locke sostiene che l’origine dello Stato è un
contratto e delinea un modello di convivenza civile che assegna ad esso, in una prospettiva
liberale, il compito di salvaguardare tutti i diritti naturali dei cittadini, (Due trattati sul
governo, 1960).
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
15
Citando direttamente Montesquieu
22
, l’autore ripete come ogni punizione
che non derivi dall’assoluta necessità, sia tirannica. Il sovrano ha infatti il
diritto di punire, ma tale diritto è fondato sull’esigenza di tutelare la libertà
ed il benessere pubblici dalle “usurpazioni particolari”: nessun arbitrio deve
essere perpetrato poiché nel decidere l’entità della pena l’unico criterio da
seguire è “l’utile sociale”.
Partendo da questa premessa, le proposte cardine avanzate dal filosofo sono
le seguenti: una decisa battaglia contro l’oscurità delle leggi, perché questa
conduce ad una varietà di interpretazioni, spesso arbitrarie, che favoriscono
gli abusi; la necessità di rendere pubblici i giudizi, per non dar adito a
sospetti di ingiustizia e tirannide, e la necessità di estirpare il sistema delle
denuncie anonime, pratica che alimenta i riprovevoli istinti della vendetta e
del tradimento; infine l’opposizione netta alla tortura e alla pena di morte.
Attraverso una dettagliata analisi, il Beccaria nota come la tortura, oltre ad
essere una pratica disumana, non garantisca l’emergere della verità, poiché
davanti al dolore fisico chiunque sarebbe disposto a confessare qualsiasi
delitto. Inoltre, riprendendo il principio esposto nei primi capitoli della sua
opera, secondo cui il diritto di punire non deve andare oltre la necessità di
tutelare i cittadini dagli elementi più pericolosi, egli afferma, con profonda
convinzione, che non è giusto accanirsi sugli accusati prima di aver provato
la loro colpevolezza. Se torturare è disumano, riguardo la pena di morte, lo
22
Nel 1748 Montesquieu pubblica "Lo spirito delle leggi", in cui riprende le tesi di Locke
sulla divisione dei poteri dichiarando che il governo repubblicano non è adatto alla Francia.
In questo fondamentale testo di teoria della politica, Montesquieu, esamina le tre principali
forme di governo: repubblica, monarchia e dispotismo; e le leggi che ne regolano il
funzionamento, ponendole in relazione con le condizioni climatiche, geografiche ed
economiche del territorio e con gli usi e i costumi dei differenti popoli. Da questa analisi
emerge un modello di stato ideale, basato sulla separazione tra i poteri legislativo, esecutivo
e giudiziario, che costituisce uno dei cardini del pensiero liberale moderno. Montesquieu
nello Spirito delle leggi inserì il dispotismo tra le tre forme principali di governo, insieme a
monarchia e repubblica. A suo parere il dispotismo era il governo "della paura", in cui una
sola persona esercitava il potere in base alla sua volontà ed ai suoi capricci, senza alcuna
sorta di limiti. A questo significato del termine si è progressivamente sostituito, fra XVIII e
XIX secolo, un utilizzo della nozione in chiave polemica; sul finire del XVIII secolo,
infatti, l'aggettivo dispotico venne impiegato per giudicare e criticare le forme di governo e
le prassi politiche contraddistinte dall'arbitrarietà che violavano i diritti naturali degli
individui.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
16
scrittore sostiene che va abolita nella quasi totalità dei casi poiché essa fa
venir meno lo spirito del contratto sociale (nessun uomo è disposto a dare la
propria vita in nome della convivenza comunitaria), e perché non è un
deterrente efficace contro la criminalità. Secondo Beccaria spaventa più
l’idea di una lunga pena detentiva che non l’idea di una pena durissima, ma
istantanea; ragion per cui Beccaria propone, sostiene ed esalta l’ergastolo,
che esamina sotto diversi aspetti, dimostrando che è una pena preferibile a
quella di morte, non perchè più “dolce” ma, al contrario, proprio perchè è
più “bestiale”, di maggiore durata e serve di più come esempio
23
.
L’ergastolo è ben più crudele della morte perchè è più molesto, più tedioso,
più lungo da scontare. Con l’ergastolo la pena viene “rateizzata”, distribuita
nel tempo e non condensata in un momento; è proprio in questo che sta la
sua forza ammonitrice.
Lo scrittore sostiene inoltre l’importanza che la pena segua in tempi brevi il
reato commesso, per non lasciare l’indiziato nell’incertezza riguardo la sua
sorte e per imprimere nella mente dei cittadini la consequenzialità di colpa e
pena.
Altri due principi fondamentali ed innovatori del trattato, sono l’attribuzione
di un carattere laico alla pena e l’importanza della prevenzione dei delitti.
Beccaria separa nettamente la nozione di peccato da quella di crimine, la
punizione per essere venuti meno alle leggi non ha niente a che spartire con
l’espiazione di un peccato nel senso cristiano: la pena assegnata dall’autorità
giudiziaria è solo un mezzo per impedire che avvengano o si ripetano
determinate violazioni. Ma soprattutto è importante cercare di prevenire i
crimini, educando alla legalità; bisogna fare in modo che le leggi siano
chiare e facili da comprendere per tutti, che siano quindi rispettate e temute.
23
BECCARIA C., op. cit , “... Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di
uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che divenuto
bestia da servigio, ricompensa con le sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno
più forte contro i delitti. Quell’efficace, perchè spessissimo ripetuto ritorno sopra noi
medesimi: ‘io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione, se commetterò simili
misfatti’ è assai più possente, che non l’idea della morte, che gli uomini veggono sempre in
un oscura lontananza”.
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
17
In definitiva, lo scopo della pena è fare in modo che un danno commesso nei
confronti della società non si ripeta e, di scoraggiarne altri: la pena non è
più, nella visione di Beccaria, uno strumento per “raddoppiare con altro
male il male prodotto dal delitto commesso”, ma uno strumento per
impedire che al male già arrecato se ne aggiunga altro ad opera dello stesso
criminale o ad opera di altri che dalla sua impunità potrebbero essere
incoraggiati.
La fredda razionalità del pensatore milanese è il filo conduttore di tutta
l’opera: le sue considerazioni tengono sempre presente quella che è l’utilità
pratica dei provvedimenti presi o da prendere, resta ben poco spazio a
considerazioni di ordine morale, come ben evidenzia la posizione
dell’autore nei confronti della pena di morte. Questa va abolita perché non
consegue gli scopi prefissi: la sua crudeltà, la sua irreparabilità sono
marginali, tanto è vero che Beccaria nel suo trattato indica anche delle
eccezioni nelle quali il ricorso alla pena capitale è ammissibile, dichiarando
la pena di morte “giusta” e “necessaria” per quei delitti che possono recare
un turbamento “alla forma di governo stabilita”
24
.
Il filosofo ammette la pena di morte non solo nel caso di attentati alla
sicurezza della nazione, ma anche nell’ipotesi che fosse necessario dare un
esempio ricordando il principio dell’esemplarità della pena che viene
riconosciuto ed ammesso, così come avevano fatto gli scrittori del
Cinquecento.
Questo tipo di atteggiamento ha attirato qualche critica al trattato in tempi
recenti poiché il calcolo utilitaristico dei vantaggi e degli svantaggi delle
pene non deve essere la sola base dei sistemi penali, ma in essi deve trovar
posto il rispetto della persona umana, riferendosi universalmente a quei
diritti inviolabili dell’uomo che ancora oggi molto fanno dibattere.
24
BECCARIA C., op. cit., “... La morte di un cittadino non può credersi necessaria che
per due motivi. Il primo, quando, anche privo di libertà, egli abbia ancor tali reazioni e tal
potenza, che interessi la sicurezza della nazione: quando la sua esistenza possa produrre
una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino
diviene dunque necessaria quando la nazione recupera o perde la sua libertà, o nel tempo
dell’anarchia, quando i disordini stessi tengono luogo di leggi” (XXVIII).
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
18
Va però detto che se è possibile ravvisare prese di posizione discutibili in
alcune pagine de “Dei delitti e delle pene” in altre Beccaria sottolinea come
l’imputato debba essere sempre considerato “persona” e non cosa e come
non possa esistere libertà laddove questo principio non venga rispettato.
Malgrado alcune affermazioni criticabili agli occhi contemporanei, l’opera
di Cesare Beccaria resta un passo avanti fondamentale nella storia dello
sviluppo civile del mondo occidentale: sia per il successo che ebbe (dalla
Russia di Caterina II che voleva l’illuminista tra i suoi consiglieri, agli Stati
Uniti di Jefferson), tale da smuovere le coscienze su argomenti basilari per
la formazione di una società giusta e democratica, sia per l’utilità pratica che
dimostrò visto che molte delle misure auspicate nel trattato vennero
effettivamente messe in pratica in diversi stati.
Nel giro di pochi anni il suo libro fu tradotto e stampato, non solo più volte
in Francia, ma anche in Inghilterra, in Germania, in Austria, in Spagna, in
Svezia ecc...
Tutti ne parlano e ne discutono, le accademie ed i circoli di cultura, i
philosophes e gli uomini di toga; gli stessi prìncipi si mostrano ben disposti
ed ammirano quanto il marchese ha scritto.
Esiste un trasporto entusiasta grazie al quale il problema penale diventa
subito di attualità, esce dalle secche dell’Accademia, e diventa un problema
centrale la cui soluzione non può essere affidata solo ai “tecnici”.
Uno dei meriti di Beccaria è proprio quello di aver fatto conoscere in quale
stato si trovava il diritto penale, l’autore non è un giurista, un tecnico, un
“addetto ai lavori”, ma un filosofo ed un grande retore che ha saputo trovare
il tono giusto, quasi rivoluzionario, per esprimere le idee che altri avevano
già formulato.
In breve, egli ha parlato di spirito umanitario e di dolcezza delle pene, ma è
stato anche l’inventore dell’ergastolo come omicidio al rallentatore; ha
parlato e si è scagliato contro la pena di morte, usando delle parole
nobilissime, ma successivamente ha riconosciuto al sovrano e alla società il
diritto di uccidere. Inoltre ha affrontato il tema del contratto sociale, ma ha
Capitolo I: “Gli Intellettuali e la Pena di Morte”.
19
dimostrato come anche in base a questo, la pena di morte è illegittima; ha
parlato di processi rapidi, di certezza delle pene, di principio di legalità –
come da sempre ne avevano parlato tutti i giuristi – ma ha escogitato il
modo di far rientrare l’ “arbitrium plenum” del prìncipe o della società.
Il Beccaria dunque, ha saputo trovare una nuova soluzione ideologica, con
cui tutto si può giustificare: l’utile sociale, di cui il prìncipe è il supremo
interprete.