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CAPITOLO PRIMO
LA CAMPAGNA PUBBLICITARIA
1.1 Definire una campagna pubblicitaria
L’assioma della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Beavin &
Jackson, 1971) afferma che non si può non comunicare, ciò significa che
non si può non comportarsi (il comportamento non ha un suo opposto) e
quindi, dato un contesto, che non si può non influenzare e non essere
influenzati: ogni comportamento è comunicazione e ogni comunicazione ha
effetti pragmatici. L’influenzamento, intenzionale o meno, non può non
esserci e una delle più conosciute modalità di comunicazione, e quindi di
influenzamento, utilizzate dall'uomo è la pubblicità, che esiste da quando
esiste l’uomo (Mancini, Russo, Bellotto, 2010). Essa fa parte della nostra
vita quotidiana e, a differenza di altri generi veicolati dai mass media,
appare accessibile con facilità a tutti. È invece doveroso sottolineare che la
pubblicità è un fenomeno complesso e multidimensionale (Fabris, 1996).
L’art. 2 del D. Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 definisce la pubblicità come
qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo,
nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o
professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o
immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti e obblighi su di essi
oppure la prestazione di opere o di servizi.
Questa è stata la prima definizione di pubblicità data da un testo
legislativo e, nonostante ciò, risulta comunque difficile accettarla come
univoca e definitiva in quanto ‹‹la pubblicità è una tecnica
multidisciplinare che sfrutta la comunicazione persuasiva e seduttiva, al
fine di promuovere i consumi›› (Punzo, 2008, p.7). Essa può essere
considerata una forma di comunicazione interpersonale, diffusa attraverso
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diversi media da soggetti economici facilmente identificabili e tesa ad
influenzare il comportamento del singolo nei confronti dei prodotti
(Mancini et al., 2010).
La pubblicità si può quindi definire come una forma di comunicazione
unilaterale (Fabris, 1997), impersonale e prevalentemente persuasoria,
diffusa mediante qualsiasi mezzo da una fonte che dovrebbe risultare
chiaramente esplicita al fine di influenzare il comportamento del singolo nei
confronti di prodotti, beni o servizi.
Le diverse modalità con cui l’influenzamento viene perseguito possono
risultare più o meno coerenti con ciò che la nostra cultura ritiene giusto,
legittimo o accettabile. I modi con cui gli essere umani si influenzano sono
molteplici: la coercizione, la richiesta, la negoziazione, il condizionamento
(classico piuttosto che operante), l’esempio e molti altri ancora. In
riferimento alla comunicazione pubblicitaria, le modalità di influenzamento
prevalentemente adottate sono l’informazione, la persuasione e la
seduzione.
L’informazione fornita dalla comunicazione pubblicitaria può dire
qualcosa sulle caratteristiche di un prodotto, sulla sua distribuzione, sul suo
prezzo, sulle sue funzioni d’uso, o su un qualsiasi aspetto prima
sconosciuto, e ciò può indurre l’individuo a comportarsi in modo diverso
rispetto a come si sarebbe comportato senza quell’informazione, poiché
essa concorre a costruire un sistema di conoscenze di cui tener conto per
orientare il comportamento.
Persuadere significa indurre il proprio interlocutore a modificare
consapevolmente la propria opinione alla luce di un argomento
convincente. Il termine persuasione può assumere due significati ed il primo
fa appello alla razionalità, e presuppone un interlocutore ragionevole,
disposto a mettere in discussione la propria opinione, e se persuaso, ad
adottare quella nuova. Il secondo significato del termine prescinde dall’idea
di verità (assoluta piuttosto che scientifica) e presuppone la fallacia, i limiti
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e la soggettività dei ragionamenti umani. L’argomento è persuasivo non
perché mostra la verità alla luce della ragione, ma perché consente al
persuasore di far prevalere le proprie ragioni su quelle dell’altro.
La seduzione, nella comunicazione pubblicitaria, è una modalità di
influenzamento che fa appello non tanto alla ragione o ai processi cognitivi
del consumatore, come nel caso della persuasione, quanto alle sue
emozioni, alle sue dinamiche affettive e relazionali, al suo desiderio di
confermare la propria identità personale e sociale e si afferma quando
sembra che l’acquisto di prodotti o servizi avvenga non tanto per il loro
valore d’uso, quanto per il significato che ad essi viene attribuito da parte di
un soggetto interessato a manifestare la propria immagine, o a comunicare
la propria appartenenza ai gruppi sociali di riferimento (Mancini et al.,
2010).
1.2 Atteggiamento e pubblicità
Gli atteggiamenti sono stati da sempre l’ambito elettivo di indagine per
gli studiosi della persuasione. Si ritiene che l’emissione dello stimolo (in
questo caso un messaggio) influenzi gli atteggiamenti; che vi sia una
elevata correlazione tra atteggiamenti e comportamenti; che l’atteggiamento
rappresenti quindi un importante antecedente determinante all’azione.
Saranno gli atteggiamenti a determinare il successo o l’insuccesso di una
campagna pubblicitaria: un loro favorevole orientamento verso il prodotto,
o verso la pubblicità, creerà le premesse per una risposta favorevole.
Risposta che, nel caso della pubblicità, significa una predisposizione
all’acquisto del bene pubblicizzato (Fabris, 1996).
Il concetto di “atteggiamento” ha raccolto l’interesse di studiosi e
psicologi già dagli anni Trenta negli Stati Uniti in occasione dei numerosi
studi sulla previsione dei comportamenti degli elettori americani (Mancini
et al., 2010). L’importanza attribuita a questo concetto trae origine dalla
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convinzione che i comportamenti umani siano strettamente influenzati dagli
atteggiamenti delle persone, teorizzata da Fishbein e Ajzen (1975) nel loro
Modello dell’Azione Ragionata.
Lo studio degli atteggiamenti in campo pubblicitario è legato all’esigenza
di prevedere comportamenti di acquisto e all’esigenza di studiare le
capacità di cambiamento che la stessa pubblicità ha sui suoi spettatori
(Mancini et al., 2010).
Joyce (1980) osserva che nel contesto della pubblicità potremo riferirci
agli atteggiamenti come al sistema di credenze, associazioni, immagini e
ricordi concernenti la marca.
La conoscenza degli atteggiamenti del consumatore rappresenta per
l’impresa, e per chi deve influenzare i suoi comportamenti, un prezioso
patrimonio: significa infatti poter predire i consumi futuri, conoscere i punti
di forza e di debolezza di una marca, indirizzarsi verso quegli atteggiamenti
che appaiono critici o più significativi ai fini della decisione di acquisto
(Fabris, 1996).
Al fine di spingere un consumatore ad acquistare un particolare prodotto,
la pubblicità cerca di influenzare l’atteggiamento nei confronti di quel
prodotto attraverso la costruzione di un’immagine positiva del prodotto
stesso o attraverso la comunicazione dell’esperienza che tale prodotto
promette al consumatore (Mancini et al., 2010).
Harris (2004, p.95) scrive che ‹‹tutte le forme di pubblicità hanno il
compito di modificare la realtà percepita dai consumatori›› e tale processo
passa necessariamente attraverso il tentativo di cambiare gli atteggiamenti
dei consumatori.
Per comprendere la modalità in cui avviene il cambiamento degli
atteggiamenti è importante considerare il Modello Tripartito di Rosenberg e
Hovland (1960) sulla struttura degli atteggiamenti. Essi descrivono gli
atteggiamenti come formati da tre diverse componenti: cognitiva, affettiva e
conativa.
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La dimensione cognitiva è relativa all’insieme delle opinioni e delle
credenze rispetto a una situazione o ad un oggetto, che nell’ambito dei
consumi si riferisce alle informazioni che l’individuo dispone su un
prodotto o su una marca (“la Lancia ha un nuovo tipo di macchina”); quella
affettiva o sentimentale, è relativa alla percezione degli attributi del
prodotto in riferimento al grado di piacevolezza o di rifiuto (“preferisco
volare con la Swiss Air”, “fumare è dannoso”); mentre la dimensione
conativa o comportamentale, riflette l’intenzione comportamentale che
l’individuo mette in pratica rispetto all’oggetto o alla situazione, ad esempio
l’acquisto del prodotto. Non significa però che si determinerà
necessariamente un comportamento, ma che vi sono probabilità che si
verifichi se dovesse manifestarsene l’opportunità (“la prossima volta volerò
con Alitalia”) (Fabris, 1996; Mancini et al., 2010).
Lo studio del cambiamento degli atteggiamenti è altrettanto ricco di
riflessioni e di ricerche. Già negli anni Cinquanta Hovland e la scuola di
Yale avevano proposto una serie di studi per identificare gli elementi del
messaggio capaci di determinare un cambiamento degli atteggiamenti: dal
valore e il prestigio della fonte alle caratteristiche del messaggio, dalla
capacità persuasiva dell’argomento alla suggestionabilità del soggetto
(Hovland, Janis & Kelley, 1953; Hovland & Weiss, 1951).
Secondo Du Plessis (2008) la maggior parte dell’apprendimento del
messaggio pubblicitario avviene inconsapevolmente. Le emozioni legate ad
una pubblicità non sono l’esito di un processo attentivo particolare:
l’attenzione è conseguenza di un’attivazione affettiva o di un’emozione che
possono essere determinate anche da elementi periferici, ovvero stimoli che
possono determinare attrazione senza che vi sia un’approfondita
valutazione cognitiva (Petty & Cacioppo, 1986a, 1986b).
Uno dei contributi più significativi in questo campo è stato l’Elaboration
Likelihood Model (ELM) di Petty e Cacioppo (1981,1986a, 1986b), che ha
contribuito allo studio della pubblicità andando oltre la descrizione del
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processo di cambiamento degli atteggiamenti come esito di una risposta
cognitiva consapevole.
1.3 Efficacia di una campagna pubblicitaria
Le pubblicità non sono rivolte al consumatore inteso come individuo
singolo, bensì, come soggetto sociale che pensa e agisce all’interno di un
contesto culturale ben definito, in cui l’utilizzo di un prodotto o l’acquisto
di un marchio forniscono modelli di riferimento capaci di soddisfare
esigenze sociali, emotive e culturali, prima ancora che funzionali.
La principale caratteristica che distingue la comunicazione pubblicitaria
da tutte le altre riguarda l’intento finale, comune a tutti i soggetti che, per
esigenze di commercializzazione o promozione di un prodotto, bene o
servizio, fanno pubblicità: rafforzare la propensione al consumo (Petruccelli
& Verrastro, 2008). La vendita futura è infatti conseguenza di una
comunicazione efficace ed efficiente.
I rilevanti oneri connessi all’investimento in comunicazione pubblicitaria
devono necessariamente indurre a una valutazione attenta dell’investimento
effettuato, e valutarne l’efficacia: è questo un concetto che risale ai primi
decenni del XX secolo e che, pur conservando nelle linee principali la
definizione invariata, ha subito notevoli cambiamenti nei modelli di
valutazione (Mancini et al., 2010).
Normalmente essa viene intesa come il grado di realizzazione degli
obiettivi pubblicitari di una campagna di comunicazione, calcolato a
posteriori sugli effetti conseguiti dalla campagna stessa (Scott & Sebastiani,
2001).
Nel tentativo di superare gli ostacoli dettati dalla complessità del tema in
oggetto è possibile suddividere quest’ultimo in due diversi livelli di
profondità di analisi:
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• la misurazione dell’effetto della pubblicità sulle vendite (rendimento della
pubblicità);
• la misurazione dell’efficacia comunicazionale.
Il primo livello di analisi, concernente gli aspetti più prettamente conativi,
viene definito attraverso le modifiche dei volumi di vendita, mentre per
quanto riguarda il secondo possibile livello entra certamente in gioco anche
un ambito affettivo. Al primo corrispondono misure dell’impact capaci di
definire il livello di conoscenza e di attenzione del consumatore per cogliere
se, come e quanto egli è stato raggiunto da un messaggio. Al secondo
corrisponde l’analisi dell’immagine per verificare se le opinioni del
consumatore sugli attributi del prodotto o del brand sono stati modificati e
in quale direzione (Mancini et al., 2010).
Molte aziende utilizzano le quote di mercato come primo criterio di
valutazione dell’efficacia pubblicitaria, poiché molto spesso il termine
viene inteso come la capacità dei costi in advertising di determinare un
aumento del fatturato (Wright-Isak, Faber & Horner, 1997).
In Italia le ricerche sull’efficacia della pubblicità, gli studi sulle premesse
teoriche e sulle metodologie da seguire, sono state e continuano ad essere
largamente ignorate: lo studioso che voglia approfondire questo settore non
troverà, in italiano, bibliografia di alcun genere. Gli industriali italiani
sembrano ancora in larga maggioranza convinti che i risultati delle vendite
siano l’unico controllo possibile circa l’efficacia di una campagna
pubblicitaria (Fabris, 1968).
Gli imprenditori sembrano ancora ben lontani dall’idea di includere nel
bilancio pubblicitario un budget per le ricerche e sembrano ben lungi dal
considerarlo uno degli investimenti necessari per rendere valide le loro
scelte (Gennaro, 1966). Con ciò, trascurano il fatto che un annuncio
“valido” può creare una predisposizione all’acquisto maggiore di un
annuncio meno efficace.
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Lucas e Britt (1965) affermano che ciò a cui si può giungere è determinare
se certi temi e certi annunci siano più efficaci di altri in relazione al ricordo,
all’interesse che suscitano, alle conseguenze, all’attrattività, alla
comprensione, ecc. Da tale genere di informazione si può desumere che i
temi che risultano suscitare maggior ricordo, essere più interessanti,
efficaci, attraenti, comprensibili, hanno maggiori probabilità di stimolare la
vendita in confronto di altri.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che gli effetti possibili non si
traducono solo in incremento di vendite e quote di mercato, ma anche in
cambiamenti di comportamento, e inoltre, che tali effetti si producono di
norma nel corso del tempo. Si può affermare che per valutare correttamente
l’efficacia pubblicitaria è fondamentale cercare di stabilire una relazione di
causalità tra i messaggi pubblicitari e gli obiettivi che la committenza si
propone di perseguire (Mancini et al., 2010).
1.3.1 Condizioni preliminari per l’efficacia di una
campagna pubblicitaria
L’esposizione ad un certo annuncio e la sua percezione vengono
generalmente indicate come le condizioni necessarie perché questo possa
manifestare la sua influenza. L’esposizione ad un annuncio è la condizione
indispensabile perché questo possa essere percepito, ricordato e convincere
all’acquisto. Per esposizione si intende una sorta di stimolazione sensoriale:
da un punto di vista pratico può essere definita dall’avere una rivista aperta
alla pagina in cui c'è un certo avviso o la radio accesa mentre viene
trasmesso un certo comunicato (Fabris, 1968).
Osgood (1953) definisce la percezione come quel complesso di variabili
che intervengono tra la stimolazione sensoriale e la consapevolezza e il cui
stato più avanzato è dato da una risposta verbale o da altre modalità di
risposta.
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La sola maniera possibile per rilevare se si è verificato un certo tipo di
percezione è valutare se si sono manifestate, nel comportamento, alcune
modifiche. Solitamente la percezione dell’annuncio viene identificata con il
suo ricordo: ciò è indubbiamente sbagliato. Un annuncio può essere
percepito e comunicare il suo messaggio, esercitando così la sua influenza,
e non essere ricordato: valutandone soltanto il ricordo si sarebbe portati
erroneamente a considerazioni sfavorevoli sulla sua efficacia.
In generale l’esposizione e la percezione rappresentano delle condizioni
preliminari, di base, perché un annuncio possa manifestare la sua efficacia
(Fabris, 1968). La misura dell’esposizione alla pubblicità è conseguente alla
misura dell’audience dei mezzi di comunicazione di massa e può essere
ottenuta in termini oggettivi. Al contrario, la misurazione della percezione
dei messaggi pubblicitari è legata alla risposta individuale (Brasini,
Tassinari & Tassinari, 1999).
1.4 Modelli dell’azione pubblicitaria
È importante, per chi cominci ad occuparsi del funzionamento della
pubblicità, indagare se esiste una sequenza di situazioni, una gradualità di
passaggi del processo persuasorio che sfocia poi in una propensione
all’acquisto (Brasini et al., 1999).
In una concezione meccanicistica della pubblicità il problema non si pone
in quanto lo schema “pubblicità consumatore vendite” non prevede
alcun processo diverso, se lo stimolo è sufficientemente forte e persistente,
da una relazione di causa ed effetto e dall’instaurasi di risposte condizionate
(Fabris, 1996). Ma questo modello è ormai in disuso, poiché gli obiettivi
della pubblicità sono in larga parte di natura psicologica, quindi le tecniche
di controllo dell’efficacia sono rivolte principalmente alla misurazione di
funzioni psicologiche (Brasini et al., 1999) per cui rimane l’esigenza di un
basilare paradigma teorico (Mancini et al., 2010).
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I modelli dell’azione pubblicitaria, basati sulla logica stimolo-risposta, si
riconducono ad uno schema gerarchico, in cui la reazione del potenziale
consumatore si articola nelle tre fasi individuate da Rosenberg e Hovland
(1960) precedentemente esplicate: cognitiva, affettiva e comportamentale
(Brasini et al., 1999).
Fu nel 1898 che Elmo St. Lewis formalizzò il concetto di hierarchy of
effects con il noto modello Attenzione, Interesse, Desiderio e Azione
(AIDA) (Costabile, 1995; Strong, 1925): l’ordine gerarchico indica che
attraverso la pubblicità sarà possibile percorrere le quattro fasi secondo la
successione indicata, dalle risposte cognitive (attenzione e interesse) alla
risposta affettiva (desiderio) fino alla risposta comportamentale (azione)
(Mancini et al., 2010).
Anche nel modello di Lavidge e Steiner (1961) definito learn-feel-do
model (Grafico 1.1), le diverse fasi del processo di convincimento vengono
messe in relazione con le tre dimensioni basiche: cognitiva, affettiva e
conativa. Gli autori notano che queste tre funzioni della pubblicità sono
direttamente correlate al classico modello psicologico suddiviso in tre
componenti o dimensioni (Modello tripartito di Rosenberg & Hovland,
1960).
Grafico 1.1. Learn-feel-do model (Lavidge & Steiner, 1961)